17.3.17

Gemma Harasim, Fiume 1876 - Roma 1961 (Nella Sistoli Paoli)

Gemma Harasim nel 1909
Nel 1906 sulla rivista culturale fiumana «La vedetta» escono brevi scritti che esaminano alcune figure di donne e successivamente alcune immagini di bambini nella letteratura e nell’arte. Sono di Gemma Harasim, insegnante di italiano nelle scuole cittadine (una sorta di postelementari), particolarmente impegnata e stimata in quella singolare città, prevalentemente italiana per lingua e cultura, ma politicamente appartenente all’impero asburgico, e più precisamente alla “Sacra Corona d’Ungheria”. Sono scritti di scarsa importanza, anche un po’ ingenui, ma significativi per i temi scelti che rispecchiano gli interessi che Gemma conserverà per tutta la vita: la valorizzazione della donna nella sua specificità di moglie e madre ma con un’autonomia di pensiero pari all’uomo, e l’attenzione per i bambini con il conseguente impegno educativo, già dimostrato con la pubblicazione di un volumetto Sull’insegnamento della lingua materna, che B. Croce fa recensire sulla «Critica».
L’intraprendente maestra, che ha frequentato corsi universitari all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, scrive a Giuseppe Lombardo Radice, direttore della rivista «Nuovi Doveri» a Catania, intervenendo su temi e problemi scolastici della sua città e iniziando una corrispondenza epistolare via via più frequente e affettuosa con il pedagogista. Da lui è stimolata a collaborare anche a «La Voce» di G.Prezzolini con quattro Lettere da Fiume, nel 1909, nelle quali descrive le difficili condizioni socio-politiche e culturali della realtà trinazionale italiana-croata-ungherese di una delle terre “irredente”, che la rivista vuol far conoscere ai suoi lettori. Nel settembre di quell’anno, il Congresso degli Insegnanti Scuola Media a Firenze segna per la Harasim la svolta della sua vita: conosce direttamente le più importanti personalità della cultura pedagogica italiana e soprattutto Lombardo Radice, col quale stabilisce una profonda intesa sentimentale che si tradurrà con il matrimonio l’anno successivo.
Gemma lascia con dolore la città, la scuola, la famiglia (dove la sua cultura italiana si arricchisce con quella croata del fratellastro Riccardo Lenac, sostenitore convinto della collaborazione tra i due popoli) e va a vivere a Catania, dove diventa la più stretta collaboratrice del marito, anche come condirettrice della rivista per i temi riguardanti la cultura della donna. A lei, donna emancipata di cultura e abitudini mitteleuropee, l’ambiente siciliano non è congeniale e non riuscirà mai ad amarlo veramente, anche se tenterà di incidere attraverso i «Nuovi Doveri» sull’emancipazione popolare e della donna. La dedizione verso l’educazione dei figli, Giuseppina, Laura e Lucio, nati tra il 1911 e il 1916, e lo scambio intellettuale con il marito, il quale riconoscerà sempre l’apporto di lei nel proprio pensiero pedagogico, la compensano in parte di quanto ha lasciato ed è particolarmente arricchita dalla frequentazione con i molti uomini di cultura che ruotano nell’ambiente di Lombardo Radice, e soprattutto dall’amicizia di Gaetano Salvemini, con cui si trova consonante in molte idee politiche. Torna a Fiume tutte le volte che le è possibile, conservando i rapporti con la famiglia e gli amici, e si interessa costantemente delle condizioni della città, soprattutto all’approssimarsi del conflitto mondiale.
La grande intesa spirituale e affettiva con il marito non le impedisce di manifestare il suo dissenso verso l’interventismo e la partecipazione di lui alla guerra nel 1917; ciò nonostante si trasferisce con i tre figli a Roma e poi in Toscana, per stargli più vicino e facilitare il ritorno in famiglia durante i periodi di congedo. Sono di questo periodo le lettere più numerose e più belle, nelle quali la Harasim descrive al marito, insieme ai piccoli avvenimenti quotidiani e alle difficoltà che si trova ad affrontare, l’evoluzione dei bambini nel linguaggio, nel disegno, nel pensiero con osservazioni che poi svilupperà in alcuni scritti e che attestano il continuo scambio spirituale fra i due. Nella lettera del 7 settembre si cruccia della sua indipendenza che forse non le permette di essere «ancora la vera mamma, la vera donna tua tua; troppi anni ho vissuto in una vita più di pensiero che di affetto; di combattività, di battaglia, vita quasi maschile nello spirito, una così orgogliosa personalità propria, senza mai piegare, senza sacrificare nulla a nessuno; forse non so amare bene, dando me stessa generosamente, con dolcezza e modestia e sarebbe così bella e grande opera degna di una vita». E in un’altra, dopo la fine della guerra, contesta al marito, entrato a Fiume con l’esercito italiano vittorioso, la mancata ricerca di collaborazione con il proprio fratello Riccardo, impegnato politicamente nella intricata situazione della città.
Ma il dissenso più forte si manifesta quando nel 1923 il ministro dell’Educazione Nazionale Giovanni Gentile, per la realizzazione della riforma della scuola, chiama l’amico Lombardo Radice all’incarico di direttore generale dell’istruzione primaria. Gemma è decisamente contraria, non solo per la scarsa simpatia che nutre verso Gentile, ma soprattutto per la decisa opposizione al fascismo e a Mussolini, di cui intuisce subito i possibili pericolosi esiti. Con l’incarico ministeriale la famiglia si trasferisce a Roma, che diventa la stabile residenza anche dopo le dimissioni del pedagogista, seguite al delitto Matteotti, e il suo ritorno alla cattedra universitaria e alla rivista «L’Educazione Nazionale», che già dal 1919 aveva fondato e su cui Gemma pubblica vari scritti, sul disegno, la lettura, la matematica, oltre che un lungo studio su Pestalozzi.

Sono anni molto difficili per la famiglia, a causa dell’isolamento e delle persecuzioni a cui il regime sottopone Lombardo Radice, moralmente sostenuto dalla moglie che, dopo la sua morte avvenuta nel 1938, diventa la custode tenace dei suoi ricordi e della sua memoria. Sempre vicina ai figli che hanno scelto la strada dell’opposizione, apre la sua casa ai giovani (fra cui c’è Pietro Ingrao, futuro marito della figlia Laura) che col figlio Lucio, il quale subisce due volte il carcere, preparano la resistenza, e collabora attivamente nascondendo il foglio clandestino «Pugno chiuso» durante una perquisizione della polizia. Fino agli ultimi anni mantiene una mente lucida e un forte interesse per i fatti educativi.

dal sito "Enciclopedia delle donne"

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