27.3.17

Enrico Berlinguer, mite e implacabile (Laura Lilli 1984)

PADOVA
Amante del balletto e dell'opera (l'ultima che aveva visto era il Parsifal di Wagner a Roma). Lettore di romanzi (ne aveva appena finito uno di Marguerite Yourcenar). Giocatore di ramino. Appassionato di calcio. Tifoso del Cagliari. Innamorato del mare e della vela: andava, quando poteva, sulla barca del cugino, a Stintino, manovrando con destrezza rande e fiocchi. Questo era, fuori della politica, Enrico Berlinguer. E ancora: legatissimo alla famiglia. Tutti i Natali insieme al fratello Giovanni e a Giuliana, la cognata regista Tv; mai un'ora di vacanza senza almeno uno dei quattro figli (di solito tutti), visite regolari alla ultranovantenne zia Iole Siglienti ogni volta che metteva piede a Cagliari. Risate scomposte quando vedeva la faccia di Roberto Benigni, ancora prima che questi dicesse la sua battuta (famosa la foto di lui, ridente, in braccio al comico, due anni fa al Festival di villa Borghese). Invece le vignette di Forattini non le capiva quasi mai. "E' un nostro nemico", ripeteva.
Per dodici anni (da quando è stato eletto segretario del Pci) la caccia al Berlinguer "privato", "umano", "quotidiano" è stata l'obiettivo mai raggiunto di direttori di giornali e di politologi in vena di "risvolti" o "chicche". Ma si sono immancabilmente scontrati contro un muro di granito. Berlinguer ha sempre rifiutato la politica-spettacolo; e, per quanto fra i suoi meriti politici vada senza dubbio ascritto quello di avere "capito" il femminismo, il principio femminista che "il privato è pubblico" non è mai stato suo. I cronisti politici - i cacciatori delusi - si sono consapevolmente o meno, vendicati del ricorrente insuccesso usando per lui un bagaglio di parole opache, sempre le stesse: "tetro", "cupo", "introverso", "serioso", "grigio" che ne hanno dato un'immagine remota, esangue e, tutto sommato, antipatica. E c'è una certa agra ironia nel fatto che proprio in questo momento di tragedia il muro del "privato" si sfondi e lasci intravedere, di quest'uomo appena morto, un'immagine tanto diversa da quella di maniera.
Infatti, mentre Berlinguer lottava con la morte, mille sussurri intorno a lui parlavano fitti, ossessivamente, della sua "umanità". Raccontavano aneddoti, cose viste personalmente o riferite da amici: come se questo accanito parlarne potesse tenere lontana la morte. Erano voci anonime: uomini della "vigilanza", "vecchi compagni della Fgci" venuti da altre città per essergli vicini in questo momento definitivo e magari bloccati dalla polizia fuori dell' ospedale, fotografi che lo ricordavano durante comizi e che aspettavano, macchina alla mano, che le "autorità" uscissero dal bianco corridoio dell'ospedale in cui si aggiravano, angosciati, oltre al fratello Giovanni e alla famiglia, alcuni dirigenti del Pci e i suoi fedelissimi: il capo ufficio stampa Antonio Tatò; Ugo Pecchioli; il medico e amico Francesco Ingrao; l'inviato de l' Unità Ugo Baduel, che lo ha seguito in viaggi e campagne elettorali per oltre dieci anni; Alberto Menichelli, l'autista che stava con lui dal 1970 quando Berlinguer era solo vice segretario. E da tutti questi mormorii, da questi "ti ricordi...?" emergeva, tessera dopo tessera, il mosaico della personalità-Berlinguer: umanissima, a tratti fanciullesca, a tratti irriverente e perfino un poco "bohèmienne".
"Quando arrivava a casa di sera, dopo i comizi, si doveva comperare due mozzarelle e un po' di latte perché il suo frigo poteva anche trovarlo deserto". Oppure: "Una volta, dalle sue parti, nei pressi del ministero degli Esteri, vide un gruppo di ragazzini che faceva una partita a pallone: si fermò, si arrotolò i pantaloni e si mise a giocare con loro. Aveva sempre amato il football, fin da quando tirava calci alla palla con Giovanni, da bambino. Passò Moro in una macchina ministeriale: lo guardò, lo riconobbe, ma non si fermò. Aveva un' aria da 'non c' è più religione' in faccia".
O ancora: "Ha un modo di soffiarsi il naso che si sente per tutte le Botteghe Oscure. Gli era rimasto da quando il nonno, che era un pioniere della medicina, gli aveva insegnato che per disinfettarsi le vie respiratorie bisognava portarsi alla faccia, con le due mani a coppa, l'acqua di mare; farla salire su per il naso e passare per i seni e lasciarla uscire dalla bocca".
