19.2.17

L’ambizione totalitaria dei sovrani digitali (Paolo Bottazzini)

La democrazia è un’allucinazione, secondo Walter Lippmann. O almeno, lo è l’ideologia che pretende di riconoscere nell’uomo un impulso alla conoscenza di tutte le premesse di una decisione, senza l’assenso pregiudiziale alle istruzioni di un leader. L’unica volta in cui questa condizione si è realizzata è l’America dei pionieri, con i suoi villaggi di agricoltori e cercatori d’oro nel primo Ottocento. I presidenti Thomas Jefferson e Andrew Jackson ne hanno accudito l’autonomia, in modo che qualunque cosa potesse influenzare la vita dei contadini-coloni si trovasse nel raggio della loro percezione sensoriale.
Eppure i guru della democrazia diretta ignorano le obiezioni di Lippmann. L’ideologia che ha accompagnato lo sviluppo di Internet, ha interpretato le comunità di utenti collegati in rete come i cenobi dei Paesi contadini nell’epoca eroica della colonizzazione. Le bacheche elettroniche, i primi forum, sono apparsi come un ambiente in cui replicare la socialità del villaggio su un’estensione geografica ampia quanto un continente, o come l’intera superficie del globo. Alla fine degli anni Ottanta, Howard Rheingold ha redatto il saggio-manifesto di questa concezione: La comunità virtuale. Colonizzare la frontiera elettronica, uscito nel 1991. La retorica è quella della conversione e della profezia, mentre la dissertazione è un affresco dell’esperienza sulle bacheche di The WELL, il sistema di forum più longevo del mondo: risale al 1985, e – tra le altre – ha accolto le prime conversazioni tra i futuri creatori dell’Electronic Frontier Foundation.
La formula dell’ecumenismo di The WELL è l’annullamento di ogni mediazione: gli utenti della piattaforma non attingono a fonti di informazione esterne, lasciano emergere ogni conoscenza dalla discussione, depositano negli archivi delle conversazioni un sapere cui attingere per ogni aspetto della vita quotidiana. Solo il confronto tra gli iscritti può ispirare decisioni giuste: gli esperti che appartengono al mondo esterno, i professionisti della raccolta delle informazioni, l’intero mondo scientifico oltre il confine del forum, non possono arrogarsi alcuna autorità.
Sono le elezioni presidenziali USA del 1992 a chiarire la portata politica di questa concezione. Il magnate Ross Perot si presenta come indipendente, contro Bill Clinton e George Bush: a giugno è in testa nei sondaggi, mentre alle elezioni di novembre conquista quasi 20 milioni di voti (il 19% del suffragio popolare). Il risultato è dovuto al successo di due proposte: la riduzione delle tasse, e il passaggio ad una democrazia diretta. Perot ritiene che la Costituzione americana debba essere riscritta, perché gli estensori settecenteschi non conoscevano ancora Internet. Si deve superare la struttura rappresentativa delle istituzioni di governo, visto che oggi i cittadini possono essere convocati in ogni momento ad esprimere la loro posizione su qualunque tema. Basta un clic su un form di interrogazione online. Requisiti di sistema: l’impulso all’onniscienza, la preparazione su ogni argomento – e una certa propensione all’autoritarismo, con scelte per acclamazione.
Gli americani continuano a provare nostalgia per l’isolamento e l’epica dei loro villaggi contadini. Ma la rivoluzione industriale, la mercificazione del lavoro, la circolazione universale dei beni, la finanza, la guerra, hanno reso dipendente ogni individuo, e ogni collettività, da eventi che precipitano fuori dalla portata della percezione personale. L’informazione è il business più redditizio nell’epoca della knowledge economy, perché la mediazione di esperti, di dati affidabili, di testimoni remoti e di interpreti specialistici, è necessaria per qualunque decisione. Può sembrare paradossale allora che gli imprenditori alla guida dei giganti della Silicon Valley siano oggi gli alfieri della democrazia diretta.
Eric Schmidt, ex CEO di Google e presidente di Alphabet, descrive il parlamento americano come «un’opprimente macchina protettiva in cui le leggi vengono scritte dai lobbisti», mentre Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, dichiara che ormai grazie a Internet «la gente dovrebbe essere in grado di avere voce in capitolo, senza avere una grande struttura di milioni di persone organizzate e milioni di dollari raccolti per sostenere una causa particolare». Le istituzioni democratiche sono strutture costose votate all’inefficienza, quando non addirittura alla truffa e alla rapina.
Bisogna quindi affidarsi alle tecnologie digitali, perché chi le progetta non tesse gli intrighi nei palazzi del potere, ma appartiene alla classe «degli scienziati» (è ancora Schmidt che parla), che cercano «di creare uno specchio virtuale e sempre aggiornato del mondo» (lo incalza Marissa Meyer, CEO di Yahoo!). Internet è il riflesso neutrale della società, in cui diventa «possibile la connessione e condivisione delle proprie idee in modo semplice, per le persone con diversi background». Lo pensa Zuckerberg, riferendosi alla sua piattaforma, in cui un miliardo e mezzo di persone conversano su qualunque cosa, senza conoscerne quasi nessuna, ascoltando l’eco dei propri giudizi nelle parole degli amici cui somigliano di più.
Invece di «diminuire i conflitti nel mondo a breve e lungo termine», la frequentazione dei social media ha radicalizzato i contrasti politici, come ha evidenziato l’indagine del 2014 condotta dal Pew Research su 10 mila adulti americani. Vedere il mondo come ciascuno vorrebbe che fosse, anziché avvicinarne la realtà con senso critico, non favorisce di sicuro la democrazia. Ma agevola i software di Google, di Facebook, e dei loro simili a misurare ogni atomo del nostro desiderio e del nostro istinto, e a rivendere queste informazioni per offerte commerciali personalizzate. Offrire l’illusione di essere il capo del villaggio globale amplifica il controllo di chi registra ogni cosa, e gonfia il suo fatturato più di tutto l’oro del Klondike: non lo avrebbe immaginato nemmeno Zio Paperone, figuriamoci Thomas Jefferson.


Pagina 99, 12 novembre 2016

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