25.3.17

Letteratura italiana. Quando parliamo di Rinascimento (Alfano, Gigante e Russo)

È da poco uscito per l'editore Salerno Il Rinascimento. Un’introduzione al Cinquecento letterario italiano di Giancarlo Alfano, Claudio Gigante e Emilio Russo. Questa è l’introduzione che ho ripreso dal sito “La letteratura e le cose”. (S.L.L.)
Ludovico Ariosto
La categoria di Rinascimento, di larga applicazione nell’ambito delle discipline umanistiche, in lingue diverse ed entro diverse tradizioni di studi, è uno dei pochi termini storiografici che circolano con successo anche al di fuori del circuito accademico. Con Rinascimento si indicano spesso, però, fenomeni culturali assai diversi, con significative divergenze anche all’interno delle stesse aree disciplinari: tra gli storici della letteratura c’è chi prende le mosse dalla “rinascenza carolingia”, chi fa riferimento a un fenomeno che caratterizzerebbe la cultura volgare italiana a partire dal XIII secolo, o almeno a partire da Petrarca, chi si concentra sulla stagione di Quattro e Cinquecento, chi infine – ed è senza dubbio la disparità maggiore, visibile finanche nelle partizioni dei manuali per le scuole – propende a identificare il Rinascimento con il periodo e la cultura dell’Umanesimo in opposizione a chi considera il Rinascimento (o il « pieno » Rinascimento, secondo una fortunata formulazione crociana) come un movimento culturale avviatosi in Italia a partire dall’inizio del secolo XVI.
L’impostazione del nostro libro è decisamente orientata verso quest’ultima concezione, e pertanto considera l’arco cronologico che va dalla discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, nel 1494, all’ultimo decennio del XVI secolo, segnatamente al 1595, anno di morte di Torquato Tasso. La spedizione militare del 1494 mette infatti in crisi i modelli politici della sovranità medievale ereditati e rielaborati dalle signorie quattrocentesche, dando il via a un sistema di corti piú aperto e dinamico, che in certi casi, con particolare riguardo ai modi della produzione culturale, assume connotati sovraregionali. A partire da quello stesso periodo, con la morte di Lorenzo il Magnifico e subito dopo di Poliziano, anche il ruolo culturale e simbolico di Firenze inizia a mutare, perdendo progressivamente di centralità. Sul versante della storia della cultura si registrano nel giro di pochi decenni due eventi capitali: il regime del libro manoscritto è sottoposto alla concorrenza pressante, e progressivamente trionfante, del libro tipografico; d’altra parte il primato indiscusso della lingua latina è scosso sin dalle fondamenta, lasciando il posto al nuovo primato del volgare, poi detto lingua italiana. Un terzo evento, di portata europea e di rilievo davvero epocale, riguarda la progressiva frattura nel mondo della religiosità cristiana che, a partire dal clamoroso gesto di Lutero (dapprincipio isolato e comunque limitato alla polemica interna al clero), avrebbe portato a una delle piú sanguinose esperienze del mondo post-medievale. Anche questo aspetto, che abbiamo deciso di trattare in modo solo marginale, contribuisce a fare dei decenni tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento un periodo decisivo per la definizione di una nuova cultura, compromessa con la mobilità, la trasformazione, la perdita dei riferimenti locali.
Il Rinascimento dei “moderni” coincide, nella prospettiva che abbiamo adottato, con quella stagione della cultura letteraria italiana che ha inizio con la « ruina » d’Italia – come i contemporanei la definirono – e che raccoglie al suo interno un ricchissimo ventaglio di esperienze culturali, che possiamo leggere come una forte e consapevole risposta ai mutamenti allora in corso. In questa risposta, in questo attraversamento di anni carichi di tensione, un paio di generazioni di letterati italiani approfondí in modo decisivo il rapporto con la tradizione dell’Antichità, con i modelli letterari e ideali che venivano soprattutto dalla latinità, per l’elaborazione di nuovi classici (da Castiglione a Bembo, da Ariosto a Machiavelli): classici che nelle loro fibre, in modo indiretto e insieme molto eloquente, intendevano offrire modelli moderni per la letteratura e per la storia. Il Rinascimento, dunque, come “cultura della crisi”, caratterizzata dall’assunzione della tradizione per fronteggiare un presente che chiedeva risposte nuove: attuali, e non in latino; generali, e non municipali; plurali, e non univoche, perché effetto di una « genesi poliforme e policentrica », come scriveva Giancarlo Mazzacurati, che fu tipica « dell’età moderna ».

