Cinque anni fa, nel
gennaio del 2012, la regione autonoma di Catalogna aboliva il
truculento spettacolo della corrida. Alias, il magazine del
“manifesto” salutò l'evento con il servizio che segue. (S.L.L.)
Ruben ha un corpo gracile
e una testa lunga che riesce a mala pena a tenere dritta sotto
l’arsura cocente di un tardo pomeriggio andaluso. Due occhi grandi
e vispi e lo sguardo innocente del marmocchio che di fronte a sé ha
un sogno fantastico. No, non vuole diventare un super eroe e salvare
il proprio Paese dal tracollo che i media spagnoli stessi danno, con
sadico cinismo, ormai imminente. Nemmeno calcare i campi di calcio
più famosi del mondo; non sa neppure chi siano Maradona o Cristiano
Ronaldo, tanto meno nutre qualche interesse per quel F.C. Barcellona
che proprio qui, a Granada, dove 620 anni fa con la cacciata dei mori
prese vita il Regno di Spagna, è odiato più di qualsiasi altra
cosa. Andalusia e Catalogna due mondi diversi uniti forzatamente
sotto la stessa bandiera e che dal 10 gennaio 2012, grazie a una
legge che vieterà sul territorio catalano la pratica del mestiere
ambito dal piccolo Ruben, rappresenteranno l’uno l’opposto
dell’altro. Ma non c’è più tempo per sognare, perché per Ruben
oggi è un giorno magico.
IL PICCOLO MANOLETE
Compie dieci anni e
secondo la legge spagnola ha il permesso di cominciare finalmente ad
allenarsi per realizzare il suo sogno: combattere nell’arena e
diventare il più grande matador di tutti i tempi. «Come Manolete -
esclama il padre - il più grande torero della storia!». Quando
Manuel Rodriguez Sànchez detto Manolete, la cui leggenda è stata
narrata recentemente in un film con Penèlope Cruz e AdrienBrody,
morì il 28 agosto 1947 in seguito a un’incornata del toro Islero,
il generalissimo Franco dichiarò ben tre giorni di lutto nazionale.
La mano che accarezzala fronte, il sole alto, la folla che affluisce
rumorosa nell’arena le urla del pubblico, il cancello che si apre e
il nemico, la bestia che entra infuriata scalciando. A riportare alla
realtà il piccolo Ruben ci pensa Don Joaquin Ruiz detto «E1 Ruilo»,
torero e insegnante presso la «Escuela taurina di Granada», la
scuola per toreri situata proprio nella locale Plaza de Toros:
«Vamos, Ruben, vamos a torear». Ruben si guarda intorno, compie un
giro su se stesso, ammirando l’edificio mastodontico che lo
circonda.
«EL RUILO», IL
GRANDE MAESTRO
Tutt’altro che
mastodontico è invece El Ruilo: fisico asciutto e malandato, fare
goffo da uomo di taverna il nostro non ha certo lo charme e il sex
appeal di leggendari personaggi quali Luis Miguel Dominguiz o Antonio
Ordónez, resi celebri dai romanzi di Hemingway. Conserva intatto,
però, l’analfabetismo del matador Juan Gallardo interpretato da
Tyrone Power nell’indimenticabile Sangue e Arena del 1956:
per scrivere l’autorizzazione a raccogliere materiale fotografico
El Ruilo si fa infatti aiutare da un solerte assistente. «Non è la
forza che fa il matador» spiega il maestro ai suoi alunni, una
ventina di ragazzi incantati, con reverenza di fronte a questo
analfabeta che chiamano professore. «Tecnica cervello e
concentrazione, tutto qui».
In fondo El Ruilo è un
uomo simpatico, anche se più che un eroico combattente sembra un
macellaio di paese. Ma quanti tori avrà mai ucciso nella sua
carriera? «Ottocento, novecento, cosa volete che ne sappia». E
dietro un amico che fe segno con le mani di abbassare il computo. «Il
primo nel 1971» ma poi subito dopo ci ripensa e si corregge: nel
1971 non aveva nemmeno cominciato ad allenarsi. Anche sull’età
mente: «Cinquantacinque» dice lui e dietro il solito amico che fa
segno di alzare. Racconta di essere stato ferito ben quattro volte.
In realtà le uniche corride di cui ha memoria sono proprio quelle in
cui le ha prese di santa ragione, con tanto di cicatrici a solerte
ricordo. Sorge il dubbio, infatti, che, El Ruilo, al colpo finale
scoccato con l'estoque, la spada usata per infliggere al toro
la stoccata dritta nelle cervella causandone la morte immediata non
ci sia mai arrivato. L’arena più prestigiosa in cui ha combattuto
è stata Valencia nel 1986: la folla che urla il suo nome, il toro
che avanza e boom, un’incornata all’inguine. «Non là specifica»
con tono da super macho che ci tiene a sottolineare l’efficacia dei
propri attributi. «Quelli funzionano ancora». Poco oltre il
cancello d’accesso all’arena si trova l’infermeria, ma El Ruilo
preferisce non entrare: «È un luogo che noi toreri non amiamo molto
- spiega toccandosi l’inguine, in ricordo della ferita, o anche,
per scaramanzia un poco più a lato - al torero non gusta la
tragedia». Accedere alla sala operatoria è come fare un viaggio
indietro nel tempo: piastrelle ingiallite alle pareti, macchinari
antichi, sterilizzatrici grandi quanto un cassonetto dell’immondizia
e un tavolo ambulatorio che, più che per salvare le persone, sembra
fatto apposta per macellare animali. Un silenzio spettrale, di morte.
