5.1.17

Prose di poeti. Le prime scoperte di Ignazio Buttitta

“La mia vita vorrei scriverla cantando; ma ho la chitarra scordate e la voce catarrosa”. Così inizia la breve e intensa scrittura autobiografica che apre La paglia bruciata, uno dei più bei libri di Ignazio Buttitta (1899 - 1997), il poeta di Bagheria, forse il maggiore del Novecento nella lingua siciliana. Vi si raccontano soprattutto frammenti di adolescenza e di giovinezza, del tempo in cui Buttitta aiutava il padre al banco della salumeria: la scoperta del sesso e l'amore per le donne, l'esperienza della ingiustizia sociale e della guerra. Ne riprendo qui le pagine conclusive. (S.L.L.)
IGNAZIO BUTTITTA, IL POETA IN PIAZZA
Le prime scoperte le feci da fanciullo senza scuole e senza insegnamenti. Non criticavo, non approfondivo, ma restavano a maturare nella mia mente. Quando mio padre mi diceva: chi ha pietà degli altri dà le proprie carni ai cani, io non capivo il significato di quelle parole. Diceva pure: sono rimasto orfano e nessuno mi diede mai un pezzo di pane. Mi cresceva con il fiato mia madre. Era analfabeta mio padre; ed io ho capito dopo, che il patimento distorce i sentimenti ed abbrutisce l'uomo.
L'ingiustizia la scoprivo nelle facce dei poveri, nei piedi nudi dei bambini, nelle condizioni dei braccianti che partivano all'alba con una cipolla e un pezzo di pane, e tornavano a sera strascinando i piedi. Ricordo: entrò in bottega un uomo e mi chiese una cassetta vuota. Non lo guardai in faccia: me ne sarei accorto; lo vidi poi passare con la cassetta in testa, portava al cimitero una bambina. Il padre era lui: un morto che accompagnava una morta.
Fu cosi che cominciai ad amare chi soffre, ma non era ancora il socialismo.
La guerra la feci senza capirne il significato. Sul Piave, giocavo, lanciavo pietre sul fiume: le facevo rimbalzare sul filo dell'acqua. Sul Piave, ho sparato. Ho qui sul tavolo i ricordi di un nemico ucciso: la fotografia e le lettere della madre. Glieli tolsi dalla tasca senza rimorso e con odio. Era piccolo come me, mi somigliava; col tempo somigliò ai miei figli; ora ai miei nipoti. Lo vedo disteso sull'argine del Piave preciso come prima. Più bello di prima! Io sono diventato vecchio, lui no.
Scrivo con amarezza, e non vorrei aprire le mani per non perdere la speranza. Andrò più tardi a trovare i miei amici, uno è Mario, il pazzo deluso per amore. È li nella piazza ad aspettarmi, seduto al bar, con il berretto sugli occhi. L'altro amico è un cane. Lo chiamano il cane dei morti. Gira il paese da un punto all'altro in cerca di pane muffito e di avanzi di cucina; ma se sente le campane suonare il mortorio, lascia l'osso da spolpare e corre ad accompagnare il morto. Segue il funerale a testa bassa, addolorato, e piange come piangono i cani. Lo stesso fa Mario, il pazzo deluso per amore. E se manca all'accompagnamento un figlio o una figlia del morto, si fa figlio e figlia, e li chiama, accorato, mutando voce ed accento: padre, madre, per ingannare il morto.


Da La paglia bruciata, Feltrinelli, 1968

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