2.2.17

Mussolini Mecenate. Una mostra nel 1982 (Natalia Aspesi)

Nel 1982 ci fu a Milano, città molto craxizzante, una mostra sulla cultura negli anni del fascismo trionfante che sembrò aprire la strada ad una rivalutazione. Al tempo non ne ero convinto, ma non dimentico che non molti anni dopo il milanese Berlusconi scongelò i neo o post di La Russa e di Fini e li portò al governo. Quello che segue è l'articolo di presentazione, assai brillante di Natalia Aspesi. (S.L.L.)
MILANO — Il rischio è che il fascismo appaia non solo esteticamente attraente — addirittura alla moda — ma anche conciliante, liberale, protettore e non repressore di artisti e intellettuali, i quali mai come in quel periodo se la godettero, furono fervidamente creativi, incoraggiati e ben pagati. «Per carità, credo che gli italiani siano in questo senso abbastanza maturi per giudicare senza nostalgia», dice Guido Aghina, assessore alla cultura, sostenitore entusiasta della mostra «Gli anni 30: arte e cultura in Italia», che si inaugurerà il 26 gennaio prossimo. «Sarà la prima mostra così ampia e così ricca su un decennio di vita italiana. Un atto doveroso di coraggio, che farà opera di verità sugli anni “belli” del fascismo, quelli del consenso. E’ troppo facile continuare a ricordare di allora solo il volto becero e violento; proprio per arrivare a un giudizio sereno, a una ragionata condanna del fascismo, è giusto mostrare anche quello che con il regime, o malgrado il regime, fu realizzato in Italia dai nostri artisti e dai nostri uomini di cultura».
C’è stata in ogni caso un’ultima ventata di prudenza, di autocensura. Non ci sarà, come qualcuno dei più arditi organizzatori voleva, ad attraversare piazza del Duomo, uno striscione con la minacciosa gigantesca firma di Mussolini e la frase da lui pronunciata poco prima di crollare, il 24 giugno 1943: «Venti anni di regime non sono passati invano nella vita italiana ed è umanamente impossibile cancellarli». E’ stato il comune sentimento del pudore a sconsigliarlo, dice Renato Barilli, coordinatore scientifico della mostra e membro della commissione incaricata dal Comune di Milano di progettare-manifestazioni.
Nella Galleria Vittorio Emanuele ci sarà la struttura di tubolare metallico realizzata da Nizzoli e Persico nel '34, sovrastata da un aereo Caproni, su cui verranno proiettati in continuazione film Luce dell’epoca; ma la voce del Duce non rimbomberà (come qualcuno aveva suggerito) per ricordare i tempi dei discorsi alle folle oceaniche nella piazza accanto. Nella piazzetta Reale ci saranno due lit-torine del 1934, ma private dei fasci dorati che le decoravano.

Una cappa protettiva
«All’esterno abbiamo fatto in modo di non esporre niente che potesse in qualche modo essere offensivo; tutto ciò che è vistosamente fascista, l’abbiamo riservato all’interno della mostra, in un contesto dove è più possibile capire, valutare, riflettere», dice ancora Renato Barilli. «Però deve essere chiaro che noi non abbiamo organizzato una mostra politica, non pensiamo affatto di fare un ennesimo processo al regime, né, tanto meno, una sua anche lontana rivalutazione. Come dice il suo titolo, noi abbiamo voluto una mostra essenzialmente d’arte, per mostrare quello che effettivamente è avvenuto in quegli anni nella produzione artistica italiana: nella pittura e nella scultura, nell’architettura e nella grafica, nel primo design industriale e nella moda, nel cinema, nel teatro, nella musica, nella letteratura, nella fotografia».
È impossibile però ignorare l’ingombrante e onnivora presenza del fascismo, in tutti gli aspetti della vita italiana, e soprattutto nella cultura. «La mostra chiarisce che il regime fu una grande cappa protettiva, sotto la quale ogni artista era libero di seguire la propria vocazione: nessuna corrente artistica divenne arte di regime, nessuna fu privilegiata rispetto a un’altra, nessuna fu messa al bando. Al contrario di quel che avvenne nella Germania nazista, nessuna forma d’arte fu da noi definita “degenerata”. D’altra parte, bisogna ricordare che almeno sino al ’37-’38, prima della folle politica razziale e dell’avvio alla guerra, gli artisti antifascisti erano assai rari, al massimo c’erano gli indifferenti: nessuno per esempio lasciò il paese, come furono costretti a fare gli uomini di cultura tedeschi».
Nel monumentale catalogo della mostra (Mazzotta, pagg. 680, lire 25.000), Barilli afferma: «Si sa bene che le polemiche tra le varie tendenze che entrano a comporre il nostro parallelogramma di forze, si combattono di frequente a colpi di fedeltà, presunta o reale, al verbo della “rivoluzione fascista”». Erano cioè più o meno entusiasticamente fascisti tutti: i maestri del Novecento e i futuristi, quelli di Corrente e gli astrattisti, i piacentiniani e i razionalisti, i neoselvaggi e i sei di Torino.

