È da poco uscito per
l'editore Salerno Il Rinascimento. Un’introduzione al
Cinquecento letterario italiano di Giancarlo Alfano, Claudio
Gigante e Emilio Russo. Questa è l’introduzione che ho ripreso dal
sito “La letteratura e le cose”. (S.L.L.)
Ludovico Ariosto |
La categoria di
Rinascimento, di larga applicazione nell’ambito delle discipline
umanistiche, in lingue diverse ed entro diverse tradizioni di studi,
è uno dei pochi termini storiografici che circolano con successo
anche al di fuori del circuito accademico. Con Rinascimento si
indicano spesso, però, fenomeni culturali assai diversi, con
significative divergenze anche all’interno delle stesse aree
disciplinari: tra gli storici della letteratura c’è chi prende le
mosse dalla “rinascenza carolingia”, chi fa riferimento a un
fenomeno che caratterizzerebbe la cultura volgare italiana a partire
dal XIII secolo, o almeno a partire da Petrarca, chi si concentra
sulla stagione di Quattro e Cinquecento, chi infine – ed è senza
dubbio la disparità maggiore, visibile finanche nelle partizioni dei
manuali per le scuole – propende a identificare il Rinascimento con
il periodo e la cultura dell’Umanesimo in opposizione a chi
considera il Rinascimento (o il « pieno » Rinascimento, secondo
una fortunata formulazione crociana) come un movimento culturale
avviatosi in Italia a partire dall’inizio del secolo XVI.
L’impostazione del
nostro libro è decisamente orientata verso quest’ultima
concezione, e pertanto considera l’arco cronologico che va dalla
discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, nel 1494, all’ultimo
decennio del XVI secolo, segnatamente al 1595, anno di morte di
Torquato Tasso. La spedizione militare del 1494 mette infatti in
crisi i modelli politici della sovranità medievale ereditati e
rielaborati dalle signorie quattrocentesche, dando il via a un
sistema di corti piú aperto e dinamico, che in certi casi, con
particolare riguardo ai modi della produzione culturale, assume
connotati sovraregionali. A partire da quello stesso periodo, con la
morte di Lorenzo il Magnifico e subito dopo di Poliziano, anche il
ruolo culturale e simbolico di Firenze inizia a mutare, perdendo
progressivamente di centralità. Sul versante della storia della
cultura si registrano nel giro di pochi decenni due eventi capitali:
il regime del libro manoscritto è sottoposto alla concorrenza
pressante, e progressivamente trionfante, del libro tipografico;
d’altra parte il primato indiscusso della lingua latina è scosso
sin dalle fondamenta, lasciando il posto al nuovo primato del
volgare, poi detto lingua italiana. Un terzo evento, di portata
europea e di rilievo davvero epocale, riguarda la progressiva
frattura nel mondo della religiosità cristiana che, a partire dal
clamoroso gesto di Lutero (dapprincipio isolato e comunque limitato
alla polemica interna al clero), avrebbe portato a una delle piú
sanguinose esperienze del mondo post-medievale. Anche questo aspetto,
che abbiamo deciso di trattare in modo solo marginale, contribuisce a
fare dei decenni tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento un
periodo decisivo per la definizione di una nuova cultura, compromessa
con la mobilità, la trasformazione, la perdita dei riferimenti
locali.
Il Rinascimento dei
“moderni” coincide, nella prospettiva che abbiamo adottato, con
quella stagione della cultura letteraria italiana che ha inizio con
la « ruina » d’Italia – come i contemporanei la definirono
– e che raccoglie al suo interno un ricchissimo ventaglio di
esperienze culturali, che possiamo leggere come una forte e
consapevole risposta ai mutamenti allora in corso. In questa
risposta, in questo attraversamento di anni carichi di tensione, un
paio di generazioni di letterati italiani approfondí in modo
decisivo il rapporto con la tradizione dell’Antichità, con i
modelli letterari e ideali che venivano soprattutto dalla latinità,
per l’elaborazione di nuovi classici (da Castiglione a Bembo, da
Ariosto a Machiavelli): classici che nelle loro fibre, in modo
indiretto e insieme molto eloquente, intendevano offrire modelli
moderni per la letteratura e per la storia. Il Rinascimento, dunque,
come “cultura della crisi”, caratterizzata dall’assunzione
della tradizione per fronteggiare un presente che chiedeva risposte
nuove: attuali, e non in latino; generali, e non municipali; plurali,
e non univoche, perché effetto di una « genesi poliforme e
policentrica », come scriveva Giancarlo Mazzacurati, che fu tipica
« dell’età moderna ».