Nella sala accanto, la cappella dove il matador si ritira prima del
combattimento per pregare. Riti antichi per uno spettacolo che oggi
sembra destinato a scomparire, se non fosse per i turisti che
affluiscono da ogni parte del mondo.
I SONDAGGI E IL
GRADIMENTO
Secondo un’inchiesta
realizzata dall’Istituto Gallup nel 2006, infatti, le nuove
generazioni spagnole non sono per nulla affascinate da quello che per
il pubblico straniero è il simbolo della Spagna stessa. Solo il
26,7% degli intervistati ha affermato di aver interesse per la
corrida mentre il 72,1% ne è assolutamente indifferente. Tra questi
spicca l’avversità delle donne, 78,5%, e dei giovani in un’età
compresa tra i quindici e i ventiquattro anni, l’81,7%. Eppure gli
investimenti nel settore non sono certo in diminuzione: 500 milioni
di euro in forma di sovvenzione pubblica nel 2006 e 600 milioni nel
2008. D’altronde si tratta di un business che tra feste, spettacoli
e souvenir fattura 2500 milioni di euro annui, dando da lavorare a
150 mila persone, tra cui 8301 professionisti. I matador in attività
nel 2010, secondo il Ministero degli Interni, sono stati 693. «Quale
mestiere più sicuro - rilancia El Ruilo - in questo momento di crisi
dell’economia nazionale?» «Menzogne - ribatte Lluis Villacorte,
un uomo piccolo e massiccio, con l’impeto energico di chi lotta per
una grande causa - È possibile che uno Stato come la Spagna debba
dipendere da un’attività barbara che tiene occupati lavoratori a
contratto giornaliero per non più di venti giorni l’anno?»
LA CATALOGNA DICE NO
Siamo a Barcellona: è il
26 settembre 2011 e Lluis mostra i quotidiani che lo ritraggono
ricoperto di vernice rossa come il sangue che sgorga dai corpi dei
tori macellati nell’arena. Il giorno prima presso la Monumental, si
è svolta l’ultima corrida della storia catalana. In seguito a
un’iniziativa popolare sostenuta da 180 mila firme, infatti, il
parlamento catalano ha approvato una norma che vieta gli spettacoli
taurini dal 1° gennaio 2012. Lluis, come sempre da sette anni a
questa parte, non avrebbe potuto certo mancare all’ultimo massacro
di tori nella sua città natia. «È stata una dura battaglia»
ricorda l’attivista che, come El Ruilo, porta le cicatrici
infertegli dagli avversari. «In questi anni mi hanno insultato,
minacciato, sputato, picchiato» racconta colui che è considerato
l’anima del movimento antitaurino catalano. «Anche stamattina
camminando per strada c’erano vecchi che mi urlavano ‘vergogna se
ci fosse stato Franco, saresti finito impiccato’; altri, ‘evviva
los toros’ e io a ribattere ‘certo, evviva los toros, abbasso los
toreros.’ Questi sono i sostenitori della corrida: vecchi
nostalgici della dittatura, gente che confonde tradizione e cultura
con violenza e inciviltà. Ma la Spagna di oggi è tutt’altra
cosa».
Daniel ed Elisa una
giovane coppia di studenti catalani che, seduti al tavolo accanto, ha
origliato la conversazione, si alza di fretta per stringere con
impeto la mano di Lluis: «Grazie. Ieri è stato un grande giorno.
Finalmente non dovremo più sopportare questa barbaria». Villacorte,
visibilmente commosso, rilancia: «Ora è la volta celebrativa sulle
mura dell’arena dove i toreri vengono per allenarsi. 450
chilogrammi di agilità e destrezza il toro Idilico riuscì a
guadagnarsi la grazia ma non la vita contro il matador José Tomás,
secondo gli esperti il più grande torero vivente, l’unico a
potersi veramente fregiare del titolo di erede di Manolete. Per
Idilico, tre giorni di agonia, poi la morte. Sta sfogliando l’album
delle fotografie del ranch la bellissima Nuria quando, ad un tratto,
l’immagine di un giovane vitello le appare di fronte: «Si chiamava
Malvestido» racconta la giovane fanciulla dalla pelle dorata. «La
madre morì durante il parto e, per evitare che perisse anche lui, lo
allattammo noi. Con il biberon, come si fa con i bambini». «Nuria
non faceva altro che andare a vedere come stava - ricorda il padre -
entrava nel recinto e giocavano insieme. Erano inseparabili». Un
piccolo cucciolo, Malvestido, proprio come Ruben, il marmocchio con
cui inizia questa storia. Ma che fine ha fatto il piccolo vitello
della foto? «Una volta diventato macho, maschio adulto, ha
combattuto con coraggio» conclude il custode, senza guardare negli
occhi la figlia. «Si è fatto onore e ha onorato questa finca».
“alias il manifesto”,
28 gennaio 2012
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