La nazionale armena nel 1908, prima del dramma |
HARPUT (Anatolia
sud-orientale)
La "Masseria delle
allodole" non esiste più. Introvabili anche il vecchio
magazzino del sale, o la farmacia di Sempad. Le cascate fuori dalla
piccola città sono prosciugate da tempo. Nessuno si permette il
lusso della memoria: di aver sentito narrare, dai vecchi, di un mondo
intatto degli armeni. Dove sorgeva la casa degli Arslanian ora
fioriscono i mandorli che ombreggiano le pietre tombali di un piccolo
cimitero siriano. La polverosa Aslanli Sokak conduce ai resti delle
antiche concerie, ai piedi della fortezza precristiana dell'Ottavo
secolo.
Sulle colline arse
dell'Anatolia le rovine di settanta chiese, un centinaio di bagni
turchi ottomani trascinano l'orizzonte fino al blu del lago Gurus. La
vallata di Kurdemlik è invasa dal verde del primo grano, dai
boccioli rosa degli albicocchi. Dietro, la neve infinita del Nemrut.
Solo il vento bussa alle porte di certe case crollate. Alcuni
venditori di nocciole sorseggiano il tè sugli sgabelli mozzi,
allineati davanti al minareto della moschea di Saruhan. Nell'aria, il
profumo dell'agnella arrostita sul carbone. Quasi ci si dimentica,
nel sole caldo di questa meravigliosa pace, di camminare tra ciò che
resta di un inferno che brucia.
Non è un errore. I muri
diroccati, le piramidi di sassi riconquistati dal prato e i tetti
sfondati, le cui travi ingrigite svettano come croci gettate contro
il cielo, sono i quartieri armeni di Harpert. Coppie di innamorati
vagano convinte di abbracciarsi tra le fondamenta del palazzo di
Osman Yavuz Selim, padre di Solimano il Magnifico. Nulla indica che
si addentrano invece nel cuore del Metz Yeghern, il Grande Male: il
genocidio armeno. Dopo novantadue anni il libro di Antonia Arslan, da
cui è tratto l'ultimo film dei fratelli Taviani, è di nuovo a casa,
dove è nato. Afrim Tanoglu, ottant'anni, suggerisce di adagiarlo
davanti al vecchio portone del bey Sabit, il vali turco che organizzò
la carneficina e la deportazione dell'attuale Harput. È
l'edizioneitaliana della Masseria, mai tradotta in turco per il veto
di Ankara. I guardiani della tomba di Arap Babà la sfogliano
stupiti. Non credono alla storia.
Il 24 aprile 1915 furono
costretti a partire in dodicimila, dalle case oggi cancellate di
Harpert. Ad Aleppo, in Siria, arrivarono duecentotredici spettri.
Quasi un milione e mezzo, in due anni, le vittime nei villaggi
dell'Anatolia. Chi era sopravvissuto alle marce e ai campi di
prigionia sparì nel vuoto del deserto.
«Perché siete qui?»,
domanda Zarha. È impazzita molti anni dopo, il giorno in cui ha
saputo come fu uccisa sua madre. I soldati turchi avevano puntato
alto su quella gravidanza. Maschio o femmina? La squartarono come un
montone. Estrassero con la baionetta colui che le sarebbe dovuto
essere fratello. La vecchia Zarha ha succhiato l'ultimo latte da una
mammella recisa. Rimasta a Elazig, la nuova città alle pendici di
Harput, cura i tulipani nel giardino di una madrasa. Due orti più in
là, discretamente, si riuniscono a pregare le dodici famiglie armene
ancora nascoste nella regione. La chiesa siriana, che le ospita, è
una stanza tinteggiata d'azzurro e impregnata degli incensi. «Mia
madre», dice Zarha, «era armena». Si ripara dietro a una porta
sentendo qualcuno che domanda di «quelli». Poi accarezza quel
misterioso libro straniero, sembra ricordare: silenziosamente lascia
che le pagine si aprano al richiamo del muezzin.