Continuità,
frattura, classicismi
Il nostro libro insiste
dunque sulla centralità del Cinquecento, e in particolare del
Cinquecento italiano, per la definizione di Rinascimento. Nel
prepararlo, ci è sembrato opportuno assumere solo in parte la
tradizionale querelle storiografica su continuità o frattura del
Rinascimento. Si tratta di un dibattito che trovò la sua prima
sistemazione nell’Ottocento, a partire dal classico libro dello
storico svizzero Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in
Italia (Die Kultur der Renaissance in Italien), stampato
nel 1860 e tradotto in Italia nel 1876, e, per il versante
letterario, a partire dalla Storia di Francesco De Sanctis
(1870-’72). Entrambi, in modo diverso, puntellarono l’idea già
diffusa di una discontinuità radicale del Rinascimento rispetto alle
epoche precedenti: Burckhardt mettendo in risalto la nascita della
coscienza individuale, libera o progressivamente liberata dal
condizionamento della superstizione religiosa, che si manifesterebbe
dal sorgere dell’Umanesimo quattrocentesco sino all’età di
Raffaello; De Sanctis invece deplorando il carattere amorale e
apolitico di un’età volta soltanto alla cura della « pura
forma », chiusa nella contemplazione di sublimi mon-di interiori
lontani dalla realtà – caso emblematico l’Ariosto rappresentato
« con la testa scarica e il cuore tranquillo ».
Nel Novecento sono stati
mossi numerosi rilievi a questo tipo di impostazione da parte di
studiosi che per fini diversi, oltre a problematizzare la questione
della “forma”, hanno avuto facile gioco nel reperire ed elencare
elementi di continuità culturale (o semplicemente, volta a volta,
artistica, letteraria, filosofica) tra Medioevo e Rinascimento o piú
distesamente tra Medioevo ed Età moderna. Basterà qui citare il
caso piú illustre, il libro dell’olandese Johan Huizinga,
L’autunno del Medioevo (Herfsttij der Middeleeuwen),
apparso nel 1919 e in Italia nel 1940, che individuava piú elementi
di continuità socio-culturale che di frattura tra l’« autunno »
del Medioevo e il Rinascimento, posticipando all’Età dei lumi il
momento in cui si diffonderebbe la fiducia nelle capacità dell’uomo
di migliorare la propria esistenza nel mondo presente.
Il nostro Rinascimento
segue un’impostazione piú puntuale, o forse piú ristretta,
fondata sull’assunto che l’interpretazione di una fase della
nostra civiltà culturale e piú specificamente letteraria debba
essere legata a precise coordinate storiche, entro le quali vanno
intesi, al tempo stesso, l’universo normativo del Classicismo e la
varietà dei percorsi eccentrici, le opzioni centrifughe degli
“irregolari”. Assumendo un paradigma di rottura, e segnando
dunque nell’avvio delle guerre in Italia la cesura decisiva, quel
che abbiamo cercato di descrivere è la “svolta cinquecentesca”
dei modi di produzione della scrittura, svolta che si determina
attraverso la definizione dell’italiano letterario e la fondazione
di un sistema dei generi, scandito su base aristotelica, legato a
istanze retoriche e poetiche, ma anche sociali.
