Jurij Tynjanov
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C'è un luogo non dei più
frequentati né dei più allegri in cui i fili della cultura russa
s'intrecciano con quelli della letteratura italiana: il gabinetto
anatomico di Fredryk Ruysch. Le mummie con le quali l'anatomista
olandese intrattiene il celebre dialogo leopardiano del 1824, vennero
difatti comprate in blocco da Pietro il Grande nel 1717 e trasferite
a Pietroburgo, dove andarono a costituire uno dei nuclei di base
dell'Imperial gabinetto di rarità scientifiche (Kunstkamera), che
dal 1724 diventa Museo dell' Accademia delle Scienze. È in questo
studio che, idealmente, s'incontrano Giacomo Leopardi e Fjodor
Dostoevskij, il quale nel 1873 scrive anche lui un dialogo dei morti,
Bobok. Ed è la Kunstkamera petrina che Jurij Tynjanov scelse
come punto d'osservazione della morte di Pietro e del processo di
disfacimento del suo titanico progetto, nel breve romanzo storico
Persona di cera (1931), che esce in questi giorni per la prima
volta in traduzione italiana (a cura di Igor Sibaldi, Editori
Riuniti).
Viktor Sklovskij ha così
descritto l' idea di questo racconto: “È morto un grand'uomo, che
desiderava impazientemente la novità, come il bene stesso. È morto
sommerso dall'odio, e dopo aver commesso molto di male, alla maniera
antica. Ma la sua grande volontà ha continuato ad esistere. S'è
messa in atto la forza d'inerzia della volontà d'un genio, ma in
forma contraddittoria. Allora, hanno spedito il suo ritratto un
manichino di cera nella Kunstkamera, come una rarità. In sostanza,
la storia postpetrina dell'impero russo è una storia antipetrina. La
struttura di questo intreccio è una metafora sviluppata. Per
intendere la metafora, bisogna prima di tutto intendere il secondo
termine di paragone, cioè il materiale storico-documentario sul
quale Tynjanov anche qui, come sempre, filologo e storico
puntualissimo ha costruito questa novella storica; che è la sua
seconda, dopo Il sottotenente Kitez (1928), e precede di
qualche anno la terza, Il minorenne Vitusisnikov (1933). Alla
morte di Pietro, Bartolomeo Carlo Rastrelli realizzò una statua di
cera del defunto, che venne poi rivestita con i vestiti autentici di
Pietro e ornata della sua parrucca. A questa persona di cera, legno e
fil di ferro, Tynjanov aggiunge, secondo ogni verosimiglianza (non è
forse il XVIII secolo, il secolo per eccellenza degli automi?), una
macchina simile ad una pendola, solo senza il quadrante, che le
permette di gesticolare. Si crea così una situazione paradossale e
fortemente metaforica: mentre nel palazzo imperiale la
neo-imperatrice Caterina per quaranta giorni fa tenere la bara
aperta, dove la salma di Pietro (che, malgrado l' imbalsamazione,
incomincia a decomporsi) è fatta oggetto di pianto e onori rituali,
il grottesco automa continua una vita, per così dire, meccanica,
nella Kunstkamera, dove viene relegato (non sapendo dove piazzarlo
altrimenti) tra le curiosità scientifiche più disparate: animali
strani impagliati, le mummie di Ruysch, ma anche la testa mozzata
d'un amante dell'Imperatrice, e infanti dorati per il grasso, color
limone, che nuotano nello spirito con le manine, e si danno la spinta
con i piedini, come rospi nell'acqua, nonché certi mostri viventi, a
cominciare dal guardiano Jakov, dalle mani con sei dita.
