26.3.17

Ombre dell'Anatolia. La memoria segreta del genocidio armeno (Giampaolo Visetti)

La nazionale armena nel 1908, prima del dramma
HARPUT (Anatolia sud-orientale)
La "Masseria delle allodole" non esiste più. Introvabili anche il vecchio magazzino del sale, o la farmacia di Sempad. Le cascate fuori dalla piccola città sono prosciugate da tempo. Nessuno si permette il lusso della memoria: di aver sentito narrare, dai vecchi, di un mondo intatto degli armeni. Dove sorgeva la casa degli Arslanian ora fioriscono i mandorli che ombreggiano le pietre tombali di un piccolo cimitero siriano. La polverosa Aslanli Sokak conduce ai resti delle antiche concerie, ai piedi della fortezza precristiana dell'Ottavo secolo.
Sulle colline arse dell'Anatolia le rovine di settanta chiese, un centinaio di bagni turchi ottomani trascinano l'orizzonte fino al blu del lago Gurus. La vallata di Kurdemlik è invasa dal verde del primo grano, dai boccioli rosa degli albicocchi. Dietro, la neve infinita del Nemrut. Solo il vento bussa alle porte di certe case crollate. Alcuni venditori di nocciole sorseggiano il tè sugli sgabelli mozzi, allineati davanti al minareto della moschea di Saruhan. Nell'aria, il profumo dell'agnella arrostita sul carbone. Quasi ci si dimentica, nel sole caldo di questa meravigliosa pace, di camminare tra ciò che resta di un inferno che brucia.
Non è un errore. I muri diroccati, le piramidi di sassi riconquistati dal prato e i tetti sfondati, le cui travi ingrigite svettano come croci gettate contro il cielo, sono i quartieri armeni di Harpert. Coppie di innamorati vagano convinte di abbracciarsi tra le fondamenta del palazzo di Osman Yavuz Selim, padre di Solimano il Magnifico. Nulla indica che si addentrano invece nel cuore del Metz Yeghern, il Grande Male: il genocidio armeno. Dopo novantadue anni il libro di Antonia Arslan, da cui è tratto l'ultimo film dei fratelli Taviani, è di nuovo a casa, dove è nato. Afrim Tanoglu, ottant'anni, suggerisce di adagiarlo davanti al vecchio portone del bey Sabit, il vali turco che organizzò la carneficina e la deportazione dell'attuale Harput. È l'edizioneitaliana della Masseria, mai tradotta in turco per il veto di Ankara. I guardiani della tomba di Arap Babà la sfogliano stupiti. Non credono alla storia.
Il 24 aprile 1915 furono costretti a partire in dodicimila, dalle case oggi cancellate di Harpert. Ad Aleppo, in Siria, arrivarono duecentotredici spettri. Quasi un milione e mezzo, in due anni, le vittime nei villaggi dell'Anatolia. Chi era sopravvissuto alle marce e ai campi di prigionia sparì nel vuoto del deserto.
«Perché siete qui?», domanda Zarha. È impazzita molti anni dopo, il giorno in cui ha saputo come fu uccisa sua madre. I soldati turchi avevano puntato alto su quella gravidanza. Maschio o femmina? La squartarono come un montone. Estrassero con la baionetta colui che le sarebbe dovuto essere fratello. La vecchia Zarha ha succhiato l'ultimo latte da una mammella recisa. Rimasta a Elazig, la nuova città alle pendici di Harput, cura i tulipani nel giardino di una madrasa. Due orti più in là, discretamente, si riuniscono a pregare le dodici famiglie armene ancora nascoste nella regione. La chiesa siriana, che le ospita, è una stanza tinteggiata d'azzurro e impregnata degli incensi. «Mia madre», dice Zarha, «era armena». Si ripara dietro a una porta sentendo qualcuno che domanda di «quelli». Poi accarezza quel misterioso libro straniero, sembra ricordare: silenziosamente lascia che le pagine si aprano al richiamo del muezzin.
Solo un pellegrinaggio, sostando nelle dimenticate stazioni di una laica via crucis scandita dai massacri del Novecento, può condurre tra queste gole vulcaniche. Nessuno qui, fra due giorni, si riunirà per ricordare l' inizio della "grande retata". La pulizia etnico-religiosa dei Giovani Turchi, spaventati dallo sfacelo dell' Impero ottomano e dall'offensiva dei russi all' inizio della Grande guerra, ha avuto successo. In Anatolia, da secoli, convivevano turchi, greci, curdi, armeni, ebrei, siriaci, arabi, circassi e lasi. Uno su tre non era musulmano. Oggi, in tutta la Turchia, sono rimasti sessantamila armeni riparati a Istanbul, alcune centinaia nascosti nei villaggi. Ad Harput, crocevia delle deportazioni tra il Mar Nero e il Mediterraneo, non ne vive più uno. Una cinquantina, dispersi e sommersi, ad Elazig. Le chiese cristiane sono macerie a cielo aperto: nella notte fredda, quando molte stelle si avvicinano, i pastori vi si riparano dal vento. Più di questa assenza, impressionano la rimozione collettiva e la soffocante paura. Nulla segnala, o circoscrive, i luoghi delle prove generali per l' Olocausto degli ebrei. Sterminati impunemente gli armeni, le loro case sono state razziate e poi distrutte dai curdi. Per i turchi dell'Est «quelli sono solo andati via».