A caro prezzo
Affinché il pubblico non si innervosisca tra oggetti e quadri e fotografie e film che testimoniano di una vita culturale sino a un certo punto non provinciale, partecipe dei movimenti europei, piena di fermenti, sia pure organizzati dentro al regime, ci saranno due sezioni a ricordare la realtà greve e drammatica del fascismo. La prima, dedicata alla vita politica e sociale e curata da Giordano Bruno Guerri, avrà il compito di illustrare come in quegli anni di consenso popolare «il regime invase due nazioni inermi, partecipò a una guerra civile altrui, scatenò terremoti legislativi e sociali, ma soprattutto tentò freneticamente di trasformare in pochi anni il popolo italiano».
Di tutto ciò, dice Guerri, bisognerà tener conto passando per le 18 sezioni della mostra, a Palazzo Reale, all’Arengario, sotto il Sagrato, per non dimenticare quanto il popolo italiano, e poi il mondo, abbiano caramente pagato realizzazioni anche pregevoli, anche eccezionali. «Né bisogna dimenticare come una vita quotidiana — moda, arte e spettacolo — che oggi ci appare “graziosa”, attraente, piena di fascino (e lo fu), sia stata attraversata da eventi spesso drammatici, talvolta esaltanti o meschini, ma che avevano tutti la caratteristica di svolgersi sopra la testa della gente e, insieme, sulla sua pelle».
L’altra sezione di «riequilibrio», curata da Vittorio Fagone, è dedicata alla politica e propaganda: spiega come il fascismo si preoccupò soprattutto «del consenso degli artisti attraverso il gioco delle committenze, delle esposizioni, degli incarichi, degli acquisti: e si servì, per una propaganda alcune volte ingenua, ma anche in non rari casi efficace e suggestiva, di artisti dotati di buon talento». Il che conferma però che il fascismo fu un buon affare per tanti artisti e che, attraverso le grandi esposizioni, le Biennali e le Triennali, la mostra del Decennale e le Quadriennali, i premi Bergamo e Cremona, il grande uso di artisti nelle opere pubbliche (fissato poi con la legge che destinava il 2 per cento della spesa di un’opera pubblica per il suo abbellimento artistico), lo Stato fu un committente generoso per tutti i suoi solerti sostenitori.
Ciò che tuttavia sta più a cuore a Renato Barilli e ai suoi collaboratori, va oltre ogni polemica, troppo facile, sull’adesione italiana al fascismo, ed è, come si diceva, il tentativo di dare la più ampia testimonianza culturale di un’epoca. «Oggi non si può più puntare su un solo movimento, come si è fatto in passato: prima c’è stata la consacrazione ufficiale del Novecento, poi, nell’ottica della Resistenza, si sono rivalutati Corrente e la scuola romana; negli anni ’60 ci si è riappropriati dell’astrattismo lombardo.

I racconti murali
«Oggi, dopo l'esperienza postmoderna, si ritorna a privilegiare il Novecento, il realismo magico. La stessa cosa vale per l'architettura. C’è un ripensamento su Piacentini; in fondo, il funzionalismo di Terragni aveva un rigore che oggi incuriosisce meno delle proposte di architetti come Muzio o Portalluppi o Mezzanotte, che conciliarono la funzionalità con i piaceri dell’arco, dell’ornamento. Ma forse la parte più interessante e nuova della mostra è quella dedicata alla pittura murale, opera di regime, sociale, che iniziò proprio in Italia sotto il fascismo, ma che poco dopo fu sentita anche dal Messico rivoluzionario o dagli Start Uniti di Roosevelt. Mostreremo in grandi diapositive, le opere del Palazzo di Giustizia di Milano, i grandi racconti murali di Sironi, Fontana, Melotti, Funi, Savinio».
Sembravano orrendi, e anche un po’ ridicoli, quei grandi dipinti retorici e propagandistici; ma si sa, tutto torna di moda; adesso può davvero darsi che anche i visitatori della mostra milanese li trovino sublimi. Resta il fatto che in questa grande rassegna non dell’arte fascista, ma degli artisti italiani sotto il fascismo, e quindi fascisti, se è stato facile mettere insieme 400 opere d’arte, molto più difficile è stato reperire gli oggetti della quotidianità. La gente, subito dopo la guerra, se ne era liberata: li trovava bruttissimi, oppure sembravano tali perché testimoni di un regime che alla fine fu, fortunatamente, molto odiato. Il lavoro di ricupero, dice Anty Pansera, che ha curato le sezioni delle quattro Triennali fasciste e del protodesign, cioè dei primi oggetti disegnati e riprodotti in piccola serie, è stato faticoso e poco soddisfacente. Introvabili i mobili disegnati da Gio Ponti per la Rinascente, scarse le radio firmate da Figini e Pollini nel ’33 o da Albini nel ’38, o la ghiacciaia Algidus che anticipò la cantinetta oggi molto in voga. Ci saranno però oggetti straordinari ritrovati fortunosamente, tra cui un tandem Umberto Dei e una bicicletta dei Fratelli Vianzone di Torino, tutta in legno curvato, da oscurare Alvar Aalto.


“la Repubblica2, 12 gennaio 1982

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