Solo un pellegrinaggio,
sostando nelle dimenticate stazioni di una laica via crucis
scandita dai massacri del Novecento, può condurre tra queste gole
vulcaniche. Nessuno qui, fra due giorni, si riunirà per ricordare l'
inizio della "grande retata". La pulizia etnico-religiosa
dei Giovani Turchi, spaventati dallo sfacelo dell' Impero ottomano e
dall'offensiva dei russi all' inizio della Grande guerra, ha avuto
successo. In Anatolia, da secoli, convivevano turchi, greci, curdi,
armeni, ebrei, siriaci, arabi, circassi e lasi. Uno su tre non era
musulmano. Oggi, in tutta la Turchia, sono rimasti sessantamila
armeni riparati a Istanbul, alcune centinaia nascosti nei villaggi.
Ad Harput, crocevia delle deportazioni tra il Mar Nero e il
Mediterraneo, non ne vive più uno. Una cinquantina, dispersi e
sommersi, ad Elazig. Le chiese cristiane sono macerie a cielo aperto:
nella notte fredda, quando molte stelle si avvicinano, i pastori vi
si riparano dal vento. Più di questa assenza, impressionano la
rimozione collettiva e la soffocante paura. Nulla segnala, o
circoscrive, i luoghi delle prove generali per l' Olocausto degli
ebrei. Sterminati impunemente gli armeni, le loro case sono state
razziate e poi distrutte dai curdi. Per i turchi dell'Est «quelli
sono solo andati via».
Trovare una famiglia
armena, spesso forzosamente convertita all' Islam, può richiedere
giorni di indagini e appuntamenti disertati. La maggioranza ha
cambiato cognome. Qualcuno fornisce un numero di telefono, chi
risponde rinvia ad un altro. Gli incontri sono fissati tra la folla
anonima dei bazar: non sempre ci si mette d' accordo per un tè nella
dimora dell' ospite. Sui laconici colloqui grava il sospetto. La
diffidenza suggerisce agli armeni rassicurazioni di circostanza. La
maggioranza recita frasi confezionate che presume gradite alla
propaganda ufficiale. Perché fidarsi di uno sconosciuto? Una frase
scorretta può costare la vita, o trasformarsi in un capo d'
imputazione.
La maledetta Malatya,
dove le albicocche sono grandi e dolci come pesche, Mezreh, Kayseri,
Tunceli, Diyarbakir, Erzurum, o l' esotica Van, distrutta capitale
del regno di Urartu, non sono divenuti scandalosi monumenti alla
follia umana. Sono la culla di "Lupi Grigi", Hezbollah e
misteriose cellule di nuovi estremisti islamici: gli armeni, ancora,
dormono sospesi come gli altri cristiani. Da un caravanserraglio
abbandonato di Elazig è partito Mehemet Agar, complice di Ali Agca
nel disegno omicida contro papa Wojtyla.
Non si ragiona sul
passato, ma si seguitano a contare gli attentati
nazional-fondamentalisti. «Non ci vogliono», sussurra il muratore
Yeckin Afsin badando di non farsi sentire nemmeno dalla moglie. «Di
giorno sorridiamo da turchi, la notte piangiamo da armeni». Gli
assassinii di don Santoro e di Hrant Dink, direttore del settimanale
Agos, hanno fissato uno spartiacque sulla via della riconciliazione.
I passi della pace trascinano indietro. Gli spari di Osmanbey, a
Istanbul, sono giunti fino all' Ararat scintillante. L'assalto
crudele di mercoledì scorso nella casa editrice presbiteriana di
Malatya conferma la riesplosione di una radicale caccia alle streghe.
