PADOVA
Amante del balletto e
dell'opera (l'ultima che aveva visto era il Parsifal di Wagner
a Roma). Lettore di romanzi (ne aveva appena finito uno di Marguerite
Yourcenar). Giocatore di ramino. Appassionato di calcio. Tifoso del
Cagliari. Innamorato del mare e della vela: andava, quando poteva,
sulla barca del cugino, a Stintino, manovrando con destrezza rande e
fiocchi. Questo era, fuori della politica, Enrico Berlinguer. E
ancora: legatissimo alla famiglia. Tutti i Natali insieme al fratello
Giovanni e a Giuliana, la cognata regista Tv; mai un'ora di vacanza
senza almeno uno dei quattro figli (di solito tutti), visite regolari
alla ultranovantenne zia Iole Siglienti ogni volta che metteva piede
a Cagliari. Risate scomposte quando vedeva la faccia di Roberto
Benigni, ancora prima che questi dicesse la sua battuta (famosa la
foto di lui, ridente, in braccio al comico, due anni fa al Festival
di villa Borghese). Invece le vignette di Forattini non le capiva
quasi mai. "E' un nostro nemico", ripeteva.
Per dodici anni (da
quando è stato eletto segretario del Pci) la caccia al Berlinguer
"privato", "umano", "quotidiano" è
stata l'obiettivo mai raggiunto di direttori di giornali e di
politologi in vena di "risvolti" o "chicche". Ma
si sono immancabilmente scontrati contro un muro di granito.
Berlinguer ha sempre rifiutato la politica-spettacolo; e, per quanto
fra i suoi meriti politici vada senza dubbio ascritto quello di avere
"capito" il femminismo, il principio femminista che "il
privato è pubblico" non è mai stato suo. I cronisti politici -
i cacciatori delusi - si sono consapevolmente o meno, vendicati del
ricorrente insuccesso usando per lui un bagaglio di parole opache,
sempre le stesse: "tetro", "cupo", "introverso",
"serioso", "grigio" che ne hanno dato un'immagine
remota, esangue e, tutto sommato, antipatica. E c'è una certa agra
ironia nel fatto che proprio in questo momento di tragedia il muro
del "privato" si sfondi e lasci intravedere, di quest'uomo
appena morto, un'immagine tanto diversa da quella di maniera.
Infatti, mentre
Berlinguer lottava con la morte, mille sussurri intorno a lui
parlavano fitti, ossessivamente, della sua "umanità".
Raccontavano aneddoti, cose viste personalmente o riferite da amici:
come se questo accanito parlarne potesse tenere lontana la morte.
Erano voci anonime: uomini della "vigilanza", "vecchi
compagni della Fgci" venuti da altre città per essergli vicini
in questo momento definitivo e magari bloccati dalla polizia fuori
dell' ospedale, fotografi che lo ricordavano durante comizi e che
aspettavano, macchina alla mano, che le "autorità"
uscissero dal bianco corridoio dell'ospedale in cui si aggiravano,
angosciati, oltre al fratello Giovanni e alla famiglia, alcuni
dirigenti del Pci e i suoi fedelissimi: il capo ufficio stampa
Antonio Tatò; Ugo Pecchioli; il medico e amico Francesco Ingrao;
l'inviato de l' Unità Ugo Baduel, che lo ha seguito in viaggi e
campagne elettorali per oltre dieci anni; Alberto Menichelli,
l'autista che stava con lui dal 1970 quando Berlinguer era solo vice
segretario. E da tutti questi mormorii, da questi "ti
ricordi...?" emergeva, tessera dopo tessera, il mosaico della
personalità-Berlinguer: umanissima, a tratti fanciullesca, a tratti
irriverente e perfino un poco "bohèmienne".
"Quando arrivava a
casa di sera, dopo i comizi, si doveva comperare due mozzarelle e un
po' di latte perché il suo frigo poteva anche trovarlo deserto".
Oppure: "Una volta, dalle sue parti, nei pressi del ministero
degli Esteri, vide un gruppo di ragazzini che faceva una partita a
pallone: si fermò, si arrotolò i pantaloni e si mise a giocare con
loro. Aveva sempre amato il football, fin da quando tirava calci alla
palla con Giovanni, da bambino. Passò Moro in una macchina
ministeriale: lo guardò, lo riconobbe, ma non si fermò. Aveva un'
aria da 'non c' è più religione' in faccia".
O ancora: "Ha un
modo di soffiarsi il naso che si sente per tutte le Botteghe Oscure.
Gli era rimasto da quando il nonno, che era un pioniere della
medicina, gli aveva insegnato che per disinfettarsi le vie
respiratorie bisognava portarsi alla faccia, con le due mani a coppa,
l'acqua di mare; farla salire su per il naso e passare per i seni e
lasciarla uscire dalla bocca".
Si sfonda, il muro del
privato, ma non ufficialmente. Le voci ufficiali sono tutte
asserragliate dietro un silenzio che mescola vecchie tradizioni
comuniste ad antiche tradizioni di riserbo di una famiglia
aristocratica e per giunta isolana, "nuragica", e prima
ancora probabilmente catalana. I parenti sono inavvicinabili.
