9.2.17

La ferita della parola. Malattia e scrittura nella vita di Virginia Woolf (Nadia Fusini)

Che Virginia fu molto malata lo sappiamo. Di pochi scrittori, credo, sia stato, con altrettanta dovizia di particolari, rivelato tutto. Lettere, diari, biografie, autobiografie di nipoti, amici, gente ancora viva, e pronta a parlare, a dire tutto di lei... : non ultimo il libro di Stephen Trombley, All that summer she was mad, scritto appunto per narrare le vicende, le fasi, le terapie della sua malattia... Ma questo non ci interessa. Sappiamo, non importa come, in fondo, che Virginia fu malata: di una malattia che ci appare prima di tutto come un certo tremore nel suo sguardo; o, se volete, come un'angoscia che segna la sua scrittura. A volerla definire, la sua malattia, credo che potremmo genericamente collocarla nel campo della follia maniaco-depressiva, come una serie di episodi maniaco depressivi che, con varie intensità, si ripresentarono nella sua vita, fino al più grave, il definitivo, quel punto di massima intensità che si registrò con il suicidio.
Ma non è, evidentemente, la diagnosi che qui ci interessa. Che mi interessa. Non sono né psichiatra, né psicoanalista. Mi riguarda, della Woolf, non la sua malattia in quanto appartenente al campo della psichiatria, e delle sue classificazioni; ma quanto della sua malattia, nel congiungersi con il fatto che lei è scrittrice, riguarda quella questione, centrale per la letteratura, del rapporto tra un soggetto e la sua parola.
Non questione psicologica, né psichiatrica, la malattia della Woolf è qui guardata come ciò che apre su una questione che direi metafisica : questione di un certo rapporto dell'essere rispetto alla sua posizione nel reale. Nella depressione, sappiamo, si sviluppa (o dovremmo dire s'arresta?) un particolare modo di rapporto al reale ; che è stranamente (o giustamente?) accordato, nel caso di Virginia, con il modo in cui lei prende posto nel reale in quanto scrittrice. Attraverso le sue malattie — che è lei stessa a definire «in parte mistiche» — Virginia si separa dal mondo, ed entra in un luogo, o terreno, che è lo stesso cui la conduce la sua vocazione di scrittrice.
Non dico che tra malattia e scrittura vi sia una forzosa alleanza: che sempre il folle è artista, e sempre l'artista folle. Non sto dicendo questo: dico che la malattia e la scrittura producono in Virginia un'incrinatura silenziosa che sentiamo lentamente progredire insieme nella vita e nell'opera. E non dico neppure che l'incrinatura sia auspicabile; ma è certo che la malattia ii Virginia le dona accesso a qualcosa ad avvicinare il quale la salute non basta. E se la salute non basta è perché v'è qualcosa che è stato pensato sempre e soltanto con la malattia; o se con la salute, solo ai suoi bordi.
L'angoscia, il timore, o il tremore, che derivano dal bordeggiare quel qualcosa, non sono che il segno di un certo pericolo cui certi esseri si espongono, e altri no. E lo spartiacque qui non è solo tra lo scrittore (il creatore), e l'uomo comune; vi sono scrittori che forse non hanno mai accostato davvero quel qualcosa, che con Beckett (che certo l'ha accostato) potremmo nominare l'innominabile. Altri invece i quali ritengono che nell'accostare questo punto consista tutta l'avventura dell'arte ; forse anche della vita stessa.
Comunque sia, se scrittore è colui che vive in relazione al linguaggio un rapporto estremo, un vero scrittore non potrà non aver sfiorato questo pericolo, foss'anche per un attimo. Così come, se non in tutti i «folli», forse, la malattia presenta la stessa gravità di sconnessione tra il significato e l'esprimibile, questa sconnessione tuttavia rimane, della follia, un tratto specifico, essenziale.
V'è nella malattia di Virginia (lei lo racconta in un saggio, On being ill, che tratta appunto di cosa significa essere malati) una lesione del dire. Forse poi la malattia, dice Virginia, non è che questo impaccio, quando una falla si apre, un'apertura si mostra, una spaccatura del dire (perché «for pain words are lacking»); sì che il dire sfugge al detto e il soggetto della parola non sa ristabilire il rapporto tra questi due tempi del parlare umano; non sa accordare l'esperienza del proprio voler dire al patrimonio del già detto.
Sul terreno, o nel luogo della creazione artistica, accade qualcosa che non è dissimile da ciò che accade nel terreno della malattia: anzi, la stessa distanza tra il significato e l'inesprimibile nutre la logica del poetico. In questo senso la malattia di Virginia non fu un caso: non fu né contingente, né passeggera. Non fu passeggera; sappiamo, al contrario, che non si risolse lungo l'arco della sua vita, anzi, la condusse fino alla morte. Né fu contingente; al contrario, la malattia non cessò di scriversi, fu cioè necessaria, come è necessario ciò che non cessa di passare.
Così quello che nell'opera di Virginia si presentò come la cosa essenziale dell'atto creativo stesso, nella vita alimentò il terreno della malattia. Virginia prese la vita, e la scrittura, nel modo più largo: come un'avventura dell'anima. In questo le due esperienze sono per lei una cosa sola, e vanno di pari passo; e ciò che si presenta nell'una, non può non ritornare nell'altra. Nella sua opera, allora, oltre il gusto, la delizia, il godimento della creazione, la felicità dell'espressione, troveremo dell'altro che verso di essa ci attira: qualcosa di più elementare e di più essenziale, come una precipitazione, un'emorragia centrale, che lascia l'anima sospesa, inerme rispetto alle fragili barriere che preservano, solitamente, una vita dall 'incontrare il proprio punto di fuga o di caduta.


“il manifesto”, 20 settembre 1984

Nessun commento:

Posta un commento