Altri tre missionari seviziati, incaprettati e sgozzati «per Dio e
per la patria», nella città doppia di Agca e Dink. Una
agghiacciante lezione esemplare: in Anatolia, non solo a Trebisonda,
trovare un pugno di ragazzi pronti a macellare chi lotta per la
comprensione fra turchi e armeni, o tra musulmani e cristiani, resta
rapido ed economico. Per questo chi non è emigrato in Europa, o in
America, ora sa che restare in Turchia significa continuare a
nascondersi, scommettere sull' ultimo respiro: o pagare il prezzo del
proprio annullamento.
La donna più bella di
Konya lo ha fatto. Dice di avere centodieci anni. è la più vecchia,
in Asia minore, dei tre sopravvissuti al Metz Yeghern. Prega di non
avere un nome pubblico. Per salvare le sorelle, nell' aprile del
1915, ha sposato l' uomo che le aveva decapitato il marito. Uno dei
figli di primo letto fu obbligato a gettare il fratello in un
precipizio. Le strane piaghe che gli devastavano il viso facevano
temere un contagio. «Non riuscivo a capire», dice, «se era giusto
amare i bambini che ho concepito dopo, con il turco che mi aveva
acquistato». Convertita all'Islam, ha scordato l'armeno e imparato
il curdo. «Ho passato la vita», dice, «a odiare il mio sposo
assassino e a invocare su di lui la spada di un Dio. La notte mi
sogno ragazza, a cavallo con il compagno che mi è stato sottratto».
Salendo i sentieri
pietrosi del monte Siurice poco importa delle dispute
storico-giuridiche sulla definizione del genocidio. Quali
risarcimenti potrebbero esigere da Ankara gli armeni che non ci sono
più? Quali restituzioni territoriali? Contano più le commesse
industriali, l'adesione alla Ue, le leggi contro i negazionisti, o la
diffusione di una salvifica verità collettiva? Più scandalose
ancora delle crisi diplomatiche e delle nuove stragi si rivelano così
la rimozione del dolore, la cancellazione ufficiale del massacro. Il
terrore, il senso di colpa, in cui sono costretti a sopravvivere i
discendenti delle vittime.
Le ombre si allungano
quando Afrim indica le rive del lago Goluyuk, ribatezzato Hazar.
Appare come un giardino magico in cui scomparire, lentamente, per
sempre. Non c' è un cartello che ne racconti la storia. Ma è stato
qui, nell'estate di novantadue anni fa, che circa seimila donne e
bambini di Harpert sono stati uccisi e dati in pasto ai cani affinché
presto cancellassero ogni traccia. «Oppure i deportati», dice,
«venivano bruciati. Le guardie del vali cercavano l'oro anche nello
stomaco». Ci scherza ancora, l'autista. «Loro sono scappati»,
recita un'oscena filastrocca che allude al mitico tesoro sepolto
dagli armeni prima degli arresti, «ma noi non smetteremo di dare la
caccia all'oro di loro». Su un prato rosso alcuni tavoli,
accarezzati dai ciliegi, circondano i fuochi spenti per il kebab dei
meriggi più miti. Non c'è una tomba sul luogo dove ottocento
maschi, legati a mucchi di quattordici, sono stati fucilati dai
gendarmi. Montagne di ossa hanno ostruito le fosse scavate per
conservare il ghiaccio. Perché la vergogna di questo silenzio?
Perché chi «discredita o collabora a discreditare la nazione»
viene condannato a dieci anni di carcere? Perché ci si può
distendere su queste erbe odorose senza poter capire dove si riposa?
«La moderna Turchia»,
rispondono ad Agos gli amici di Dink, «è nata dall'annientamento
degli armeni. Riconoscerlo significa ricostruire una complessa
identità civile. Il problema è che il momento del confronto con la
storia infine ti raggiunge. Se lo affronteremo onestamente, non ci
saranno sconfitti. Lo sviluppo di una cultura di pace, garantita da
uno Stato laico, renderà onore a tutti. Solo allora turchi e armeni
cammineranno a testa alta di fronte all'umanità». È un tempo che
l'ipocrisia politica, definita pragmatismo, allontana.
