23.2.17

Torino 1917. Barricate in Borgo San Paolo (Camilla Ravera)

Torino nei primi anni del Novecento. Piazza Madama Cristina
Il 22 agosto 1917, durante la prima guerra mondiale, ebbe inizio la sommossa operaia a Torino provocata dalla mancanza di pane. La protesta si trasformò in ribellione contro la guerra. Nella città si alzarono le barricate, e gli scontri con l’esercito furono sanguinosi. Camilla Ravera, dirigente del partito comunista e deputata alla Costitutente, fu testimone (ne parla in Diario di trent’anni) di quei giorni, che per tanti aspetti rimandano agii scioperi del marzo ‘43, quando gli operai si ribellarono alla guerra, e alla penuria. Rileggiamo la sua testimonianza. (S.L.L.)
Camilla Ravera
Io ero uscita di casa, quel mattino, con Cesare, il minore dei miei fratelli, già iscritto alla Federazione giovanile socialista. Ci erano giunte notizie confuse dell'agitazione in corso: il movimento non era ancora arrivato nelle via adiacenti alla nostra casa. Ma, dopo breve cammino, incontrammo i primi gruppi di donne: erano inermi, ma procedevano risolute e compatte. I negozi abbassavano le saracinesche; gente nuova di mano in mano ingrossava le file dei dimostranti. Carri blindati sopraggiunti disperdevano qua e là la gente, che, però, tornava rapidamente a raggrupparsi e a marciare verso il centro della città. Poliziotti e carabinieri cercavano di bloccare le file, di disperderle.
In uno di tali momenti di scompiglio e confusione fui separata da mio fratello. Ricordo che procedevo sola, quasi trascinata in quel tumulto. Ad un tratto si udirono degli spari, rapidi, ripetuti: dalla folla si levarono grida di dolore e di sdegno; nella strada rapidamente si fece il vuoto e il silenzio. Una donna alta e robusta mi afferrò per un braccio e mi spinse dentro il portone di una casa che subito richiuse. Fuori continuavano gli spari. Nel portone alcune donne, ferme, serie, silenziose, ascoltavano. Poi ogni rumore cessò.
Il vecchio portiere uscì dalla sua guardiola; con voce sgomenta disse alle donne:«Ma che fate? Che volete? Mettere il mondo ancor più a soqquadro?».
«Pane e pace son cose che tutti vogliamo» disse una con calma.
«Sì, ma...».
«E dobbiamo muoverci, tutti insieme, per guadagnarceli».
Il vecchio non aggiunse parola. Se ne andò, scuotendo la testa in segno di desolato assenso.
Le donne riaprirono il portone e tornammo nella strada, dove la gente di nuovo rifluiva.
Più tardi, riavvicinandomi a casa, mi ritrovai, dopo uno di quegli scontri, sola, nella piazza Madama Cristina. La piazza era deserta, e distesa in un silenzio strano dopo tanta rumorosa confusione. Davanti al portone chiuso di una casa, due bambini sedevano a terra, chini sopra una scatola di biscotti. Mangiavano avidamente con il viso soddisfatto e ridente.
«Non fate indigestione» dissi: pensavo al modo con cui quella scatola doveva essere arrivata nelle loro mani.
«Sono dolci», disse il più piccolo, sorridendo con vero piacere. E quella beata soddisfazione esprimeva tutto il bisogno di zucchero, compresso dalla lunga privazione. Finii per consentire al loro entusiasmo:«Mangiateli. Ma andate a casa».
Accennando al portone chiuso alle loro spalle dissero:«Ci hanno chiuso fuori».
«Fatevi aprire».
E ripresi il cammino nelle vie silenziose, coi portoni socchiusi e le saracinesche abbassate. Un'anziana donna del popolo camminava davanti a me, lentamente e come interdetta. La raggiunsi. Si fermò smarrita: teneva in mano una scarpa da uomo, nuova, una sola. Mostrandomela disse: «Me l'hanno messa in mano. Non sapevano più quel che si facessero. Gettavano le scatole e distribuivano la roba, così», e sorrise, forse per l'inutilità di quella scarpa sola. Poi la depose pianamente sul davanzale di una finestra chiusa, e se ne andò, scuotendo il capo. E io mi sentii invadere all'improvviso da un'ondata di amore per quel povero grande popolo del lavoro, costretto al saccheggio.
Cesare rientrò a casa molte ore dopo, stanchissimo, eccitato. Era stato in Borgo San Paolo. Ci informò rapidamente degli avvenimenti: le donne, la folla, i tumulti, i conflitti, la barricata.
«Hanno incendiato San Bernardino» disse. «Quei frati, l'anno scorso avevano sorpreso dei ragazzi a mangiare frutti nell'orto della chiesa. Li avevano flagellati e terribilmente spaventati, radendo loro sul cranio, col rasoio, il segno della croce; poi li avevano consegnati alle guardie. Nella popolazione era rimasto il rancore. Stamane sono entrati nelle cantine del convento: c'era un vero magazzino di viveri, di tutto; in quantità grande. La gente s'è sdegnata: la contraddizione era troppo forte. E qualcuno ha appiccato il fuoco».
«Questa guerra infame, questa guerra di predoni contro predoni - commentò piano la mamma - distrugge tutto, nel profondo, oltre che trucidarci i figli».
Uno dei suoi figli, Giuseppe, era già caduto; Francesco era in trincea; Carlo scriveva dalla scuola di Modena che si preparava a partire per la stessa destinazione; Cesare stava per essere chiamato alle armi.
«Faremo finire la guerra - disse Cesare - e cambieremo tutto. Il socialismo vincerà».
Esprimeva la speranza che era al fondo di quella rivolta del popolo.
Il 24 agosto la lotta diventò più aspra e sanguinosa. La forza pubblica, l'esercito, passarono all'offensiva con mitragliatrici e tanks. Un reparto di alpini, dinanzi alla folla che gridava «pane e pace», non sparò. Ma altre armi furono puntate sugli insorti: le mitragliatrici spararono all'impazzata su coloro che resistevano, sulla gente inerme che fuggiva, nelle finestre, nelle porte, nei negozi. Combattimenti individuali ebbero luogo nelle vie e nelle piazze. Nel corso Regina i tanks avanzavano verso il passaggio a livello dove si diceva risorta una barricata. Gruppi di donne escono dai portoni delle case, rompono i cordoni, tagliano la strada ai carri blindati, che per un momento si arrestano; poi riprendono il cammino. Le donne si lanciano allora sui carri, si aggrappano alle ruote, supplicano i soldati di gettare le armi. I soldati non sparano; avanzano ancora lentamente, poi si fermano.

Avvenimenti, 24 marzo 1993

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