6.2.17

Lo zar di cera. Un breve (e importante) romanzo su Pietro il Grande (Cesare G. De Michelis)

Jurij Tynjanov
C'è un luogo non dei più frequentati né dei più allegri in cui i fili della cultura russa s'intrecciano con quelli della letteratura italiana: il gabinetto anatomico di Fredryk Ruysch. Le mummie con le quali l'anatomista olandese intrattiene il celebre dialogo leopardiano del 1824, vennero difatti comprate in blocco da Pietro il Grande nel 1717 e trasferite a Pietroburgo, dove andarono a costituire uno dei nuclei di base dell'Imperial gabinetto di rarità scientifiche (Kunstkamera), che dal 1724 diventa Museo dell' Accademia delle Scienze. È in questo studio che, idealmente, s'incontrano Giacomo Leopardi e Fjodor Dostoevskij, il quale nel 1873 scrive anche lui un dialogo dei morti, Bobok. Ed è la Kunstkamera petrina che Jurij Tynjanov scelse come punto d'osservazione della morte di Pietro e del processo di disfacimento del suo titanico progetto, nel breve romanzo storico Persona di cera (1931), che esce in questi giorni per la prima volta in traduzione italiana (a cura di Igor Sibaldi, Editori Riuniti).
Viktor Sklovskij ha così descritto l' idea di questo racconto: “È morto un grand'uomo, che desiderava impazientemente la novità, come il bene stesso. È morto sommerso dall'odio, e dopo aver commesso molto di male, alla maniera antica. Ma la sua grande volontà ha continuato ad esistere. S'è messa in atto la forza d'inerzia della volontà d'un genio, ma in forma contraddittoria. Allora, hanno spedito il suo ritratto un manichino di cera nella Kunstkamera, come una rarità. In sostanza, la storia postpetrina dell'impero russo è una storia antipetrina. La struttura di questo intreccio è una metafora sviluppata. Per intendere la metafora, bisogna prima di tutto intendere il secondo termine di paragone, cioè il materiale storico-documentario sul quale Tynjanov anche qui, come sempre, filologo e storico puntualissimo ha costruito questa novella storica; che è la sua seconda, dopo Il sottotenente Kitez (1928), e precede di qualche anno la terza, Il minorenne Vitusisnikov (1933). Alla morte di Pietro, Bartolomeo Carlo Rastrelli realizzò una statua di cera del defunto, che venne poi rivestita con i vestiti autentici di Pietro e ornata della sua parrucca. A questa persona di cera, legno e fil di ferro, Tynjanov aggiunge, secondo ogni verosimiglianza (non è forse il XVIII secolo, il secolo per eccellenza degli automi?), una macchina simile ad una pendola, solo senza il quadrante, che le permette di gesticolare. Si crea così una situazione paradossale e fortemente metaforica: mentre nel palazzo imperiale la neo-imperatrice Caterina per quaranta giorni fa tenere la bara aperta, dove la salma di Pietro (che, malgrado l' imbalsamazione, incomincia a decomporsi) è fatta oggetto di pianto e onori rituali, il grottesco automa continua una vita, per così dire, meccanica, nella Kunstkamera, dove viene relegato (non sapendo dove piazzarlo altrimenti) tra le curiosità scientifiche più disparate: animali strani impagliati, le mummie di Ruysch, ma anche la testa mozzata d'un amante dell'Imperatrice, e infanti dorati per il grasso, color limone, che nuotano nello spirito con le manine, e si danno la spinta con i piedini, come rospi nell'acqua, nonché certi mostri viventi, a cominciare dal guardiano Jakov, dalle mani con sei dita.
