14.1.17

Parole come sassi. Poesia e magia (Lidia Storoni)

Brenno e Marco Furio Camillo in una illustrazione da un manuale storico francese dell'Ottocento
In un eccellente saggio (Poesia e Magia; Einaudi 1971) Anita Seppilli dimostra, con vastissima documentazione, la valenza magica della poesia, del nome, della parola, il potere che essa possiede di rendere reale l'immagine evocata, sia che a pronunciarla siano gli dèi (Fato, viene da fari=parlare, è una cosa ormai detta e quindi irrevocabile) o che siano gli uomini. Incantesimo, sortilegio, augurio e malaugurio, benedizione e maledizione, anatema, esorcismo sono vocaboli carichi di remotissime forze arcane, ancora operanti nell' animo umano. Da essi si desume il perdurare, nel fondo atavico del nostro subconscio della certezza che "la voce dal sen fuggita" sortirà ineluttabilmente un effetto duraturo: chi da bambino non ha recitato la cantilena per farsi passare il singhiozzo ("Singhiozzo, bel singhiozzo - va in cantina, va nel pozzo...") o quella per vincere la paura ("San Michele aveva un gallo - bianco, rosso, verde e giallo...")?
Le fiabe, che trascinano fino a noi, come i ghiacciai le morene, residui di pensiero d'età immemorabile narrano spesso casi umani disperati; ma tutto si risolverà felicemente se verrà pronunciata una formula magica. Nei paesi dell' Alto Lazio, non si nomina mai un male inguaribile né un animale pericoloso, come la vipera; li si designa con circonlocuzioni: nominarli equivarrebbe a farli comparire immediatamente. Le persone possiedono un nome segnato all' anagrafe, ma compare solo sui documenti; di solito, vengono chiamate con un nome diverso affinché, se qualcuno ha voluto operare a loro danno un maleficio, non colga nel segno.
Non è stato mai rivelato il vero nome del dio tutelare di Roma, per evitare che fosse noto ai nemici e questi, in caso di assedio, potessero chiamarlo fuori con il rito della "Evocatio" e convincerlo ad abbandonare la città; pronunciò quella formula Scipione a Cartagine, Camillo a Veio e le due città caddero. Una legge delle XII Tavole minaccia pene severissime per chi pronunci un "malum carmen", ovvero butti il malocchio, sui campi del vicino per fargli seccare il raccolto. Sono state trovate moltissime tavolette di piombo, gettate in laghi o fiumi affinché se ne facciano latori presso le divinità infere coloro che sono annegati in quelle acque; più frequenti in acque termali, che si ritenevano scaturite direttamente dall' inferno, ad Abano come a Bath. Contengono l' auspicio che il rivale, in amore o in competizione sportiva, sia colpito dai mali più atroci, paralisi, cecità ed altri; il messaggio, si noti, designa il destinatario della maledizione non con il patronimico, ma con il nome della madre per esser certi che non vada smarrito (non si sa mai).
Imprecazioni crudelissime sono spesso incise sui sepolcri contro l'incauto che si azzardi a profanarli. A questo genere epigrafico appartengono certi proiettili di piombo, simili a grosse olive, che si lanciavano con la fionda. Sono state trovate sempre attorno a città che hanno subìto un assedio. Nel Museo di Perugia si conservano quelle che le truppe di Agrippa e di Ottaviano si scambiavano con le forze di Antonio e Fulvia, rinchiuse nella città. Alcune recano inciso un fulmine e sul retro l'augurio: Accipe (che si può tradurre: beccati un fulmine!), altre destinate ad Antonio e Fulvia mi astengo dal trascriverle; una infine degli Antoniani contro Ottaviano dichiara con precisione il punto dov'è diretta: "Peto culum Octaviani".


“la Repubblica”, 4 maggio 1994  

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