“Posto” per intero un
articolo di cui avevo già ripreso il gustoso incipit. Anche il resto
– mi pare – non è male, soprattutto la conclusione. (S.L.L.)
Alla fine del 1962 le
fortune di Nikita Sergeevic Krusciov avevano già varcato lo zenit:
il declino era già iniziato, anche se allora non appariva affatto
chiaro. La sera del primo dicembre Krusciov si recò a visitare, alla
mostra del Maneggio, una esposizione di pittori «non ufficiali»:
così gli capitò di dare un'occhiata ad alcune sale dove erano
esposte alcune opere di «arte astratta». Se ne andò indignato,
dopo averle definite «scarabocchi imbrattati dalla coda di un
asino». Subito dopo si incontrò con lo scultore Neizvestniy, al
quale, dopo averne viste le opere, disse che «sbafava i soldi del
popolo e produceva soltanto merda». Neizvestniy replicò
tranquillamente che lui, Krusciov, «di arte non capiva proprio
niente». Ne seguì un colloquio burrascoso che Krusciov concluse in
un modo inatteso: «Lei», disse, «è una persona interessante. La
gente così mi piace; dentro di lei ci sono contemporaneamente un
angelo e un diavolo... Se vince l'angelo, la aiuteremo».
In realtà, fu Krusciov a
chiedere aiuto a Neizvestniy. Lo fece molti anni dopo, quando da
tempo non era che un pensionato qualunque e, in punto di morte,
scrisse nel suo testamento di affidare a Neizvestniy l'incarico di
scolpire il suo monumento funebre. Il quale si trova adesso
nell'antico cimitero di Novodevici, lontano dalle mura del Cremlino;
e l'episodio sta forse a dimostrare il bisogno di clemenza e di
ricononciliazione che il vecchio Krusciov avvertiva negli ultimi anni
della sua vita, quando, ormai lontano dal potere, era circondato solo
dal silenzio.
Lo storico «dissidente»
Roy Medvedev, assai noto in Italia per opere come Lo stalinismo
e La democrazia socialista, ha raccontato questo episodio nel
volume Ascesa e caduta di Nikita Chruscév (Editori Riuniti,
pagg. 355, lire 15.000), una biografia che viene pubblicata «in
esclusiva mondiale» e che, naturalmente, non sembra destinata a
comparire in Unione Sovietica.
I diciotto anni che sono
trascorsi dalla estromissione di Krusciov dal potere può sembrare ne
abbiano sbiadito la personalità fino a cancellarla; e il suo
retaggio politico può apparire superato e sommerso. In realtà non è
affatto così; anzi mi sentirei di affermare che occorre rifarsi
proprio all'opera di Krusciov per individuare alcuni dei fondamenti
durevoli dell'epoca post-staliniana che stiamo vivendo.
È verissimo, e a tutti
noto, che l'attività di Krusciov, nel periodo in cui restò al
potere, fu improvvisata fino alla irresponsabilità e frenetica fino
al caos. È verissimo che essa ha lasciato dietro di sé un cimitero
di velleità inadempiute e di «riforme» fallite. Ed è verissimo
che è perfino esagerato (nel senso della sopravvalutazione) definire
«empirico» un modo di agire spesso dominato da umori imprevedibili.
È altrettanto vero, però, malgrado l'accurato occultamento che ne
viene fatto in Unione Sovietica, che a Krusciov dobbiamo i tentativi
più audaci per affrontare due fra le questioni più minacciose per
il futuro dell'umanità emerse nella seconda metà di questo secolo:
la chiusura dell'epoca staliniana e i mutamenti intervenuti nei
rapporti fra le grandi potenze in seguito alle diffusioni delle armi
nucleari.
Intendiamoci bene: non
credo affatto che Krusciov sia stato in grado di indicare soluzioni,
anzi penso che ne sia rimasto lontano. Il suo merito (storico) è
consistito nell'aver operato in modo che un'epoca (quella staliniana)
non potesse più riprodursi (nell'Urss o altrove), nonché nell'aver
indicato che si era aperta un'epoca nuova (quella nucleare) nella
quale i comportamenti tradizionali delle potenze in guerra
implicavano la distruzione della stessa umanità. Semplificando, si
potrebbe dire che i messaggi lasciatici da Krusciov non sono altro
che comandamenti negativi: «non potete più fare come Stalin» e
«non potete più farvi la guerra come avete sempre fatto in
passato».
Queste due verità
fondamentali emergevano da un incredibile pasticcio, dentro il quale
si mescolavano una totale incapacità di analisi dei processi
economico-sociali (surrogata talora dalla piatta ripetizione di
formule marxiste-leniniste), un gusto dell'aneddoto esaltato ad
apologo esemplare, uno scatenamento del senso comune in fatali
scorribande pseudoscientifiche; il tutto cementato da un impasto di
furbizia e di ingenuità popolaresca, saldamente poggiato su un fondo
di autoritarismo incruento, prolungamento di precorse pratiche
staliniane. Mi riferisco, naturalmente, ai due «Rapporti»: quello
politico, pubblico, e quello sui delitti di Stalin, segreto,
pronunciati da Krusciov al XX congresso del Pcus (1956), nonché al
suo rinnovato attacco a Stalin al XXII congresso (1961).
