FIRENZE - Cadono, rade,
le prime gocce di pioggia quando, dopo una strada tutta tornanti,
arrivo a una pompa di benzina a poche centinaia di metri dal
microscopico paese di Consuma, fra gli abeti. Carlo Betocchi sta
parlando col benzinaio. Ha 85 anni. Oltre che un poeta che in questi
giorni fa parlare di sè, è uno dei "ragazzi del ' 99":
"volontario per salvare la Patria, certo, volontarissimo, come
Bargellini, come tutti noi. Caporetto me la ricordo perfettamente, il
cavallo che moriva sgroppando in aria, il generale che fucilava
tutti... l' ho scritto, del resto, in un libro che ho intitolato
proprio Caporetto". Mi presenta l' uomo del distributore come
"il mio unico amico". Ride. E mentre ci allontaniamo in
fretta (la pioggia incalza) verso la pensioncina in cui trascorre
questo agosto così lungo e vuoto che perfino un cambiamento di tempo
è un avvenimento, aggiunge, non si sa se per me o per se stesso:
"eh, la vecchiaia... la solitudine... la mancanza di
interlocutori...".
Vecchiaia e solitudine:
come in Saba, come in Rebora, sono fra i temi portanti della sua
poesia. E lo si vede bene dal grosso volume che Mondadori ha messo
fuori in questi giorni nella collezione de I poeti dello Specchio,
che raccoglie, come dice lo stesso titolo, Tutte le poesie
(introduzione di Luigi Baldacci, note di Luigina Stefani, pagg. 668,
lire 30.000). Vi sono riunite tutte le sue precedenti raccolte più
un cospicuo numero di Poesie disperse e inedite che dà al
volume un carattere di assoluta novità e che, come già le tarde,
Poesie del sabato, insistono su quella che potremmo chiamare
la condizione senile.
Una, la cita Baldacci
nell' introduzione: "Ma è pur vero che ai vecchi,/ privati
della bellezza,/ resta quel segno, nell'anima/ del suo veloce
apparire/ e sparire, quel solco di cosa/ esistita, che sanguina
ancora,/ grave, nella coscienza;/ ma che, goccia a goccia, va poi/
lentamente affondando in un quasi/ in un quasi livore/di bianca
innocenza..." Lo si direbbe un autoritratto. Scintille
d'allegria infantile e momenti di opacità e lontananza si alternano
nel mio interlocutore, che appare anche, in qualche modo, incurante.
"E' contento del nuovo libro?" gli chiedo. "Contento,
sì, contentissimo. Certo non sono stato lì a rileggermi". E
poi, dopo una pausa: "Gli inediti però li ho riletti, e mi sono
piaciuti. Sì, mi piaccio ancora. Gli inediti. Li ho trovati
eccellenti. Se non fosse per quella mai abbastanza lodata Luigina
Stefani... ha avuto una pazienza... è andata a frugare in tutti i
miei taccuini di geometra: io sono geometra, sa? I miei compagni di
vita non sono mai stati i poeti, i letterati, sono stati gli uomini
dell'Anas, delle imprese di costruzioni. Potevo diventare geometra
capo di tutta la Cirenaica, ma la mia mamma era vedova, c'era bisogno
di me, che tornassi nel Mugello...". "E allora gli appunti
li prendeva sul lavoro, se li metteva in tasca fra mappe e
misurazioni?...". "Eh, sì, è così. E' la realtà che mi
ha sempre ispirato, una realtà sopra la realtà, come un'
accettazione, una consonanza... Però, vede, la realtà non sono solo
le cose che si toccano. Sono anche quelle che si toccano con la
mente. Ricorda, in Manzoni, quando c' è la donna con la bambina in
braccio, che la porta ai monatti? Ecco: quella è una cosa dentro di
lui che è totalmente umana, anche se il fatto è lontano. I temi si
sviluppano con una possibilità di accordo, di accettazione delle
cose, come dicevo. In questo modo scrive anche Pasternak: dice, e,
sotto, esprime un giudizio che rientra nell' orbita dell'
universalità degli avvenimenti. Tutto è universale. I motivi per
cui ho sofferto, la realtà, ho tentato di renderli palesi con la mia
scrittura".
Laura Lilli |
"Lei è considerato
un poeta cattolico, anche se, dopo un inizio di cattolicesimo, più
osservante, ci sono state delle burrasche. È ancora oggi un uomo
religioso?". "Religioso, sì, religiosissimo. Ma di una
religiosità cosmica". "In testa a una sua poesia lei cita
una frase di Einstein: "Mi sento così solidale con ogni corpo
vivente che non m'importa dove comincia e dove finisce l' individuo".
E' questo il suo pensiero, oggi?" "Oh, sì. Einstein
definisce molto bene quello che io sento. La religiosità formale mi
urta: quella teatralità, processioni, cantici, non mi tornano.
Intendiamoci però: il Cristo rimane per me fondamentale: venerabile
e venerato. Non il Cristo di Papini. Anzi quel libro sul Cristo non
mi piace. Papini con me e la mia poesia non c'entra: l'hanno scritto
ma non è vero. "Sì, sono stato a visitarlo quand' era in una
casa di cura. Ma con me aveva a che fare solo come un'umanità che mi
è prossima, non letterariamente. Vede, io a volte dico, muto, dentro
di me: Gesù, Giuseppe, Maria, salvate l' anima mia. Ma lo
dico come farei un esorcismo, quando so che sto per tuffarmi
nell'angoscia: e quei tre li vedo tapini come gli altri, spersi in
questa esistenza. La morte non mi fa paura, no. Magari arrivasse! Non
avrei paura nemmeno del suicidio: ma non posso farlo, perché
lascerei un senso di colpa ingiusto sui miei figlioli, specie su mia
figlia: loro non hanno fatto nulla di male, e io non potrei
lasciargli questo peso. Certo che sono religioso: ma in un modo
ampio, che crede nella carità e nell'universo".
