2.2.17

“La Pedagogia” di Pier Paolo Pasolini. La prima educazione nasce dalle cose

I primi ricordi della vita sono ricordi visivi. La vita, nel ricordo, diventa un film muto. Tutti noi abbiamo nella mente un’immagine, che è la prima, o tra le prime, della nostra vita. Quell’immagine è un segno e, per l'esattezza, un segno linguistico. Dunque, se è un segno linguistico, comunica o esprime qualcosa. Ti faccio un esempio, Gennariello, che a te napoletano suonerà esotico. La prima immagine della mia vita è una tenda, bianca, trasparente, che pende, credo immobile, da una finestra che dà su un vicolo piuttosto triste e scuro. Quella tenda, mi terrorizza e mi angoscia: non come qualcosa di minaccioso o sgradevole, ma come qualcosa di cosmico.
In quella tenda si riassume e prende corpo tutto lo spirito della casa in cui sono nato. Era una casa borghese a Bologna. Infatti, le immagini che concorrono con la tenda per il primato cronologico sono: una stanza con una alcova (dove dormiva mia nonna); dei pesanti mobili perbene; una carrozza, per strada, su cui volevo montare. Queste immagini sono meno dolorose di quella della tenda: tuttavia anche in esse è rappreso quel qualcosa di cosmico in cui consiste lo spirito piccolo-borghese del mondo dove sono nato. Ma se negli oggetti e le cose le cui immagini mi sono rimaste fisse nel ricordo, come quelle di un sogno indelebile, precipita e si concentra tutto un mondo di «memorie» che da quelle immagini è rievocato in un solo istante, se cioè quegli oggetti e quelle cose sono contenenti dentro cui è raccolto un universo che io posso estrarre da essi e osservare, nel tempo stesso, quegli oggetti e quelle cose sono anche qualcos'altro che un contenente.
Sono, appunto, dei segni linguistici, che, se a me personalmente rievocano il mondo dell’infanzia borghese, tuttavia, in quei primi momenti, mi parlavano oggettivamente facendosi decifrare come nuovi e sconosciuti. Ad essi non si sovrapponeva infatti il contenuto dei miei ricordi: il loro contenuto era soltanto loro. Ed essi me lo comunicavano. La loro comunicazione era dunque essenzialmente pedagogica. Essi mi insegnavano dove ero nato, in che mondo vivevo e, soprattutto, come dovevo concepire la mia nascita e la mia vita. Trattandosi di un discorso pedagogico inarticolato, fisso, incontrovertibile, esso non poteva essere, come si dice oggi, che autoritario e repressivo. Ciò che mi ha detto e insegnato quella tenda non ammetteva (e non ammette) repliche. Con essa non era possibile né ammissibile alcun dialogo né alcun atto autoeducativo. Ecco perché ho creduto che tutto il mondo fosse i1 mondo che quella tenda mi insegnava: ho creduto cioè che tutto il mondo fosse perbene, idealistico, triste e scettico, un po’ volgare: insomma, piccolo-borghese.
Altri “discorsi di cose” sono intervenuti poco dopo, e poi per tutta l’infanzia e la giovinezza. Spesso tali nuovi “discorsi di cose” (specie dopo la primissima infanzia) erano in contraddizione con quelli iniziali. Ho visto oggetti rustici in cortili di case povere; ho visto suppellettili e mobili proletari e sottoproletari; ho visto paesaggi non cittadini, ma suburbani o poveramente campestri eccetera, eccetera. Ma quanto ci è voluto, mio caro Gennariello, perché quei primi discorsi venissero messi in dubbio ed esplicitamente contestati dai successivi! La loro repressività e il loro spirito autoritario per molti anni sono stati invincibili: ho presto capito, è vero, che oltre al mio, piccolo-borghese, così cosmicamente assoluto, c'era anche un altro mondo, anzi c'erano altri mondi. Ma mi è sempre sembrato, per molto tempo, che l’unico mondo vero, valevole, insegnatomi dagli oggetti, dalla realtà fisica, fosse il mio; mentre gli altri mi sembravano estranei, diversi, anomali, inquietanti e privi di verità.
L'educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica — in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale — rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito.
La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo (almeno nella mia esperienza storica). Perché egli è stato fisicamente plasmato dall'educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo.
Le parole dei genitori, dei maestri e infine dei professori si sovrappongono cristallizzandolo su ciò che a un ragazzo hanno già insegnato le cose e gli atti. Solo l’educazione ricevuta dai suoi compagni sarà molto simile a quella che gli è stata impartita dalle cose e dagli atti: sarà cioè altrettanto puramente pragmatica, nel senso assoluto e primo della parola.
Anticipo inoltre subito che è enorme l’importanza dell’insegnamento della televisione, perché anch’essa altro non fa che offrire una serie di «esempi» di modo di essere e di comportamento. Anche se annunciatori, presentatori e altra feccia del genere parla (e parla orrendamente), in effetti
il vero linguaggio della televisione è simile al linguaggio delle cose: è perfettamente pragmatico e non ammette repliche, alternative, resistenza.


Il mondo, 10 aprile 1975 – Rubrica “La pedagogia”

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