Trovare una famiglia armena, spesso forzosamente convertita all' Islam, può richiedere giorni di indagini e appuntamenti disertati. La maggioranza ha cambiato cognome. Qualcuno fornisce un numero di telefono, chi risponde rinvia ad un altro. Gli incontri sono fissati tra la folla anonima dei bazar: non sempre ci si mette d' accordo per un tè nella dimora dell' ospite. Sui laconici colloqui grava il sospetto. La diffidenza suggerisce agli armeni rassicurazioni di circostanza. La maggioranza recita frasi confezionate che presume gradite alla propaganda ufficiale. Perché fidarsi di uno sconosciuto? Una frase scorretta può costare la vita, o trasformarsi in un capo d' imputazione.
La maledetta Malatya, dove le albicocche sono grandi e dolci come pesche, Mezreh, Kayseri, Tunceli, Diyarbakir, Erzurum, o l' esotica Van, distrutta capitale del regno di Urartu, non sono divenuti scandalosi monumenti alla follia umana. Sono la culla di "Lupi Grigi", Hezbollah e misteriose cellule di nuovi estremisti islamici: gli armeni, ancora, dormono sospesi come gli altri cristiani. Da un caravanserraglio abbandonato di Elazig è partito Mehemet Agar, complice di Ali Agca nel disegno omicida contro papa Wojtyla.
Non si ragiona sul passato, ma si seguitano a contare gli attentati nazional-fondamentalisti. «Non ci vogliono», sussurra il muratore Yeckin Afsin badando di non farsi sentire nemmeno dalla moglie. «Di giorno sorridiamo da turchi, la notte piangiamo da armeni». Gli assassinii di don Santoro e di Hrant Dink, direttore del settimanale Agos, hanno fissato uno spartiacque sulla via della riconciliazione. I passi della pace trascinano indietro. Gli spari di Osmanbey, a Istanbul, sono giunti fino all' Ararat scintillante. L'assalto crudele di mercoledì scorso nella casa editrice presbiteriana di Malatya conferma la riesplosione di una radicale caccia alle streghe. Altri tre missionari seviziati, incaprettati e sgozzati «per Dio e per la patria», nella città doppia di Agca e Dink. Una agghiacciante lezione esemplare: in Anatolia, non solo a Trebisonda, trovare un pugno di ragazzi pronti a macellare chi lotta per la comprensione fra turchi e armeni, o tra musulmani e cristiani, resta rapido ed economico. Per questo chi non è emigrato in Europa, o in America, ora sa che restare in Turchia significa continuare a nascondersi, scommettere sull' ultimo respiro: o pagare il prezzo del proprio annullamento.
La donna più bella di Konya lo ha fatto. Dice di avere centodieci anni. è la più vecchia, in Asia minore, dei tre sopravvissuti al Metz Yeghern. Prega di non avere un nome pubblico. Per salvare le sorelle, nell' aprile del 1915, ha sposato l' uomo che le aveva decapitato il marito. Uno dei figli di primo letto fu obbligato a gettare il fratello in un precipizio. Le strane piaghe che gli devastavano il viso facevano temere un contagio. «Non riuscivo a capire», dice, «se era giusto amare i bambini che ho concepito dopo, con il turco che mi aveva acquistato». Convertita all'Islam, ha scordato l'armeno e imparato il curdo. «Ho passato la vita», dice, «a odiare il mio sposo assassino e a invocare su di lui la spada di un Dio. La notte mi sogno ragazza, a cavallo con il compagno che mi è stato sottratto».
Salendo i sentieri pietrosi del monte Siurice poco importa delle dispute storico-giuridiche sulla definizione del genocidio. Quali risarcimenti potrebbero esigere da Ankara gli armeni che non ci sono più? Quali restituzioni territoriali? Contano più le commesse industriali, l'adesione alla Ue, le leggi contro i negazionisti, o la diffusione di una salvifica verità collettiva? Più scandalose ancora delle crisi diplomatiche e delle nuove stragi si rivelano così la rimozione del dolore, la cancellazione ufficiale del massacro. Il terrore, il senso di colpa, in cui sono costretti a sopravvivere i discendenti delle vittime.
