2.2.17

Tra saggi e romanzi le domande di Eco (Alessandro Zaccuri)

Era un aneddoto che Umberto Eco raccontava volentieri, perché riguardava il Medioevo, sua grande passione, e anche perché rivelava qualcosa del suo modo di vedere il mondo, di concepire la scrittura. «Mia moglie Renate – diceva – mi rimproverava di non guardare bene le scintille quando accendevamo in campagna dei falò di foglie secche; poi ha letto la mia descrizione dell’incendio nel Nome della rosa e mi ha detto: “Allora le scintille le guardavi!”. E io ho risposto: “No, ma so come poteva vederle un monaco medievale”». Un’immaginazione di secondo grado, che veniva sempre dopo qualcosa, annunciando e in qualche modo completando la fatica dell’erudizione.
Anche quando finiscono (Eco è morto venerdì notte nella sua casa di Milano, all’età di 84 anni, per le conseguenze di un cancro al pancreas), le storie vanno raccontate dall’inizio. Nel caso di Eco, però, il dato anagrafico è indispensabile, ma non sufficiente. Nascita ad Alessandria, il 5 gennaio 1932, da una famiglia di commercianti. Studi al liceo classico locale – il “Giovanni Plana”, al quale rimarrà legatissimo – e militanza nel ramo giovanile dell’Azione Cattolica, di cui diventa uno dei dirigenti nazionali. Il 1954, l’anno in cui si laurea in filosofia all’Università di Torino, è anche quello in cui lascia l’incarico, per valutazioni che al momento riguardano principalmente le scelte politiche dell’allora presidente Luigi Gedda. In realtà è l’inizio di un travaglio destinato a durare fino al 1962 e al termine del quale Eco non è più credente.
L’inizio vero della storia, forse, sta proprio qui, in questi otto anni di passione (Sette anni di desiderio è, com’è noto, il titolo di una sua raccolta di scritti giornalistici apparsa nel 1983) che stanno fra la discussione della tesi su Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, relatore Luigi Pareyson, e la pubblicazione di Opera aperta, il saggio nel quale il metodo dell’Aquinate viene messo a servizio delle avanguardie novecentesche. «La perdita della fede è qualcosa di difficilmente ponderabile – ammetteva Eco in un’intervista ad “Avvenire” del 1994 –. Si potrebbe anche tentare di offrire, provocatoriamente, una teologia alternativa, come a dire: non sono io che ho smesso di credere in Dio, è Dio che ha smesso di credere in me. Resta il fatto che allontanarsi da una religione rivelata non significa abbandonare la dimensione religiosa, la dimensione della domanda».
All’inizio degli anni Sessanta Eco non è solo uno studioso. Appena laureato, entra in Rai nel gruppo dei cosiddetti “corsari”, i giovani intellettuali che hanno partecipato ai corsi di selezione voluti dal direttore generale Filiberto Guala. Con lui ci sono, tra gli altri, Gianni Vattimo, Furio Colombo (che è già stato suo compagno d’avventura nella redazione del “Vittorioso”, il settimanale per ragazzi promosso dall’Azione Cattolica), il critico letterario e futuro direttore di Rai 3 Angelo Guglielmi. È un periodo di straordinaria vitalità culturale. Eco lavora a Milano, nella sede Rai di corso Sempione dove si trova anche il leggendario Studio di Fonologia musicale diretto dal compositore Luciano Berio. «Ci passavano Maderna, Boulez, Pousseur, Stockhausen – ricordava –. La sera, a casa di Berio, mangiavamo la cucina armena di Cathy Berberian e si leggeva Joyce».
Prende corpo quella che Eco stesso, in uno dei suoi interventi di fiancheggiamento alla neoavangaurdia del Gruppo 63, definirà «la generazione di Nettuno»: se i padri, i grandi innovatori affacciatisi all’alba del XX secolo, appartenevano all’operosa stirpe del fabbro Vulcano, i figli e i nipoti sono palombari dell’immaginazione, il loro lavorio, «lento e sotterraneo, emerge solo dopo lunghi tratti». Non accendono il fuoco e neppure lo contemplano, se non attraverso lo schermo della citazione appropriata, del riferimento funambolico. La mescolanza di cultura alta e cultura bassa, si ripete oggi. In realtà, è la cultura alta che si esercita sulla materia vile del pop, dei media, delle canzonette, della tv in particolare. Un contributo sotto ogni aspetto epocale come Fenomenologia di Mike Bongiorno (apparso in origine nel 1961 e raccolto due anni