Si sfonda, il muro del privato, ma non ufficialmente. Le voci ufficiali sono tutte asserragliate dietro un silenzio che mescola vecchie tradizioni comuniste ad antiche tradizioni di riserbo di una famiglia aristocratica e per giunta isolana, "nuragica", e prima ancora probabilmente catalana. I parenti sono inavvicinabili. Giovanni, il fratello, e Letizia, la moglie, durante tutta l'"attesa" hanno volti di pietra. Mi ha detto Nilde Jotti che con Letizia ha parlato a lungo: "E' angosciata soprattutto per i figli, non sa come accetteranno la tragedia". E, mentre si aspettavano i bollettini medici sempre più pessimisti, Letizia trovava la forza di portare la figlia minore, Laura, a vedere Giotto alla cappella degli Scrovegni. Laura ha quindici anni. Prima di lei ci sono Bianca (ventiquattro anni), Maria (ventidue), Marco (ventuno). Sono smarriti. Passano per il corridoio bianco con gli occhi arrossati fissi su un punto invisibile avanti a loro: a chi si avvicina per chiedere uno stato d' animo, un ricordo, fanno un segno negativo e definitivo che sta tra il fastidio e la noncuranza di chi cammina per le strade di un pianeta diverso.
Dicono le voci: "Sono sempre stati legatissimi, i figli col padre. Spesso lui usciva da una riunione politica e andava a fargli ripetizione: Hegel, i presocratici". "Però non è mai stato oppressivo: hanno scelto amori e studi come volevano. L' importante, fra loro, era la fiducia". "Le cose dovevano essere fatte seriamente: il 'come' non contava". "Anche in politica: hanno interesse, ma non un impegno totale come quello del padre. Lui non si è mai sognato di chiederlo". "Però se li portava dappertutto, anche in Cina". "E qualcuno di loro mugugnava". "Come tutti gli adolescenti quando cominciano ad avere i loro amici...". "E' una famiglia alla maniera della vecchia Fgci: un po' scanzonata. Unita, ma in pratica ognuno fa quel che vuole. Per questo il frigo può essere spesso vuoto: chi arriva a casa apre e si prende da mangiare". "Quella del frigo, a volte, è anche una questione di soldi. Lui ne ha sempre avuti pochi, c'è stato sempre attento. Maria poco tempo fa gli ha chiesto diecimila lire. Lui le ha detto: "Te le do, ma per questo mese posso ridartele solo un'altra volta"". "Sui soldi è stato sempre attentissimo anche per quanto riguarda il partito. Se le cose fossero andate come dovevano andare, in questo giro elettorale, da Bologna a Catania, per andare a Comiso, avrebbe preso l' aerotaxi. Costa otto milioni. È stato necessario fargli dieci volte il conto: dimostrargli che fra biglietti 'normali', pranzi e alberghi per lui e per tutta l'equipe, compresa la scorta, avrebbero speso di più. Una volta convinto e superato il tabù della 'questione di costume', era finalmente felice e ripeteva, come un ragazzo: 'Poi prendiamo l'aerotaxi'". "Ad un collaboratore disse anche: 'E atterriamo direttamente all'aeroporto di Comiso'. 'Ma che stai dicendo?' chiese quello. E lui: 'Vedi? Ci hai creduto. Era solo uno scherzo'".
"Dicono tanto che non badava a come si vestiva, che era trasandato. Non è vero. C'ero io a Milano una volta. Dovemmo comprargli dei calzini e gli dissi: 'Te li compro blu come la cravatta, intonati'. Mi disse: 'I calzini devono intonarsi solo alle scarpe. Comprali beige'. Se ne intendeva".
"La scorta: che peso, per lui dopo gli anni di piombo. A volte doveva rinunciare ad andare a vedere la partita...". "Sì, ma per la partita altre volte ha mollato tutto: due mesi fa, a Cuneo ha lasciato a metà un pranzo di compagni per andare a vedere Juventus-Roma". "Poi, nelle sue passeggiate la scorta la 'semina'". "Non lo fa apposta. E' che cammina a passo di marcia".
"Il suo rapporto con Letizia durava da circa 35 anni: dieci di fidanzamento (la famiglia di lei e il partito di lui erano contrari) e venticinque di matrimonio. Appena arrivava in una città o all'aeroporto di Fiumicino per partire, le telefonava. Sempre". "Sembravano freddi, senza smancerie o pubbliche tenerezze, nemmeno davanti ai figli. Invece era un amore da Giulietta e Romeo". "Ha sempre avuto un enorme rispetto per gli altri e infatti non ha mai fatto scenate a qualcuno dei tanti sottoposti che ogni leader ha intorno. Mai uno scatto, un insulto. Però, se uno della vigilanza faceva un po' il bulletto, e magari ostentava le sue lezioni di karatè per fargli largo tra la gente alla fine di un comizio, dopo un po' gli succedeva di cambiare mansione e di trovarsi alla portineria delle Botteghe Oscure. Mite e implacabile".
Già: mite e implacabile. Forse, è la definizione migliore.


“la Repubblica”, 12 giugno 1984  

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