26.3.17

Il populismo cinquanta anni dopo (S.L.L.)

"Populista" sta diventando in certi ambienti l'insulto più infamante e "populismo" un termine più elastico della classica pelle di zigrino.
Io intanto penso al primo strabordare della parola, al suo affermarsi, all'incirca cinquant'anni fa, fuori dal suo originario ambito specialistico.
"Populisti" fu in origine calco di "narodniki", gli intellettuali russi che "andavano al popolo", cercando nei suoi valori, considerati incontaminati, e nelle sue forme di solidarietà la base di una rivoluzione sociale contro lo zarismo e l'organizzazione economica semifeudale che caratterizzava l'impero euroasiatico. In Italia (e non solo) lo storico che più aveva contribuito a fissare i caratteri del movimento era stato Franco Venturi, autore di un ponderoso studio sul "populismo russo".
C'era - accanto a questo uso scientifico - un uso gergale, peraltro molto limitato. Riguardava alcuni cultori di "marxismo-leninismo", la "dottrina" che in epoca staliniana tendeva a irrigidire in sistema (e in formule dogmatiche) la ricerca teorico-politica, aperta e inevitabilmente contraddittoria, di Marx e di Engels e gli sviluppi che ad essa avrebbe apportato Lenin, prima, durante e dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Costoro tendevano ad estendere i confini del "populismo" dalla Russia a movimenti e gruppi di altri paesi del mondo, e con nomi diversi l'uno dall'altro, che presentassero una affinità ideologica e politica con i populisti russi e con il "partito socialista rivoluzionario" in cui essi si organizzarono non senza successi nel corso delle rivoluzioni russe di inizio Novecento. La base della polemica "antipopulista" svolta in quest'ambito "ecclesiastico" era, in Europa come in America Latina, un libretto polemico del giovane Lenin che aveva trovato posto nelle sue Opere scelte, oggetto di studio nelle scuole di partito al tempo della Terza Internazionale: Che cosa sono gli Amici del popolo e come lottano contro la socialdemocrazia. (Per evitare equivoci ricorderò che al tempo Lenin non era comunista e neanche "bolscevico", ma soltanto "socialdemocratico").
A dare successo e ad ampliare il significato della parola contribuì fortemente uno dei "libri cult" del Sessantotto italiano: Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, uscito nella sua prima edizione nel 1965. Benché a scriverlo fosse un giovane e brillante italianista della scuola romana di Muscetta, si trattava solo in apparenza di un libro di storia e di critica letteraria. Asor Rosa, che si dichiarava marxista ed era collegato ai gruppi cosiddetti "operaisti" (soprattutto alla rivista "Classe Operaia" e a teorici come Mario Tronti, Toni Negri e Massimo Cacciari), in quel libro - soprattutto nella prima parte storico-teorica - svolgeva una requisitoria durissima contro la tradizione progressista italiana e contro la politica delle alleanze proposta dal Partito Comunista Italiano. Bersaglio dichiarato era il concetto di "nazional-popolare", che Gramsci aveva ripreso da Gioberti, e che aveva rilanciato nei Quaderni che compilava in carcere e al confino. L'accusa di Asor Rosa verso l'intellettualità vicina al PCI (letteraria, ma non solo) era di aver annacquato in un indistinto popolo e nei suoi valori considerati positivi l'identità e l'autonomia della "classe operaia", considerata portatrice di una alternativa "di sistema" al capitalismo non per ragioni ideali o, peggio, "ideologiche", ma per la sua collocazione "oggettiva" nel processo produttivo. Alla base del populismo comunista per Asor Rosa era un disegno "egemonico", un tentativo di gruppi intellettuali d'origine piccolo-borghese, di esercitare una guida politica sul movimento di trasformazione socialista della società in nome di un popolo idealizzato e mitizzato, che tendenzialmente coincideva con la nazione. Contro il "popolo" e contro la "nazione", Asor Rosa, al tempo iscritto a un piccolo partito socialista di sinistra, il Psiup, molto variegato nelle sue componenti, utilizzava la "classe", che non era costruzione ideologica, ma "concrezione materiale" (era questo l'orribile linguaggio degli "operaisti"), espressione dei rapporti di produzione capitalistici nella nuova fase dello sviluppo. Nella categoria di populismo letterario Asor Rosa sussumeva non solo quasi tutto il cosiddetto "neorealismo", ma anche scrittori come Pasolini o Cassola.
Qualche anno dopo "populismo" fu il termine più usato per denigrare l'ambizioso romanzo di Elsa Morante "La Storia"(secondo me un capolavoro da riscoprire e rilanciare). Nel lungo Sessantotto italiano, l'accusa prima colpì un gruppo maoista ("Servire il popolo") dal grande ed effimero successo, poi tutto il maoismo (incluso quello di Mao Tse-tung), poi i "gramsciani" e berlingueriani del Pci, fautori del "compromesso storico" come incontro tra le grandi componenti politico-culturali del popolo italiano.
Da allora tanta acqua sotto i ponti. È verosimile che Asor Rosa sogghigni sotto i candidi baffi, se pensa con qualche compiacimento al sempre maggiore successo del termine che lui rilanciò con tanto vigore polemico più di cinquant'anni fa. E magari ride un po' di sé se pensa alla sua idea di "populismo" come ideologia egemonica dell'intellettualità e ad intellettuali come Salvini o Grillo.

stato di fb, 25 marzo 2017

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