Va da sé che tale
interpretazione non sia trasferibile meccanicamente, sul fondamento
del mero dato temporale, ad altri versanti della cultura: lo storico
dell’arte può trovare facili argomenti nel far coincidere, secondo
un noto suggerimento vasariano, l’inizio della “rinascita” con
Cimabue e Giotto o, secondo un’altra ottica diffusa, nella
formalizzazione delle leggi prospettiche; nella storia della
filosofia la crisi della Scolastica o il nuovo platonismo del
Quattrocento possono essere considerati il tornante decisivo per la
nascita del pensiero moderno. Nella storiografia letteraria resta a
nostro avviso fondamentale segnare la rottura, che appare evidente in
una delle questioni di fondo dell’epoca: il rapporto
latino-italiano. Certo, chi, magari anche per via della propria
formazione, ritiene che il Rinascimento sia solo una continuazione
del Classicismo umanistico esprimerà la tendenza a identificare il
Rinascimento con l’Umanesimo, ponendo il XV secolo al centro del
proprio discorso critico. Ma una delle idee alla base di questo libro
è che la svolta linguistica cinquecentesca non sia interpretabile
come un dettaglio formale, come se si trattasse di una variante
minore di un percorso in buona misura compiuto: nel Cinquecento la
cultura letteraria prende vigore su basi nuove, largamente condivise;
il latino è progressivamente accantonato non solo perché il volgare
ha un pubblico di lettori potenzialmente piú numeroso (via via molto
piú numeroso) ma perché all’italiano vengono riconosciuti una
dignità e un prestigio che a Petrarca come a Boiardo erano ancora
sconosciuti.
La prospettiva di cui
siamo maggiormente debitori è quella tracciata da chi ha
individuato, nell’impronta decisiva lasciata da Bembo per la
definizione di una lingua letteraria regolata (la cosiddetta
omologazione linguistica del Cinquecento) e nel passaggio compiutosi
intorno all’assolutismo “maturo” delle corti italiane dei primi
anni del secolo (testimoniata dalla svolta “antropologica” del
dialogo pubblicato da Baldassar Castiglione), il nodo principale che
permette di inquadrare storicamente il « rinascimento dei
moderni »[4] come un sistema complesso e dalla cronologia
differita, che non può essere dissolto nella nebulosa indistinta dei
« molti rinascimenti ».
Accanto a Bembo, un ruolo
decisivo fu svolto dalle opere di Aristotele. Tesori di erudizione e
finezza critica si spesero infatti nella zona centrale del secolo sul
testo della Poetica, entro una dinamica di definizione dei
generi letterari, una definizione che associava all’istanza
normativa, potenzialmente cogente (regole, a partire da quelle
celebri delle “unità”), una riflessione importante sullo statuto
e sul valore universale della poesia, dalla tragedia all’epica. Ed
è proprio nell’ambito dei poemi che è possibile ritrovare un
altro aspetto decisivo per definire il carattere “rinascimentale”
del Cinquecento. È il caso della rivoluzione nel campo narrativo
realizzata da Ariosto e poi da Tasso, veri antesignani – si pensi
per l’uno al romanzo umoristico, per l’altro al romanzo storico –
del genere con cui oggi si designa la narrazione lunga in prosa: del
resto, se le questioni sorte e dibattute intorno al poema
epico-cavalleresco contengono in nuce problemi di portata
capitale anche per le epoche successive (la focalizzazione del
narratore, il senso del decoro, la coerenza e la verisimiglianza),
già per i lettori contemporanei era visibile il solco enorme scavato
da Ariosto rispetto alla tradizione che lo precedeva, nel segno di
una continuità solo apparente.
Su un simile ventaglio di
proposte, all’origine di un fascio di capolavori raccolti in pochi
anni, l’industria tipografica agí come moltiplicatore, allargando
nella parte centrale del secolo i confini di una società che si
riconosceva e si specchiava nella produzione culturale. Al centro del
sistema, ancora per tutto il secolo, il mondo delle corti, le
pratiche di mecenatismo che animarono i centri piú importanti e che
costituirono in un certo senso lo snodo imprescindibile di relazione
tra dorsale storica ed elaborazione letteraria. Questa ricchissima
elaborazione di soluzioni concettuali e formali da contrapporre alla
crisi fece la fortuna del modello italiano, come mostra in maniera
esemplare il successo europeo del capolavoro di Baldassar
Castiglione, Il libro del Cortegiano, che offre il segno piú
vivido del ruolo di guida esercitato dalla cultura italiana, della
sua capacità di offrire una serie di opere decisive per la
costruzione e l’interpretazione della modernità.
Da “La letteratura e le
cose”, 12 aprile 2016
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