13.2.17

Federigo Tozzi. Segni di apocalisse in forma breve (Gilda Policastro)

Scrittore tra i maggiori della prima metà del secolo scorso, Federigo Tozzi è emarginato nel panorama di oggi, dominato dall'imperativo della leggibilità e dei sentimenti 'formato famiglia'. «Qualche volta non posso fare a meno delle cose ripugnanti. Mi sento arrossire e ne provo una sensazione di rimorso; ma resisto per essere disgustato quanto è possibile, fino in fondo»: a esprimersi in questo modo sfrontato ed autocompiaciuto è un uomo che incontra clandestinamente una donna, anzi, «quella solita donna maritata», in casa di una sordida mezzana, e ne scrive a un'amica, una sorta di donna angelicata, contraltare di quella degradazione annunciata dall'incipit.
E non è che la promessa non venga poi mantenuta: l'uomo, nell'attesa dell'amante che tarda, si abbandona a un rapporto avvilente con la tenutaria della casa, una donna laida e abbrutita dalla miseria: «Ed io guardo questa donna di quarant'anni, sporca e puzzolente, quasi provando piacere. Ella se n'accorge e mi sta intorno, cozzandomi qualche volta. Non vedo i suoi capelli e il suo collo, ma soltanto le calze sdrucite con la pelle scoperta, e allora mi viene la tentazione di alzarle le sottane (…) Mi tremano le mani e non potrei parlarle: o l'uccido o cedo».

Donne allo stato brado
Scenario diverso, un esterno di città (Roma, nella fattispecie), ma identica degradazione nella figura della prostituta ridotta allo stato brado: «Quasi tutti le danno da mangiare come a una cagna bastarda. (...) Ha soltanto la veste e la camicia: solo d'inverno, anche le calze e le ciabatte a colori. Chi la vuole s'avvicina, le sorride e la porta con sé. Dice come si chiama, ma il suo nome se lo ricorda lei soltanto; e glielo cambiano sempre».
Le donne, in Tozzi, sono spesso così. Non solo le due donne delle novelle appena ricordate (Un pezzo di lettera e Il crocifisso), ma le donne nel loro apparire e nel loro associarsi tout court al disarmonico, allo sciatto, al deforme (Una gobba), all'incompiuto, al misterioso (in una parola, alla sessualità?) sono elemento narrativo denso di un simbolismo tutto rovesciato rispetto all'iconografia tradizionale, per cui la donna è canonicamente altera, bella, irraggiungibile, anche quando negativa o minacciosa come l'Aspasia leopardiana.
In Tozzi il mistero riguarda però non solo l'oggettiva presenza di queste figure di esseri marginali o abietti (anche se poi non ci sono quasi mai presenze neutre, sul cammino dei personaggi tozziani: ogni altro personaggio che ne incrocia il corso, è, al contrario, potenzialmente pericoloso, sicuramente perturbante, come evidenziato proprio dai tratti della deformità o mostruosità fisica), quanto piuttosto l'occhio che le contempla, che necessita, quasi, di quella degradazione, per darsi un senso, e per darne al mistero creaturale o, all'opposto, si dispone alla rinuncia alla propria identità codificata: «(...) sentivo che per parlare a quella giovane dovevo assolutamente dimenticare non solo la mia coscienza, ma anche ogni cosa della mia memoria».