Le ombre si allungano quando Afrim indica le rive del lago Goluyuk, ribatezzato Hazar. Appare come un giardino magico in cui scomparire, lentamente, per sempre. Non c' è un cartello che ne racconti la storia. Ma è stato qui, nell'estate di novantadue anni fa, che circa seimila donne e bambini di Harpert sono stati uccisi e dati in pasto ai cani affinché presto cancellassero ogni traccia. «Oppure i deportati», dice, «venivano bruciati. Le guardie del vali cercavano l'oro anche nello stomaco». Ci scherza ancora, l'autista. «Loro sono scappati», recita un'oscena filastrocca che allude al mitico tesoro sepolto dagli armeni prima degli arresti, «ma noi non smetteremo di dare la caccia all'oro di loro». Su un prato rosso alcuni tavoli, accarezzati dai ciliegi, circondano i fuochi spenti per il kebab dei meriggi più miti. Non c'è una tomba sul luogo dove ottocento maschi, legati a mucchi di quattordici, sono stati fucilati dai gendarmi. Montagne di ossa hanno ostruito le fosse scavate per conservare il ghiaccio. Perché la vergogna di questo silenzio? Perché chi «discredita o collabora a discreditare la nazione» viene condannato a dieci anni di carcere? Perché ci si può distendere su queste erbe odorose senza poter capire dove si riposa?
«La moderna Turchia», rispondono ad Agos gli amici di Dink, «è nata dall'annientamento degli armeni. Riconoscerlo significa ricostruire una complessa identità civile. Il problema è che il momento del confronto con la storia infine ti raggiunge. Se lo affronteremo onestamente, non ci saranno sconfitti. Lo sviluppo di una cultura di pace, garantita da uno Stato laico, renderà onore a tutti. Solo allora turchi e armeni cammineranno a testa alta di fronte all'umanità». È un tempo che l'ipocrisia politica, definita pragmatismo, allontana.
Antonia Arslan non ha mai visto il suo villaggio di origine. Paolo e Vittorio Taviani hanno dovuto girare in Bulgaria La masseria delle allodole. Il governo turco ha cercato fino all'ultimo di bloccare il finanziamento europeo, votando contro la realizzazione del film. Il libro non è stato stampato e la pellicola non approderà nei cinema di questo straordinario Paese. È come se la Germania fosse insorta contro La vita è bella di Benigni, censurandolo. Armeni e turchi, prigionieri di una contrapposta storiografia fondata sull'odio, vengono così tenuti all'oscuro anche dei grandi gesti di bontà. Molte case dell' Anatolia, dietro l' orrore, celano un passato di eroismo. Migliaia di donne e di bambini strappati dalle colonne dei deportati. Migliaia di uomini nascosti e nutriti per anni nelle cantine dei turchi. Migliaia di salvati, in cambio dei loro beni, imbarcati clandestinamente sulle navi inglesi e francesi. Migliaia di ragazze armene sposate dai turchi per risparmiare anche una sola vita. Soltanto così, bussando casa per casa nei villaggi contadini sud-orientali, si scopre l'ignorata resistenza popolare di chi rischiò l'impiccagione per restare se stesso. Una minoranza, ma è da essa che si può ricominciare. Etyen, stampatore di stoffe ad Adyaman, è uno dei tanti curdi di sangue armeno. Lo ha saputo tre anni fa, casualmente. Sua nonna Leora, fuggita dal campo di prigionia ad Aleppo, si è maritata con un siriano. Il figlio ha sposato una curda. «Sono come tutti qui», dice, «un caffelatte. Fatta la miscela, è impossibile separare gli ingredienti».
Una beffa del destino, per il triumvirato Talaat-Enver-Djemal che allo scoppio della Prima guerra mondiale si alleò con gli Imperi centrali di Berlino e Vienna. Chi è turco, oggi in Anatolia? Chi armeno e chi curdo? La gente è stata più coraggiosa di chi l'ha governata ed è difficile, nonostante una pulizia etnica maniacalmente programmata, distinguere un'ipotetica "purezza della razza".
Che a prevalere sugli interessi dei potenti siano infine la natura, l'amore e l'istinto di sopravvivenza degli ultimi, lo dimostra la popolazione di Vakifli. Trenta famiglie, un centinaio di persone: è l'unico villaggio interamente armeno sul territorio turco. Citato nella Bibbia, vicino ad Antiochia, a dieci chilometri dal confine siriano, è il simbolo della resistenza contro le vendette. Franz Werfel, nel 1933, ne ha raccontato la storia nel romanzo I quaranta giorni del Musadag. Più volte Hollywood ha cercato di ricavarne un film, sempre dissuasa dalle pressioni di Ankara sul Congresso Usa.
