Chris Abani (Afikpo, 27
dicembre 1966), nigeriano di madre inglese, romanziere, poeta,
studioso di letterature, lasciò nel 1991 la Nigeria, dopo che un suo
romanzo e un'opera teatrale, giudicati sovversivi, gli erano costati
il carcere e la tortura. Vive oggi a Los Angeles. Il testo che segue
è ripreso da una bella serie di servizi dal titolo Africa,
Afriche, dedicata nel 2007 al
continente nero dal quotidiano comunista “il manifesto”. (S.L.L.)
Chris Abani (foto di David Shankbone) |
Scavare all'interno di
una tradizione letteraria, quando - come nel caso di quella africana
- questa sia per lo più orale e quindi priva di punti di
riferimento, equivale a disegnare una carta geografica dell'oscurità.
E tuttavia proprio questo limite costituisce un punto di forza: se
infatti come risorsa per questa mappa usiamo la teoria di Vico sul
linguaggio, assume un senso preciso individuare all'interno del
linguaggio stesso i materiali - penso ai proverbi, agli indovinelli,
alle formule magiche, alle filastrocche - che in certo senso
rappresentano la base della tradizione letteraria.
Esempio perfetto di
«archeologia» linguistica è il proverbio, la prima forma
letteraria a emergere sul continente africano. L'importanza dei
proverbi è evidente: per molti versi si possono paragonare alla
forma poetica dello haiku, non soltanto per il loro linguaggio
immaginoso e la sintesi espressiva, e più ancora per la loro
capacità di evocare una realtà più ampia, a volte ineffabile.
Il critico nigeriano
Isidore Okpewho ha mostrato come i proverbi possano rappresentare una
forma condensata di racconto popolare o di parabola, anche se non è
chiaro se il proverbio sia un distillato del racconto popolare o se
formi la pietra angolare della sua costruzione - l'antico dilemma
dell'uovo e della gallina. L'esempio di cui Okpewho si serve è il
proverbio: «chi trasporta un peso dovrebbe sapere di che peso si
tratta», che secondo le sue fonti deriva dal seguente racconto. Una
volta, un ladro che aveva rubato dei beni e li aveva infilati in un
sacco, chiese a un passante di aiutarlo a trasportare il pesante
fardello per un tratto di strada. I due arrivarono a un cancello,
presidiato da un guardiano che li fermò chiedendo chi fosse il
proprietario di ciò che trasportavano. Per tutta risposta il ladro
indicò l'uomo che lo aveva aiutato, e quando quest'ultimo protestò
a gran voce di non sapere di che natura fossero quegli oggetti, il
guardiano ribatté: «Anche da un bambino che trasporta un fagotto ci
si aspetta che sappia di che cosa si tratta». E così l'aiutante
venne ritenuto colpevole di trasportare beni rubati.
In realtà, però, un
proverbio può benissimo prescindere dai dettagli del racconto
popolare cui è legato, ma punta alla morale che esso racchiude. E in
effetti in Africa, il proverbio è usato sostanzialmente con tre
funzioni: appunto come forma di discorso codificato per impartire una
morale, come motto di spirito e come dimostrazione di abilità
verbali. Proprio in riferimento a queste possibilità, il proverbio
diviene un prodotto all'interno del quale si possono rintracciare,
come suggeriva Vico, gran parte delle informazioni riguardanti la
particolare cultura entro cui il proverbio si è formato, nonché la
sua collocazione storica.
I proverbi contengono
spesso allusioni e usano un linguaggio pittoresco, come in questi due
esempi che arrivano dal Sudafrica: «la morte del cuore non si può
condividere», e «quando a parlare è il capo, il popolo fa tacere
le orecchie». Un commento culturale sulla percezione della «natura
reale» di persone o cose emerge in questo detto: «I bianchi non
hanno parenti. Il loro unico parente è il denaro». E sebbene in
questa forma siano radicate possibilità semantiche e persino
semiotiche più profonde, in superficie esse appaiono come pensieri
lineari: proprio in questa tensione traspare la fertile oscurità
della nostra tradizione letteraria.
Proverbi figurativi fanno
spesso uso di similitudini e metafore, complesse o semplici a seconda
dei casi, il cui referente culturale può rimandare tanto a una
«verità generale» quanto a una «verità specifica». Una
similitudine che può fungere da esempio si ritrova in un proverbio
Hausa che dice: «Un capo è come un mucchio di spazzatura, al quale
tutti si avvicinano per buttare i propri rifiuti». Per rifiuti qui,
naturalmente, si intendono lamentele, e questa semplice costruzione
rende il proverbio immediatamente accessibile anche a chi provenga da
una cultura diversa. Nel caso della metafora, Chinua Achebe, nel
Crollo, usa con grande efficacia un proverbio, «Il rospo non
corre mai di giorno senza un buon motivo». Qui però il referente
specifico mette in ombra il referente generale, così che, a meno che
uno non sappia che i rospi sono creature notturne, che appaiono di
giorno solo quando sfuggono a un predatore come un serpente, si perde
la verità generale per cui un comportamento insolito indica qualcosa
di sospetto.
Tuttavia, il proverbio
inteso come unità a sé può funzionare dinamicamente con un ordine
di significato collocato all'interno di specifiche culture. Dal
momento che il proverbio è una forma molto diffusa nell'Africa
sub-sahariana, si può quindi sostenere che il rapporto tra queste
culture offre indicatori comuni per decifrarle. I proverbi
intervengono a veicolare messaggi specifici attraverso una forma
lirica, ma la scelta dei costrutti (così come il modo in cui i poeti
usano il verso, e come avviene nel blues) è più limitata di quanto
spesso immaginiamo. Prendiamo ad esempio il proverbio Sotho che serve
a mettere in ridicolo l'egocentrismo: «Io e il mio rinoceronte». Da
nigeriano sono in grado di dipanare la verità generale insita in
questo proverbio pur senza conoscerne gli elementi specifici, ma
decodificando i vari modi in cui il pronome personale «Io» può
entrare in relazione con il termine «rinoceronte». E lo stesso
avviene quando gli Igbo dicono: «La nostra mente è come un sacco,
ciascuno trasporta il proprio», per indicare il fatto che tutti
abbiamo modi diversi di percepire le cose che comprendiamo.
Per concludere, un'ultima
riflessione. Il proverbio, si sa, è costruito come una forma orale
che trova nella performance la sua vera dimensione. Anzi, nel romanzo
del nigeriano Elechi Amadi The Concubine, la schermaglia
verbale giocata sui proverbi viene paragonata a un incontro di lotta
libera. Il movimento della performance evoca così una forma
letteraria instabile che si può attuare solo come «evento». Ed è
la fluidità di significato dettata dal contesto a determinare le
possibilità liriche di questa forma, tanto che si si potrebbe
guardare ai proverbi africani (e non solo) come a movimenti che
accompagnano l'esistenza in una sorta di costante tensione: un
concetto, quello della materia che cambia di continuo forma cosicché
nulla mai è statico o uguale a se stesso, che unisce la tradizione
orale africana a Lucrezio. (traduzione di Maria Antonietta Saracino)
“il manifesto”, 26
luglio 2007
Nessun commento:
Posta un commento