Intorno all'Imperatore morente e poi morto, ruotano i personaggi che stanno per inaugurare l'èra post-petrina. Il principe Aleksandr Danilovic Mensikov, in primo luogo, tragica figura di farabutto, già amico fido e intimo (fin nel letto) di Pietro, che accoglie con sollievo la notizia della sua morte, perché ormai non poteva aspettarsi altro che il castigo per le sue ruberie (quattro anni dopo, finirà esiliato in Siberia dai suoi nemici dell'alta aristocrazia). Poi, la zarina Ekaterina I, gratificata di puttana in quasi tutte le lingue dell'Impero russo, la quale a dispetto delle lagrime coscienziosamente versate sulla bara aperta per cinque settimane (due volte al giorno), per una mezzoretta ciascuna ha accolto anch'essa con comprensibile sollievo il trapasso del consorte, che già una volta l'aveva colta in flagrante. E infine il mostro Jakov, che approfitta dello scompiglio suscitato da un innocuo pesce d'aprile organizzato dalla neo-imperatrice, appena inumato il Padre della Patria, per squagliarsela dalla Kunstkamera e rifugiarsi al Sud, dove cinquant'anni dopo sarebbe scoppiata la terribile rivolta di Pugaciov. Il fascino di questo breve romanzo storico (parlo dell'originale russo) sta nella sua sapiente realizzazione linguistica, o per meglio dire plurilinguistica, che sottolinea e amplifica la risonanza metaforica della situazione (più che di intreccio, qui mi sembra proprio il caso di parlare di situazione).
In un volume uscito quest' anno a Riga, a testimonianza del ripreso interesse per Tynjanov da parte della cultura sovietica (Tynjanovskij sbornik, edizioni Zinatne, pagg. 289, rubli 1,20), Z.N. Poljak definisce così lo specifico del narrare d'autore in questa prosa storica di Tynjanov: una stilizzazione arcaica con riferimento al punto di vista dell'uomo medio d'età petrina, che raffigura il passato come dall'interno. Si ha così una novella storica che nasce su un progetto narrativo estremamente sofisticato, ma che si realizza in maniera piana, espositiva. Unico artificio, peraltro molto scoperto, è l'alternanza dei quadri (dentro e fuori il Palazzo, nella Kunstkamera o nel palazzo di Mensikov, nell' atelier di Rastrelli e così via), che Tynjanov mutuava dalla pratica d' autore di scenari cinematografici (lavorò molto per il cinema in quegli anni, che furono per lui gli ultimi del suo impegno di teorico e i primi della consapevolezza del male terribile che doveva portarlo alla tomba nel 1943). Ma per tornare a Sklovskij: qual è il significato di questa novella metaforica? Come tutte le metafore, anche quella che sta alla base del racconto di Tynjanov è in realtà polisensa, cioè suscettibile d'essere interpretata diversamente, a diversi livelli. Certo, la persona di cera mossa dal congegno sotterraneo non può non richiamare la vitalità postuma della personalità di Pietro; così, la necessità di tenerla relegata fuori del Palazzo rimanda alla diffusa volontà di por fine ai rivolgimenti petrini, pur formalmente glorificando l'Eroe; e quella bara scoperta, che cos'è se non l'immagine barocca della morte che ha la meglio sul progetto titanico, pomposamente pianto e sepolto dagli stessi amici fidati, dalla stessa imperial consorte? Ognuno, leggendo, potrà continuare; ma non potrà fare a meno di scorgere, dietro a questi e ad altri significati della metafora, un significato rapportato agli anni in cui Tynjanov scrisse il racconto: quello derivante dalla presenza sacrale, nel cuore di Mosca in un imponente mausoleo di granito terminato giusto nel 1929-30 di un'altra figura di cera, il corpo imbalsamato di Lenin, che per la Russia sovietica post-leniniana finisce per svolgere la stessa funzione dell'effigie petrina, due secoli prima. L' ambientazione, insieme macabra e grottesca, della persona di cera nella Kunstkamera, è il segno che Tynjanov ha inteso far vivere la sua metafora non già nella solarità della ragione storica, ma tra i fantasmi onirici d'un incubo, dal forte sapore espressionista. È probabilmente questo il miglior testo narrativo che la moderna cultura russa ci ha lasciato sulla figura di Pietro il Grande, degno di stare idealmente accanto al Cavaliere di bronzo, il poemetto scritto nel 1833 da Aleksandr Puskin.

“la Repubblica, 10 dicembre 1986  

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