Antranik Demirci, novantaquattro anni, è l'ultimo testimone del genocidio. è cresciuto con la paura di non essere turco, invecchiato con la vergogna di non essere morto. «Dopo i mesi della lotta contro la deportazione», dice, «ciò che restava della mia famiglia fuggì in Egitto. In cinquemila, per quattro anni, siamo rimasti nel campo profughi di Porto Said. Avevo sei anni quando mi hanno riportato ad Aleppo ed ho scoperto che cinquantasei miei parenti erano scomparsi». Adulto, ha seguito le loro tracce nel deserto, fino a Deir-es-Zor. Il luogo scelto per il "reinsediamento" degli armeni deportati, era il nulla. Dune di sabbia, distese di pietre incandescenti. Chi aveva svenduto casa e beni per corrompere i soldati e trascinarsi al capolinea del massacro, morì di fame e di sete.
Khayel Kartun, dentista armeno espatriato, indica l'ansa dell'Eufrate prediletta dalle cicogne per costruire centinaia di nidi di prodigiosa perfezione. Sua nonna si è annegata oltre il canneto. «Una novantina di prigioniere», dice, «si immersero cantando, a braccia alzate. Avevano promesso di salvare i loro ultimi figli. Compresero che sarebbero finite schiave negli harem arabi, prima che i neonati venissero schiacciati contro le rocce. Si sono immerse di notte, perché i bambini non vedessero». Sono altre storie come questa, non scritte, ad essere narrate la sera sotto le vigne che a Vakifli rubano la schiuma alla brezza del mare. Quattrocento emigrati armeni, ogni estate, ritornano da tutto il mondo per non dimenticare chi sono. Chiedono solo di vivere in pace, custodendo la propria origine: i turchi rispettano il loro secolare coraggio. «Perché siete qui?», chiede infine anche il vecchio Antranik Demirci. Si gira di spalle, mentre ascolta la storia dell' "armena italiana" che viene ora clandestinamente riportata tra le sue steppe. La frontiera fra Turchia e Armenia resta chiusa. è considerata «zona di guerra». Famiglie, sui due versanti dell' Aras Nehri, non si sono mai incontrate. Alla domanda più importante, in Anatolia, nessuno accetta di rispondere. «Cosa penso del genocidio armeno?», chiede in una stalla di Kars il pastore Ahmet Sadik Tekai. «Niente». Duemila chilometri a occidente, nel patriarcato degli armeni apostolici di Istanbul, l'arcivescovo Haram Atesjan ripete: «No comment». Quasi un secolo dopo, in Turchia, resiste una domanda che non si dovrebbe porre e a cui non si deve rispondere. I giornali denunciano l'estremismo del Pkk, l'infatuata spietatezza anti-cristiana di "Lupi Grigi" ed Hezbollah, l' antistoricità del "Muro di Cipro" o le contestate ambizioni presidenziali del premier Erdogan. «Si tenta», dice il successore di Dink, Etyen Mahcupian, «di ridurre la questione armena a una forma di nostalgia della diaspora, o di presentarla come un complotto internazionale anti-turco. La realtà è che i turchi tolleranti hanno di nuovo paura di essere giudicati traditori, gli armeni coerenti di essere ammazzati. E la comunità internazionale, come novantadue anni fa, continua a pesare gli anticipi dei contratti».
Ad Harput il vecchio Mustafà, settantotto anni, cieco e ormai sordo, vive nel sepolcro di Nadir Baba. Esce solo al tramonto, strisciando carponi fino ad aspirare la zuppa di riso e lenticchie rosse che qualcuno lascia per lui nel cortile in bilico sull' altopiano. «L'odio», dice, «genera pazzi. La vendetta è madre della solitudine. Qui si sono invaghiti. I figli siamo noi: spietati custodi dell'indifferenza». Indica una casa armena, tra le poche a conservare un tetto. È in vendita. Un foglio sulla finestra fornisce un numero di telefono. Quando lo si compone, l'ex muratore Izzettin si precipita fuori dal forno del pane. «La fattoria di campagna degli Arslanian?», chiede. Poi mostra un edificio rosso, a nord, isolato su pascoli selvatici, a mezz'ora di asino. La bellezza dell'orizzonte, come dice Ahmet Rasim, è nella sua tristezza. Di allora, forse, resta un pezzo di muro crollato nell' ortoaccanto. Erano diciassettemila gli armeni tra qui e Mezreh. Oggi nessuno.
Izzettin, innocente, ha sperato di concludere un ultimo affare. Ascolta il racconto della Masseria delle allodole. Scandisce più volte «Ar-slan», «Ar-slan», come a frugare in una memoria che sa impossibile. «Gli armeni», dice. Stacca un frammento di pietra: e di nascosto se lo infila in tasca.


“la Repubblica”, 22 aprile 2007  

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