Intorno all'Imperatore
morente e poi morto, ruotano i personaggi che stanno per inaugurare
l'èra post-petrina. Il principe Aleksandr Danilovic Mensikov, in
primo luogo, tragica figura di farabutto, già amico fido e intimo
(fin nel letto) di Pietro, che accoglie con sollievo la notizia della
sua morte, perché ormai non poteva aspettarsi altro che il castigo
per le sue ruberie (quattro anni dopo, finirà esiliato in Siberia
dai suoi nemici dell'alta aristocrazia). Poi, la zarina Ekaterina I,
gratificata di puttana in quasi tutte le lingue dell'Impero russo, la
quale a dispetto delle lagrime coscienziosamente versate sulla bara
aperta per cinque settimane (due volte al giorno), per una mezzoretta
ciascuna ha accolto anch'essa con comprensibile sollievo il trapasso
del consorte, che già una volta l'aveva colta in flagrante. E infine
il mostro Jakov, che approfitta dello scompiglio suscitato da un
innocuo pesce d'aprile organizzato dalla neo-imperatrice, appena
inumato il Padre della Patria, per squagliarsela dalla Kunstkamera e
rifugiarsi al Sud, dove cinquant'anni dopo sarebbe scoppiata la
terribile rivolta di Pugaciov. Il fascino di questo breve romanzo
storico (parlo dell'originale russo) sta nella sua sapiente
realizzazione linguistica, o per meglio dire plurilinguistica, che
sottolinea e amplifica la risonanza metaforica della situazione (più
che di intreccio, qui mi sembra proprio il caso di parlare di
situazione).
In un volume uscito
quest' anno a Riga, a testimonianza del ripreso interesse per
Tynjanov da parte della cultura sovietica (Tynjanovskij sbornik,
edizioni Zinatne, pagg. 289, rubli 1,20), Z.N. Poljak definisce così
lo specifico del narrare d'autore in questa prosa storica di
Tynjanov: una stilizzazione arcaica con riferimento al punto di vista
dell'uomo medio d'età petrina, che raffigura il passato come
dall'interno. Si ha così una novella storica che nasce su un
progetto narrativo estremamente sofisticato, ma che si realizza in
maniera piana, espositiva. Unico artificio, peraltro molto scoperto,
è l'alternanza dei quadri (dentro e fuori il Palazzo, nella
Kunstkamera o nel palazzo di Mensikov, nell' atelier di Rastrelli e
così via), che Tynjanov mutuava dalla pratica d' autore di scenari
cinematografici (lavorò molto per il cinema in quegli anni, che
furono per lui gli ultimi del suo impegno di teorico e i primi della
consapevolezza del male terribile che doveva portarlo alla tomba nel
1943). Ma per tornare a Sklovskij: qual è il significato di questa
novella metaforica? Come tutte le metafore, anche quella che sta alla
base del racconto di Tynjanov è in realtà polisensa, cioè
suscettibile d'essere interpretata diversamente, a diversi livelli.
Certo, la persona di cera mossa dal congegno sotterraneo non può non
richiamare la vitalità postuma della personalità di Pietro; così,
la necessità di tenerla relegata fuori del Palazzo rimanda alla
diffusa volontà di por fine ai rivolgimenti petrini, pur formalmente
glorificando l'Eroe; e quella bara scoperta, che cos'è se non
l'immagine barocca della morte che ha la meglio sul progetto
titanico, pomposamente pianto e sepolto dagli stessi amici fidati,
dalla stessa imperial consorte? Ognuno, leggendo, potrà continuare;
ma non potrà fare a meno di scorgere, dietro a questi e ad altri
significati della metafora, un significato rapportato agli anni in
cui Tynjanov scrisse il racconto: quello derivante dalla presenza
sacrale, nel cuore di Mosca in un imponente mausoleo di granito
terminato giusto nel 1929-30 di un'altra figura di cera, il corpo
imbalsamato di Lenin, che per la Russia sovietica post-leniniana
finisce per svolgere la stessa funzione dell'effigie petrina, due
secoli prima. L' ambientazione, insieme macabra e grottesca, della
persona di cera nella Kunstkamera, è il segno che Tynjanov ha inteso
far vivere la sua metafora non già nella solarità della ragione
storica, ma tra i fantasmi onirici d'un incubo, dal forte sapore
espressionista. È probabilmente questo il miglior testo narrativo
che la moderna cultura russa ci ha lasciato sulla figura di Pietro il
Grande, degno di stare idealmente accanto al Cavaliere di bronzo,
il poemetto scritto nel 1833 da Aleksandr Puskin.
“la Repubblica, 10
dicembre 1986
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