"Ricorda i tempi di
Bargellini e del Frontespizio, quando lei cominciò?..."
"Glielo ho detto che non ho cominciato col Frontespizio,
che c' è un precedente con Caporetto... lo sa che Montale, a Parma,
fece il corso allievi ufficiali dopo il mio?". "Va bene, ma
comunque lei era vicino a Bargellini...". "Ah, questo sì.
E nell' animo di Bargellini e Betocchi fanciulli c' è La Voce
di Prezzolini (quella che dura fino al ' 14. Poi c' è quella di De
Robertis, fino al ' 16, ma è un' altra cosa). Sono nato lì, con
Prezzolini, anche se mutamente, dentro di me. Ricordo un articolo di
Serra, uno di Rebora per me essenziali: essenziali per la condizione
umana, per l'innamoramento totalmente carnale e religioso. Al letto
di Rebora ci andai, poco prima che morisse. C'era Scheiwiller, si
fece una piccola società di mutuo soccorso...". "Prezzolini
l' ha rivisto più tardi, nella vita?" "L' ho rivisto
quando ci chiamò Pertini. Pertini gli disse: 'Senta, non voglio
sapere cosa faceva in America', lo trattò cortesemente".
"E a lei che disse?"
"Niente. Mi diede un foglio bianco, che sopra c'era scritto:
cinque milioni. Mi interessava solo che il carabiniere che stava lì
presente durante tutta la cerimonia non mosse mai i pollici. Deve
essere proprio una disciplina faticosissima quella dei carabinieri".
"Torniamo al
Frontespizio, vuole?" "Sì. Però bisogna dire che
Il Frontespizio ebbe un precedente nel ' 23, col Calendario
dei pensieri e delle pratiche solari, del sottoscritto, di
Bargellini e del pittore Pietro Parigi. Poi, non mi ricordo l' anno,
mi pare verso il ' 29, nacque l'idea di fare Il Frontespizio
come rivista. L'ha raccontato tutto Carlo Bo, in Letteratura come
vita. Ad ogni modo: Mussolini diede il permesso di fare una
specie di "fiera del libro", per una giornata. La Libreria
cattolica aveva un tavolino, e invitava gli scrittori a dare un
contributo. Bargellini non stava più in una casetta come un
poverino. Insegnava in molte scuole campestri, non solo a leggere e
scrivere, ma anche cosa dovevano fare questi contadini...".
"E più tardi ebbe
rapporti con gli ermetici? Luzi, Carlo Bo, la rivista Campo di
Marte?" "Luzi, il suo ultimo libro è bellissimo. Mi
piace di più quando racconta che era nato povero, vicino a Castello.
Nei saggi critici del Discorso naturale che gli ha pubblicato
Garzanti parla bene di me, mi dedica un saggio. Ma no, non ci siamo
mai frequentati. I miei compagni di lavoro erano nelle imprese
stradali, gliel'ho detto. Io poi nel '38, all' epoca di Campo di
Marte, stavo a Venezia, dove mi aveva chiamato il direttore del
Conservatorio. In tempi più recenti vedevo Gatto, quando veniva a
Firenze: in particolare con Alfredo Righi, erano compagnoni. Un altro
poeta che ho conosciuto era Saba. Andai apposta a trovarlo a Gorizia.
Stampai una poesia a Bologna e lui mi amava. Anche lui era una poeta
della vecchiaia. A proposito: voglio dirle una cosa sulle mie Poesie
del Sabato".
"Vale a dire?"
"Avevo i testi belli e pronti, ma non si riusciva a batterli a
macchina. Lo fece Altisani, che scrisse anche la prefazione. Una
bella prefazione. Non era conosciuto e Marco Forti, che curava Lo
specchio, non lo voleva. Io dissi: 'o tieni la prefazione o le dò
a un altro'. La tenne. Non sarebbe mica stato giusto, solo perché
non era conosciuto... e tutta quella fatica a battere a macchina...
lo si faceva in cucina... io in casa ero rimasto solo. Quando veniva
la donna con la spesa le si diceva 'sta zitta' e noi s'andava avanti
mentre lei magari puliva la verdura. Altisani aveva una macchina
bellissima che faceva anche le correzioni. Eh, ce n' è de' bei
poeti. Caproni, per esempio".
Una pausa. Carlo Betocchi
è stanco. La nostra intervista si è trascinata per l'interno della
pensione: prima nella sala comune da dove però ci ha scacciato un
pensionante che voleva vedere le Olimpiadi alla Tv, poi nella sua
stanza piccola, monacale. "Non parliamo più", dico,
"vuole?" "Sì; ma resti ancora un po', chè tutti
questi ricordi mi si spengano nella testa". Scendiamo a prendere
una spremuta d' arancio. Mentre Betocchi beve, in silenzio, io
ripenso a un' altra sua poesia "inedita e sparsa": "A
quest'età la vita che rallenta/si riveste d' una grossa
corteccia/entro la quale l' anima non è meno/tenera, ma soltanto più
solitaria..."
“la Repubblica”,18
agosto 1984
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