più tardi nel fortunatissimo Diario minimo) è espressione di questa complessità. Eco si maschera da entomologo della comunicazione, ma le sue osservazioni sono sostenute da una conoscenza diretta, artigianale, del mezzo televisivo. A differenza dell’amico Gianfranco Bettetini, non pratica la regia dei programmi, ma non per questo ne ignora le malizie. L’impegno in Rai si svolge in parallelo alla marcia di avvicinamento alla cattedra in Semiotica, che lo studioso ottiene all’Università di Bologna nel 1975. Nella sua bibliografia figurano già titoli come Apocalittici e integrati (1964), La struttura assente (1968) e il fondamentale Trattato di semiotica generale. A breve si aggiungeranno Il superuomo di massa (1976), Lector in fabula (1979) e numerosi altri saggi che segnano profondamente lo spirito del tempo.
Docente appassionato e all’occasione severo (valutò negativamente una tesina del suo studente Pier Vittorio Tondelli perché troppo letteraria e non abbastanza scientifica), Eco è il commentatore arguto e sapiente che ogni settimana firma “La bustina di Minerva” sull’“Espresso”, è un bibliofilo impenitente e, nello stesso tempo, una voce molto ascoltata su tematiche politiche e sociali. L’esordio come narratore, in un certo senso, sorprende perfino lui. Il nome della rosa era, nelle intenzioni, poco più di un divertimento accademico che Valentino Bompiani, il suo editore, pubblica nel 1980 in poche migliaia di copie. Il successo è immediato e impressionante: il premio Strega, le traduzioni internazionali, il film interpretato da Sean Connery, le vendite che sfiorano quota dieci milioni.
Ambientato in un Medioevo nel quale le indagini di Sherlock Holmes si intrecciano alle fantasie metafisiche di Borges, Il nome della rosa è anche il libro da cui scaturisce in Italia la polemica sul postmoderno. Eco è accusato di patrocinare una narrativa combinatoria, sfuggente, ordita per soddisfare le esigenze di quell’industria culturale che lo stesso scrittore aveva in precedenza avversato. I romanzi successivi, dal Pendolo di Foucault (1988) a Numero zero (2015), passando per L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) e Il cimitero di Praga (2010) giustificano almeno in parte le critiche. Eco, però sostiene di partire da un assunto diverso. «A quanto pare – dichiarava nella già ricordata intervista del ’94 – senza accorgermene, scrivo sempre romanzi teologici». E ancora: «Non so dire quale sia esattamente l’idea attorno alla quale, per me, tutto ruota. Forse il problema se il mondo esiste». Nel 2012, in una conversazione con “Avvenire” favorita dalla pubblicazione dei suoi Scritti sul pensiero medievale, aggiungeva: «Sono convinto che viviamo sommersi da falsificazioni, dalla menzogna come strumento di potere e di manipolazione del consenso, dalla diffusione di false notizie come arma di destabilizzazione. Questo è il Diavolo».
In che cosa crede chi non crede? è il titolo del suo carteggio con il cardinale Carlo Maria Martini, svoltosi a metà degli anni Novanta e riproposto nel 2014 da Bompiani, la casa editrice che ha in catalogo quasi tutta la sua opera, compresi i saggi dell’ultimo decennio, tra cui andranno ricordati Storia della bellezza, Storia della bruttezza, Vertigine della lista e Storia delle terre e dei luoghi leggendari. Questa lunga consuetudine non gli aveva impedito di unirsi, nel novembre scorso, all’impresa della Nave di Teseo, la nuova sigla editoriale lanciata da Elisabetta Sgarbi in risposta all’acquisizione di Rcs Libri (di cui Bompiani fa parte) da parte di Mondadori. Un’impresa che Eco aveva scelto di sostenere anche economicamente e alla quale aveva voluto contribuire con Pape Satàn Aleppe, una raccolta di scritti sulla società contemporanea la cui uscita è ora annunciata per il 27 febbraio. Titolo beffardo, come nello stile di Eco, ma si sa che tra i saggi ce ne sarà anche uno su papa Francesco. In lui l’esegeta della Summa Theologiae riconosceva un erede dei gesuiti che nel Seicento avevano realizzato le reducciones a beneficio degli indios del Paraguay. Erudizione o non erudizione, questa volta il fuoco Eco lo aveva guardato davvero.

“Avvenire”, 21 febbraio 2016

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