Carlo Emilio Gadda |
Il lento risveglio dal
letargo cui erano state consegnate le opere di Gadda coincise, più o
meno, con le celebrazioni preparate per il decennale dalla morte.
Alla Casa della cultura di Milano, nel dicembre dell'83, un convegno
e una piccola mostra risvegliavano l'interesse del pubblico per quel
gran lombardo attraente e respingente a un tempo, come lo sono coloro
su cui grava un destino di inaccessibilità. O forse era una sorta di
ipnosi quella da cui si andavano scuotendo non solo i lettori di
Gadda, ma buona parte dell'editoria che, un po' scompostamente, si
affannava a ramazzare minimi lasciti e epistolari, con il risultato
di disperdere in luoghi eterogenei il mosaico degli scritti gaddiani
che si andava componendo.
Un velo, per la verità,
era già stato squarciato sul buio di comprensione in cui lo stesso
Gadda si era avvolto, e era una di quelle aperture destinate a
rimanere definitive: un libro di modesta mole titolato La
disarmonia prestabilita era uscito da Einaudi nel '69 a firma di
Gian Carlo Roscioni. A monte di quello studio, e a nutrimento di
tutti quelli che lo seguirono, si era reso necessario risalire
faticosamente le letture di Gadda, muovendosi tra i terreni della
cultura scientifica e quelli della letteratura, sostando nella
filosofia, affrontando le asperità del calcolo ingegneristico per
capire la genesi di metafore altrimenti impossibili, tormentandosi
sui vocabolari per rintracciare l'etimologia di parole che abitano
zone remote della lingua, o suoi confini non prima praticati.
Ora, finalmente, tutta la
tradizione a stampa delle opere gaddiane è filologicamente
ricomposta insieme, negli splendidi volumi appena completati da
Garzanti per la cura di Dante Isella; e certo non si potrebbe
immaginare omaggio più gradito a un autore che pregava di «lasciarlo
nell'ombra». Va pur detto, tuttavia, che Gadda non fu del tutto
ignorato: dal lato del carattere egli venne, anzi, a più riprese
ispezionato, e una volta per tutte consegnato alla solennità, nel
libro-ritratto che gli dedicò Giulio Cattaneo. La diffidenza
ispirata dallo scrittore cedeva allora il passo alla curiosità
indotta dall'uomo, collerico e irriverente e poi subito abbandonato
alla costernazione, timorato dalle conseguenze che avrebbero prodotto
le scintille del suo umore.
Non solo quelle, per la
verità, lo preoccupavano; perché pure si tormentava al confronto
con le asperità che aveva disseminato nella sua scrittura; ma, a
quelle, cercava giustificazione nella patente baroccaggine della
vita, nella complessità irredimibile di tutto ciò che gli si parava
innanzi, e che chiedeva sguardi incrociati da prospettive molteplici.
Da lì veniva la sua parola satura di significazioni irriducibili a
una sola allusione, la torsione della lingua che mimeticamente si
piegava e si avvitava sul reale, cui doveva dare un nome: non sono
trovate gratuite le memorabili locuzioni gaddiane, perché anzi
l'invenzione è «respinta come peccato capitale del lavoro
letterario», ci avverte Emilio Manzoni nella sua introduzione alla
edizione critica della Cognizione del dolore; che ora, dunque
- affidata a una chiosatura riservata solo alle grandi testimonianze
letterarie - guarda dall'alto del suo statuto di anticlassico la
grande letteratura europea del Novecento. E, tuttavia, la maggioranza
dei lettori preferisce il Pasticciaccio, e la gran parte dei
critici si sofferma sul pastiche linguistico del Gadda
espressivista piuttosto che sul carattere di frammento lirico della
sua prosa più alta.
Tutto sembra essere stato
detto - su una via maestra aperta a suo tempo da Gianfranco Contini -
a proposito della vulcanica attività mescidatoria che dà luogo alla
lingua di Gadda; mentre, forse, qualcosa ci si potrebbe ancora
attendere dalla penetrazione stilistica (non certo psicologica) dei
suoi vertici di tragico lirismo. Persino il libro di cui offriamo una
anticipazione in questa pagina, benché collezioni scritti dettati
dall'urgenza e dalla prosaicità di qualche intervista, contiene echi
dello speciale lessico gaddiano, denunce di ossessioni copiosamente
riversate nell'ordito della sua narrativa, virulenze espressive che
non possono che suonare di conforto a chi ha care le tonalità della
prosa gaddiana. Del lessico famigliare della critica fanno parte,
invece, una serie di luoghi che in quanto comuni hanno perso la loro
valenza di rivelazione per approdare alla minaccia della banalità;
ma non sono perciò meno veri. E' la stessa reiterazione dei motivi
gaddiani a far girare e rigirare in un unico calderone le formule che
magicamente dovrebbero svelare l'arcano della scrittura: basti il
catalogo dei suoi impedimenti. Non c'è analisi della narrativa di
Gadda che non si trovi nell'obbligo di denunciare le difficoltà di
una trama che stenta a svolgersi, dal momento che infinite
digressioni ne dilazionano l'esito; e non c'è modo di non
interrogarsi sulla natura dell'incompiuto, perché quando ci si
avvicina al gesto finale, quando l'intreccio sembra lì lì per
esplodere nel climax, ecco che scatta l'impedimento psicologico: «Mi
si polverizza la memoria» dice Gadda in una intervista dello stesso
volume da cui è tratto lo scritto che qui pubblichiamo.
Non è tanto la memoria a
dissolversi, quanto la possibilità di tradurla in fatto, di darle
corpo; perché sembra che la fisicità della scrittura consegni alla
fantasia una materialità già troppo insopportabile per reggerne il
confronto. Cosi, il Pasticciaccio è pubblicato senza che si
arrivi a svelare il nome dell'assassina, e la Cognizione viene
data alle stampe priva di una conclusione, anche se di entrambi i
libri sono state restituite, nel tempo, le stesure provvisorie dei
capitoli cruciali. Ma è pur vero che, per molti, la lettura della
prosa gaddiana si è arrestata indipendentemente dalla frustrazione
dell'incompiuto, poiché ben più precocemente compaiono, disseminate
nella trama, le difficoltà da affrontare.
E non è solo questione
di intreccio: dai disegni milanesi dell'Adalgisa, ai racconti
degli Accoppiamenti giudiziosi, dalla Meccanica privata
anch'essa dei suoi capitoli finali (per la prima volta reintegrati
nell'edizione a cura di Isella) ai saggi delle Meraviglie d'Italia
e di I viaggi la morte, dalla filosofica Meditazione
milanese ai primi abbozzi del Racconto italiano di ignoto del
novecento, tutto il percorso della scrittura gaddiana è una
lunga, infinita divagazione, dove i personaggi - o Gadda per loro -
sono impegnati non tanto in una azione, quanto in una battaglia
mentale.
Scontri di posizioni,
conflitti di idee, prospettive che non si rassegnano alla parzialità,
«figurazioni non valide»: tutto questo muove i protagonisti della
antinarrativa gaddiana, votata piuttosto al dibattito filosofico:
come ha scritto Emilio Manzotti, quella che abbiamo di fronte è una
«scrittura della intelligenza», variante scarsamente afferrabile
dell'espressionismo linguistico di cui Gadda è un unicum: ora, a
cento anni dalla nascita, e probabilmente per il resto del tempo a
venire.
“il manifesto”, 12
novembre 1993
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