Antonia Arslan non ha mai
visto il suo villaggio di origine. Paolo e Vittorio Taviani hanno
dovuto girare in Bulgaria La masseria delle allodole. Il governo
turco ha cercato fino all'ultimo di bloccare il finanziamento
europeo, votando contro la realizzazione del film. Il libro non è
stato stampato e la pellicola non approderà nei cinema di questo
straordinario Paese. È come se la Germania fosse insorta contro La
vita è bella di Benigni, censurandolo. Armeni e turchi,
prigionieri di una contrapposta storiografia fondata sull'odio,
vengono così tenuti all'oscuro anche dei grandi gesti di bontà.
Molte case dell' Anatolia, dietro l' orrore, celano un passato di
eroismo. Migliaia di donne e di bambini strappati dalle colonne dei
deportati. Migliaia di uomini nascosti e nutriti per anni nelle
cantine dei turchi. Migliaia di salvati, in cambio dei loro beni,
imbarcati clandestinamente sulle navi inglesi e francesi. Migliaia di
ragazze armene sposate dai turchi per risparmiare anche una sola
vita. Soltanto così, bussando casa per casa nei villaggi contadini
sud-orientali, si scopre l'ignorata resistenza popolare di chi
rischiò l'impiccagione per restare se stesso. Una minoranza, ma è
da essa che si può ricominciare. Etyen, stampatore di stoffe ad
Adyaman, è uno dei tanti curdi di sangue armeno. Lo ha saputo tre
anni fa, casualmente. Sua nonna Leora, fuggita dal campo di prigionia
ad Aleppo, si è maritata con un siriano. Il figlio ha sposato una
curda. «Sono come tutti qui», dice, «un caffelatte. Fatta la
miscela, è impossibile separare gli ingredienti».
Una beffa del destino,
per il triumvirato Talaat-Enver-Djemal che allo scoppio della Prima
guerra mondiale si alleò con gli Imperi centrali di Berlino e
Vienna. Chi è turco, oggi in Anatolia? Chi armeno e chi curdo? La
gente è stata più coraggiosa di chi l'ha governata ed è difficile,
nonostante una pulizia etnica maniacalmente programmata, distinguere
un'ipotetica "purezza della razza".
Che a prevalere sugli
interessi dei potenti siano infine la natura, l'amore e l'istinto di
sopravvivenza degli ultimi, lo dimostra la popolazione di Vakifli.
Trenta famiglie, un centinaio di persone: è l'unico villaggio
interamente armeno sul territorio turco. Citato nella Bibbia, vicino
ad Antiochia, a dieci chilometri dal confine siriano, è il simbolo
della resistenza contro le vendette. Franz Werfel, nel 1933, ne ha
raccontato la storia nel romanzo I quaranta giorni del Musadag.
Più volte Hollywood ha cercato di ricavarne un film, sempre dissuasa
dalle pressioni di Ankara sul Congresso Usa.
Antranik Demirci,
novantaquattro anni, è l'ultimo testimone del genocidio. è
cresciuto con la paura di non essere turco, invecchiato con la
vergogna di non essere morto. «Dopo i mesi della lotta contro la
deportazione», dice, «ciò che restava della mia famiglia fuggì in
Egitto. In cinquemila, per quattro anni, siamo rimasti nel campo
profughi di Porto Said. Avevo sei anni quando mi hanno riportato ad
Aleppo ed ho scoperto che cinquantasei miei parenti erano scomparsi».
Adulto, ha seguito le loro tracce nel deserto, fino a Deir-es-Zor. Il
luogo scelto per il "reinsediamento" degli armeni
deportati, era il nulla. Dune di sabbia, distese di pietre
incandescenti. Chi aveva svenduto casa e beni per corrompere i
soldati e trascinarsi al capolinea del massacro, morì di fame e di
sete.
Khayel Kartun, dentista
armeno espatriato, indica l'ansa dell'Eufrate prediletta dalle
cicogne per costruire centinaia di nidi di prodigiosa perfezione. Sua
nonna si è annegata oltre il canneto. «Una novantina di
prigioniere», dice, «si immersero cantando, a braccia alzate.