Giovinezza esistenziale
Non per caso, secondo una interpretazione di Romano Luperini, la novella Il crocifisso termina con uno schianto dell'oggetto sacro: davvero un «atto misterioso», parafrasando la celeberrima definizione tozziana, non passibile di connessione con quel mondo «che Dio non ha finito di creare», descritto nell'esordio. Una sorta di genesi mancata, da cui le creature risultano incompiute, malfatte: «Vi sono vegetazioni tutte uguali tra sé; e sbozzature di bestie informi, che non possono muoversi dal loro fango perché non hanno né gambe né occhi». E meno che mai per caso, l'età privilegiata da questo autore è la giovinezza: una condizione esistenziale, prima che anagrafica, in cui la percezione del mondo è ancora (per immaturità consustanziale o per qualche impedimento intercorso) confusa e indistinta.
Ulteriore metafora di tale condizione è il difetto ottico, la limitazione alla vista (estesa alla parabola umana nella sua interezza, dalla prima giovinezza alla vecchiaia, nella novella Il cieco) esemplarmente ricondotta a metafora costituiva del romanzo maggiore, Con gli occhi chiusi. Dove la patologica inettitudine alla vita si rivela d'altro canto come l'unica forma possibile di autenticità. In particolare quanto ai giovani, stavolta soprattutto in senso anagrafico, per i quali il non vedere è un modo per rimanere nello spazio protetto dell'immaturità.
Altro tema tozziano cruciale è poi, difatti e conseguentemente, la rovina: nel Podere e in Tre croci, gli altri due romanzi maggiori, motivo di una disfatta sociale e materiale che si lega però all'inaccessibilità del bonheur, costituiva del personaggio primonovecentesco, andando da Zeno ai protagonisti pirandelliani. La novella è la forma privilegiata della messa in atto di questa impossibilità: per l'uomo che si è scoperto progressivamente spostato ai margini, della vita, della storia, della società, della famiglia. Uno fra tanti, che sarà il problema tipicamente pirandelliano, o uno distinto dagli altri proprio dalla sua inettitudine, come i personaggi di Svevo, che però a differenza di Tozzi prediligeva rematicamente la «senilità», il momento dei bilanci e dei memoriali, mentre i protagonisti tozziani permangono in questa sorta di fase preparatoria dell'infelicità irrimediabile.

La cifra della cattiveria
Ecco perché probabilmente, se la Coscienza di Zeno si chiude con la prefigurazione di una «ecpirosi», o fine del mondo (per esplosione, e quindi per eccesso), la novella Il crocifisso, lo dicevamo, si apre con una creazione, pure se «apocalittica» (Luperini) o in riduzione. Entro una redenzione al rovescio, in cui il Padre celeste, come sovente in Tozzi, finisce con l'essere una replica del padre terreno, biografico, o viceversa: entrambi figure assai poco protettive e volentieri minacciose. Nient'affatto banali le letture tozziane in materia psicologica: decisivo soprattutto William James (psicologo «sperimentale»), pure dal microcosmo senese in cui il nostro si forma e, per lo più, opera. Ecco che i rapporti primari, in particolare la figura del padre, si affrontano con una capacità di scandaglio impietosa e feroce: la cattiveria è la cifra di molte situazioni tozziane, specie quando riguardanti dinamiche di relazione improntate all'affettività (così nella già citata novella Una gobba, mai pubblicata dall'autore e però appartenente a una fase già matura, secondo un'accurata ricostruzione di Massimiliano Tortora, il quale, peraltro, la ritiene emblematica di una concezione del male e, nella fattispecie, dello snodo cruciale dell'interdipendenza tra aguzzini e vittime, tipicamente tozziani).

Sottili increspature
Così Pietro e il padre, in Con gli occhi chiusi, per la loro palese sproporzione fisica, non mancano di rimandare i lettori alla dominante della Lettera al padre di Kafka, con la forza bruta dell'adulto che sovrasta l'impubere, come nella scena tozziana della castrazione (riportata al suo contesto extrasimbolico nel romanzo succitato). Le bestie (o le creature imbestiate, si diceva) sono, evidentemente, gli esseri più esposti all'infelicità naturale e allo stesso tempo, nell'apparire imprevisto e incongruo della raccolta eponima, l'emblema del mistero della natura che, leopardianamente, non solo destina le sue creature all'infelicità, ma poi, come nel Dialogo della Natura e dell'Islandese (arcinoto), nemmeno «se ne avvede».
È ancora Romano Luperini a riflettere sulla connessione tra la forma breve, nella fattispecie la novella, e la nuova realtà che si profila letterariamente (e gnoseologicamente) a inizio Novecento: riprendendo una intuizione di Guido Guglielmi, Luperini evidenzia come in piena temperie modernista sia il racconto ad agire sul romanzo, problematizzando la realtà, piuttosto che l'incontrario. Ciò, tra l'altro, attraverso un'evoluzione del genere, che parte da Verga e arriva a Tozzi e Pirandello, e col transito dalla narrazione del caso eccezionale o tipico del naturalismo alla «normalità assurda» della novella «epifanica», che indaga la realtà immergendosi nelle sue «pieghe e increspature sottili».
Più in generale, a differenziare la novella dal romanzo è l'assunto (esposto con particolare chiarezza teorica da Pirandello in saggi assai poco noti e tutti da recuperare, come quello uscito su «Le Grazie» nel 1897: Romanzo, racconto, novella) che la vicenda romanzesca debba procedere attraverso la narrazione analitica, sviluppandosi per gradi evolutivi, e che, viceversa, nella novella l'accadere sia rappresentato sinteticamente, attraverso i suoi «momenti culminanti».
Non stupisce la marginalità di un autore come Tozzi, in un panorama letterario come quello contemporaneo, dominato dall'imperativo editoriale della leggibilità, e, soprattutto, dei sentimenti formato famiglia, anche quando moderatamente perversi o perturbanti. E stupisce ancor meno l'abiura contemporanea (riguardo alla denominazione, già dagli anni Trenta del Novecento, quando le si comincia a preferire la dicitura «racconto») di un genere di grande tradizione come la novella, che da Boccaccio a Pirandello ha sempre costituito la nostra forma privilegiata di narrazione, in un quadro altrimenti «anomalo» (per citare stavolta un noto saggio di Asor Rosa), quanto ad ampiezza e vivacità della forma romanzesca (salvo le isolate e luminose eccezioni).