Continuità, frattura, classicismi
Il nostro libro insiste dunque sulla centralità del Cinquecento, e in particolare del Cinquecento italiano, per la definizione di Rinascimento. Nel prepararlo, ci è sembrato opportuno assumere solo in parte la tradizionale querelle storiografica su continuità o frattura del Rinascimento. Si tratta di un dibattito che trovò la sua prima sistemazione nell’Ottocento, a partire dal classico libro dello storico svizzero Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (Die Kultur der Renaissance in Italien), stampato nel 1860 e tradotto in Italia nel 1876, e, per il versante letterario, a partire dalla Storia di Francesco De Sanctis (1870-’72). Entrambi, in modo diverso, puntellarono l’idea già diffusa di una discontinuità radicale del Rinascimento rispetto alle epoche precedenti: Burckhardt mettendo in risalto la nascita della coscienza individuale, libera o progressivamente liberata dal condizionamento della superstizione religiosa, che si manifesterebbe dal sorgere dell’Umanesimo quattrocentesco sino all’età di Raffaello; De Sanctis invece deplorando il carattere amorale e apolitico di un’età volta soltanto alla cura della « pura forma », chiusa nella contemplazione di sublimi mon-di interiori lontani dalla realtà – caso emblematico l’Ariosto rappresentato « con la testa scarica e il cuore tranquillo ».
Nel Novecento sono stati mossi numerosi rilievi a questo tipo di impostazione da parte di studiosi che per fini diversi, oltre a problematizzare la questione della “forma”, hanno avuto facile gioco nel reperire ed elencare elementi di continuità culturale (o semplicemente, volta a volta, artistica, letteraria, filosofica) tra Medioevo e Rinascimento o piú distesamente tra Medioevo ed Età moderna. Basterà qui citare il caso piú illustre, il libro dell’olandese Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo (Herfsttij der Middeleeuwen), apparso nel 1919 e in Italia nel 1940, che individuava piú elementi di continuità socio-culturale che di frattura tra l’« autunno » del Medioevo e il Rinascimento, posticipando all’Età dei lumi il momento in cui si diffonderebbe la fiducia nelle capacità dell’uomo di migliorare la propria esistenza nel mondo presente.
Il nostro Rinascimento segue un’impostazione piú puntuale, o forse piú ristretta, fondata sull’assunto che l’interpretazione di una fase della nostra civiltà culturale e piú specificamente letteraria debba essere legata a precise coordinate storiche, entro le quali vanno intesi, al tempo stesso, l’universo normativo del Classicismo e la varietà dei percorsi eccentrici, le opzioni centrifughe degli “irregolari”. Assumendo un paradigma di rottura, e segnando dunque nell’avvio delle guerre in Italia la cesura decisiva, quel che abbiamo cercato di descrivere è la “svolta cinquecentesca” dei modi di produzione della scrittura, svolta che si determina attraverso la definizione dell’italiano letterario e la fondazione di un sistema dei generi, scandito su base aristotelica, legato a istanze retoriche e poetiche, ma anche sociali.
Va da sé che tale interpretazione non sia trasferibile meccanicamente, sul fondamento del mero dato temporale, ad altri versanti della cultura: lo storico dell’arte può trovare facili argomenti nel far coincidere, secondo un noto suggerimento vasariano, l’inizio della “rinascita” con Cimabue e Giotto o, secondo un’altra ottica diffusa, nella formalizzazione delle leggi prospettiche; nella storia della filosofia la crisi della Scolastica o il nuovo platonismo del Quattrocento possono essere considerati il tornante decisivo per la nascita del pensiero moderno. Nella storiografia letteraria resta a nostro avviso fondamentale segnare la rottura, che appare evidente in una delle questioni di fondo dell’epoca: il rapporto latino-italiano. Certo, chi, magari anche per via della propria