Avevano promesso di salvare i loro ultimi figli. Compresero che
sarebbero finite schiave negli harem arabi, prima che i neonati
venissero schiacciati contro le rocce. Si sono immerse di notte,
perché i bambini non vedessero». Sono altre storie come questa, non
scritte, ad essere narrate la sera sotto le vigne che a Vakifli
rubano la schiuma alla brezza del mare. Quattrocento emigrati armeni,
ogni estate, ritornano da tutto il mondo per non dimenticare chi
sono. Chiedono solo di vivere in pace, custodendo la propria origine:
i turchi rispettano il loro secolare coraggio. «Perché siete qui?»,
chiede infine anche il vecchio Antranik Demirci. Si gira di spalle,
mentre ascolta la storia dell' "armena italiana" che viene
ora clandestinamente riportata tra le sue steppe. La frontiera fra
Turchia e Armenia resta chiusa. è considerata «zona di guerra».
Famiglie, sui due versanti dell' Aras Nehri, non si sono mai
incontrate. Alla domanda più importante, in Anatolia, nessuno
accetta di rispondere. «Cosa penso del genocidio armeno?», chiede
in una stalla di Kars il pastore Ahmet Sadik Tekai. «Niente».
Duemila chilometri a occidente, nel patriarcato degli armeni
apostolici di Istanbul, l'arcivescovo Haram Atesjan ripete: «No
comment». Quasi un secolo dopo, in Turchia, resiste una domanda che
non si dovrebbe porre e a cui non si deve rispondere. I giornali
denunciano l'estremismo del Pkk, l'infatuata spietatezza
anti-cristiana di "Lupi Grigi" ed Hezbollah, l'
antistoricità del "Muro di Cipro" o le contestate
ambizioni presidenziali del premier Erdogan. «Si tenta», dice il
successore di Dink, Etyen Mahcupian, «di ridurre la questione armena
a una forma di nostalgia della diaspora, o di presentarla come un
complotto internazionale anti-turco. La realtà è che i turchi
tolleranti hanno di nuovo paura di essere giudicati traditori, gli
armeni coerenti di essere ammazzati. E la comunità internazionale,
come novantadue anni fa, continua a pesare gli anticipi dei
contratti».
Ad Harput il vecchio
Mustafà, settantotto anni, cieco e ormai sordo, vive nel sepolcro di
Nadir Baba. Esce solo al tramonto, strisciando carponi fino ad
aspirare la zuppa di riso e lenticchie rosse che qualcuno lascia per
lui nel cortile in bilico sull' altopiano. «L'odio», dice, «genera
pazzi. La vendetta è madre della solitudine. Qui si sono invaghiti.
I figli siamo noi: spietati custodi dell'indifferenza». Indica una
casa armena, tra le poche a conservare un tetto. È in vendita. Un
foglio sulla finestra fornisce un numero di telefono. Quando lo si
compone, l'ex muratore Izzettin si precipita fuori dal forno del
pane. «La fattoria di campagna degli Arslanian?», chiede. Poi
mostra un edificio rosso, a nord, isolato su pascoli selvatici, a
mezz'ora di asino. La bellezza dell'orizzonte, come dice Ahmet Rasim,
è nella sua tristezza. Di allora, forse, resta un pezzo di muro
crollato nell' ortoaccanto. Erano diciassettemila gli armeni tra qui
e Mezreh. Oggi nessuno.
Izzettin, innocente, ha
sperato di concludere un ultimo affare. Ascolta il racconto della
Masseria delle allodole. Scandisce più volte «Ar-slan», «Ar-slan»,
come a frugare in una memoria che sa impossibile. «Gli armeni»,
dice. Stacca un frammento di pietra: e di nascosto se lo infila in
tasca.
“la Repubblica”, 22
aprile 2007
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