Un finale aperto
Tornando al Crocifisso, e alla persuasiva lettura di Luperini, un altro elemento di irresolutezza (di questa, come di altre novelle tozziane) è esattamente il non finito inviso alla letteratura attuale, orientata al consumo garantito e seriale: la vicenda della novella parrebbe suscettibile di un qualche sviluppo quando il protagonista, che ha deciso di parlare alla prostituta alla ricerca di una indefinita condivisione, finalmente le si avvicina, ma lo schianto del crocifisso sveglia la donna. Punto. Non succede altro, anzi, non succede niente, come lamenterebbe un editor oggidiano. Di nuovo con Luperini: «qui il racconto si chiude, in modo aperto non meno che enigmatico (...) Non si sa infatti se il protagonista si deciderà davvero a parlare alla ragazza, né viene precisato (...) lo scopo per cui intenderebbe farlo». Inammissibile, impraticabile oramai.
Converrà rileggersi Tozzi, in attesa di tempi diversi, di mondi narrativi di nuovo imperfetti, sbozzati male. Federigo Tozzi era nato a Siena nel 1883. Compì svogliatamente studi tecnici, senza portarli a termine, preferendo trascorrere il tempo tra il podere di famiglia, a Castagneto, e la biblioteca comunale. Della sua scarna biografia si segnala soprattutto il rapporto tormentato col padre, uomo dai modi autoritari e violenti, che non comprese mai la passione letteraria del figlio. A 24 anni si trasferì a Roma per proseguire la relazione (iniziata per corrispondenza) con Emma Palagi, sposata qualche anno dopo, e da cui nacque il figlio Glauco. Nel frattempo, dopo una breve attività impiegatizia, grazie all'eredità paterna riuscì a dedicarsi interamente alla scrittura, nella villa di Castagneto. Trasferitosi nuovamente a Roma, alla ricerca di migliori riconoscimenti letterari e di collaborazioni giornalistiche di maggior prestigio (aveva intanto fondato la rivista «La Torre», di ispirazione cattolica), fu arruolato nella Croce Rossa, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Le sole opere pubblicate in vita furono «Bestie» (1917), «Con gli occhi chiusi» (1919), «Tre croci» (1920). Del resto della produzione fu incaricato Borgese (che cambiò, tra l'altro, il titolo dei Ricordi di un giovane impiegato, espungendone «giovane»), dopo la morte di Federigo, avvenuta a Roma, nel 1920, per una polmonite. Ricondotto forzatamente dalla critica all'alveo del naturalismo, solo a partire dal secondo Novecento (con Debenedetti, Baldacci e Luperini) ha ricevuto una più opportuna collocazione ideale nella corrente dell'«espressionismo», che racconta la realtà problematizzandola e deformandola, piuttosto che descriverla con la pretesa di spiegarla.


“il manifesto”, 5 agosto 2012

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