formazione, ritiene che il Rinascimento sia solo una continuazione del Classicismo umanistico esprimerà la tendenza a identificare il Rinascimento con l’Umanesimo, ponendo il XV secolo al centro del proprio discorso critico. Ma una delle idee alla base di questo libro è che la svolta linguistica cinquecentesca non sia interpretabile come un dettaglio formale, come se si trattasse di una variante minore di un percorso in buona misura compiuto: nel Cinquecento la cultura letteraria prende vigore su basi nuove, largamente condivise; il latino è progressivamente accantonato non solo perché il volgare ha un pubblico di lettori potenzialmente piú numeroso (via via molto piú numeroso) ma perché all’italiano vengono riconosciuti una dignità e un prestigio che a Petrarca come a Boiardo erano ancora sconosciuti.
La prospettiva di cui siamo maggiormente debitori è quella tracciata da chi ha individuato, nell’impronta decisiva lasciata da Bembo per la definizione di una lingua letteraria regolata (la cosiddetta omologazione linguistica del Cinquecento) e nel passaggio compiutosi intorno all’assolutismo “maturo” delle corti italiane dei primi anni del secolo (testimoniata dalla svolta “antropologica” del dialogo pubblicato da Baldassar Castiglione), il nodo principale che permette di inquadrare storicamente il « rinascimento dei moderni »[4] come un sistema complesso e dalla cronologia differita, che non può essere dissolto nella nebulosa indistinta dei « molti rinascimenti ».
Accanto a Bembo, un ruolo decisivo fu svolto dalle opere di Aristotele. Tesori di erudizione e finezza critica si spesero infatti nella zona centrale del secolo sul testo della Poetica, entro una dinamica di definizione dei generi letterari, una definizione che associava all’istanza normativa, potenzialmente cogente (regole, a partire da quelle celebri delle “unità”), una riflessione importante sullo statuto e sul valore universale della poesia, dalla tragedia all’epica. Ed è proprio nell’ambito dei poemi che è possibile ritrovare un altro aspetto decisivo per definire il carattere “rinascimentale” del Cinquecento. È il caso della rivoluzione nel campo narrativo realizzata da Ariosto e poi da Tasso, veri antesignani – si pensi per l’uno al romanzo umoristico, per l’altro al romanzo storico – del genere con cui oggi si designa la narrazione lunga in prosa: del resto, se le questioni sorte e dibattute intorno al poema epico-cavalleresco contengono in nuce problemi di portata capitale anche per le epoche successive (la focalizzazione del narratore, il senso del decoro, la coerenza e la verisimiglianza), già per i lettori contemporanei era visibile il solco enorme scavato da Ariosto rispetto alla tradizione che lo precedeva, nel segno di una continuità solo apparente.
Su un simile ventaglio di proposte, all’origine di un fascio di capolavori raccolti in pochi anni, l’industria tipografica agí come moltiplicatore, allargando nella parte centrale del secolo i confini di una società che si riconosceva e si specchiava nella produzione culturale. Al centro del sistema, ancora per tutto il secolo, il mondo delle corti, le pratiche di mecenatismo che animarono i centri piú importanti e che costituirono in un certo senso lo snodo imprescindibile di relazione tra dorsale storica ed elaborazione letteraria. Questa ricchissima elaborazione di soluzioni concettuali e formali da contrapporre alla crisi fece la fortuna del modello italiano, come mostra in maniera esemplare il successo europeo del capolavoro di Baldassar Castiglione, Il libro del Cortegiano, che offre il segno piú vivido del ruolo di guida esercitato dalla cultura italiana, della sua capacità di offrire una serie di opere decisive per la costruzione e l’interpretazione della modernità.


Da “La letteratura e le cose”, 12 aprile 2016

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