Nulla è più facile
della critica all'impianto concettuale dei due discorsi contro
Stalin: la futilità di voler tutto spiegare con il «culto della
personalità», l'asserita incorruttibilità della società
socialista (rimasta incontaminata sotto la valanga dei mostruosi
delitti del terrore di massa), il ritorno rigeneratore alla purezza
leninista e così via.
Reale e essenziale fu
però, al di sotto di tante parole, la liquidazione del potere
autonomo della polizia politica, strumento primario del terrore; la
riabilitazione delle vittime; la liberazione e il ritorno di migliaia
e migliaia di deportati; la lotta politica aperta e 1'emarginazione
(senza condanne a morte) degli uomini dell'epoca staliniana
riluttanti a considerarla chiusa (Molotov, Kaganovic etc).
Ovviamente tutto ciò non
era sufficiente per aprire la strada al superamento dello stalinismo.
Krusciov era lui stesso troppo impregnato della ideologia e della
politica staliniana (e di questa e dei delitti, in parte,
corresponsabile): era cresciuto in modo organico dentro quel sistema
e non v'è dubbio che, per lui, quello era il socialismo. Voleva solo
riformarlo, eliminarne deficienze ed errori, come l'eccessivo
accentramento o lo sfruttamento sfrenato delle campagne. Aveva
inoltre acquisito l'ingenua certezza che lo sviluppo delle forze
produttive avrebbe permesso di pervenire in breve tempo al comunismo
attraverso l'abbondanza. Su questo punto Krusciov era un fedele
allievo dell'economia politica di Stalin. Cominciò ad improvvisare
una serie di riforme e tutte fallirono.
Il terrore era stato una
componente costitutiva e necessaria del regime staliniano; poi era
divenuto un elemento frenante delle possibilità di sviluppo del
sistema. Venuto meno il potere personale di Stalin, il regime fu
ricondotto dall'emergenza permanente alla sua normalità repressiva,
pienamente incorporata al potere della burocrazia, in via di divenire
assoluto. Il passaggio da Stalin a Breznev, attraverso Krusciov,
doveva segnare la fine dell'autocrazia e l'identificazione di tutto
il potere con la burocrazia dominante. Krusciov, che aveva
ostinatamente lottato per pronunciare la parola fine, non fu
assolutamente in grado di indicare un nuovo principio.
Anche il secondo, storico
messaggio di Krusciov partì dalla tribuna del XX congresso, con la
proclamazione che, sotto la minaccia della distruzione nucleare, la
coesistenza pacifica fra le grandi potenze e in particolar modo fra
l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, era diventata un imperativo
obbligato, una sorta di dimensione nuova e permanente dei rapporti
internazionali a livello mondiale.
Medvedev ricorda
l'incoerenza e la contraddittorietà con cui lo stesso Krusciov
demolì il nuovo principio che aveva appena affermato: la
sperimentazione affrettata di armi di eccezionale potenza, senza
curarsi di rompere la moratoria proposta per le esplosioni nucleari
nell'atmosfera; la sfida agli Stati Uniti con l'installazione di
missili offensivi a Cuba; infine la moratoria monca firmata nel 1963
insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna, con la rinuncia gravissima
(vero e proprio abbandono di principio) alla proibizione delle
esplosioni sperimentali sotterranee. Paradossalmente, fu proprio
quell'accordo che aprì la fase del riarmo nucleare indefinito, cui i
trattati conclusi fra Urss e Usa dopo la caduta di Krusciov, dovevano
porre solo il labile limite di un rapporto bilanciato.
Non è esagerato
affermare che Krusciov distrusse così con le sue stesse mani il
grande messaggio di pace che aveva lanciato nel 1956: circostanza che
mi sembra sia sfuggita a Medvedev. Fu da quel momento che l'Urss
perde ogni titolo specifico a porsi come potenza pacifica di fronte
alla asserita aggressività dell'imperialismo (non si dimentichi che
era ancora in corso la guerra nel Vietnam).
L'estromissione di
Krusciov dal potere avvenne l'anno successivo; ma il suo astro era
tramontato da tempo. Non fu un caso che quando venne sbattuto fuori
senza complimenti, i voti furono unanimi e nell'Urss non vi fu alcuna
protesta. Sembra che Krusciov, tornato a casa dopo quella terribile
serata, abbia detto: «Forse la cosa più importante fra tutte quelle
che ho fatto è che hanno potuto destituirmi con una semplice
votazione, mentre Stalin li avrebbe fatti arrestare tutti». Non si è
mai saputo se si rammaricasse o si congratulasse con se stesso.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma 1982
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