Giovanni, il fratello, e Letizia, la moglie, durante tutta l'"attesa"
hanno volti di pietra. Mi ha detto Nilde Jotti che con Letizia ha
parlato a lungo: "E' angosciata soprattutto per i figli, non sa
come accetteranno la tragedia". E, mentre si aspettavano i
bollettini medici sempre più pessimisti, Letizia trovava la forza di
portare la figlia minore, Laura, a vedere Giotto alla cappella degli
Scrovegni. Laura ha quindici anni. Prima di lei ci sono Bianca
(ventiquattro anni), Maria (ventidue), Marco (ventuno). Sono
smarriti. Passano per il corridoio bianco con gli occhi arrossati
fissi su un punto invisibile avanti a loro: a chi si avvicina per
chiedere uno stato d' animo, un ricordo, fanno un segno negativo e
definitivo che sta tra il fastidio e la noncuranza di chi cammina per
le strade di un pianeta diverso.
Dicono le voci: "Sono
sempre stati legatissimi, i figli col padre. Spesso lui usciva da una
riunione politica e andava a fargli ripetizione: Hegel, i
presocratici". "Però non è mai stato oppressivo: hanno
scelto amori e studi come volevano. L' importante, fra loro, era la
fiducia". "Le cose dovevano essere fatte seriamente: il
'come' non contava". "Anche in politica: hanno interesse,
ma non un impegno totale come quello del padre. Lui non si è mai
sognato di chiederlo". "Però se li portava dappertutto,
anche in Cina". "E qualcuno di loro mugugnava". "Come
tutti gli adolescenti quando cominciano ad avere i loro amici...".
"E' una famiglia alla maniera della vecchia Fgci: un po'
scanzonata. Unita, ma in pratica ognuno fa quel che vuole. Per questo
il frigo può essere spesso vuoto: chi arriva a casa apre e si prende
da mangiare". "Quella del frigo, a volte, è anche una
questione di soldi. Lui ne ha sempre avuti pochi, c'è stato sempre
attento. Maria poco tempo fa gli ha chiesto diecimila lire. Lui le ha
detto: "Te le do, ma per questo mese posso ridartele solo
un'altra volta"". "Sui soldi è stato sempre
attentissimo anche per quanto riguarda il partito. Se le cose fossero
andate come dovevano andare, in questo giro elettorale, da Bologna a
Catania, per andare a Comiso, avrebbe preso l' aerotaxi. Costa otto
milioni. È stato necessario fargli dieci volte il conto:
dimostrargli che fra biglietti 'normali', pranzi e alberghi per lui e
per tutta l'equipe, compresa la scorta, avrebbero speso di più. Una
volta convinto e superato il tabù della 'questione di costume', era
finalmente felice e ripeteva, come un ragazzo: 'Poi prendiamo
l'aerotaxi'". "Ad un collaboratore disse anche: 'E
atterriamo direttamente all'aeroporto di Comiso'. 'Ma che stai
dicendo?' chiese quello. E lui: 'Vedi? Ci hai creduto. Era solo uno
scherzo'".
"Dicono tanto che
non badava a come si vestiva, che era trasandato. Non è vero. C'ero
io a Milano una volta. Dovemmo comprargli dei calzini e gli dissi:
'Te li compro blu come la cravatta, intonati'. Mi disse: 'I calzini
devono intonarsi solo alle scarpe. Comprali beige'. Se ne intendeva".
"La scorta: che
peso, per lui dopo gli anni di piombo. A volte doveva rinunciare ad
andare a vedere la partita...". "Sì, ma per la partita
altre volte ha mollato tutto: due mesi fa, a Cuneo ha lasciato a metà
un pranzo di compagni per andare a vedere Juventus-Roma". "Poi,
nelle sue passeggiate la scorta la 'semina'". "Non lo fa
apposta. E' che cammina a passo di marcia".
"Il suo rapporto con
Letizia durava da circa 35 anni: dieci di fidanzamento (la famiglia
di lei e il partito di lui erano contrari) e venticinque di
matrimonio. Appena arrivava in una città o all'aeroporto di
Fiumicino per partire, le telefonava. Sempre". "Sembravano
freddi, senza smancerie o pubbliche tenerezze, nemmeno davanti ai
figli. Invece era un amore da Giulietta e Romeo". "Ha
sempre avuto un enorme rispetto per gli altri e infatti non ha mai
fatto scenate a qualcuno dei tanti sottoposti che ogni leader ha
intorno. Mai uno scatto, un insulto. Però, se uno della vigilanza
faceva un po' il bulletto, e magari ostentava le sue lezioni di
karatè per fargli largo tra la gente alla fine di un comizio, dopo
un po' gli succedeva di cambiare mansione e di trovarsi alla
portineria delle Botteghe Oscure. Mite e implacabile".
Già: mite e implacabile.
Forse, è la definizione migliore.
“la Repubblica”, 12
giugno 1984
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