26.3.17

Mamma ho perso l’asilo! La grande fuga dei bambini (Lidia Baratta)

Un articolo di un anno fa, per farsi un'idea del problema degli asili nido pubblici, sempre più grave. Credo che difenderli e rilanciarli sia una scelta di civiltà e di sinistra vera. (S.L.L.)


A Cesano Boscone, Comune di poco meno di 25mila abitanti della cinta milanese, dal 25 marzo gli asili nido pubblici non esistono più. Per risparmiare, la maggioranza di centrosinistra ha votato la concessione dei servizi ai privati. Più a Sud, a Empoli, il Comune da poco ha annunciato la chiusura di uno dei due nidi della città. E a rischio chiusura c’è pure il primo nido d’Italia, nato a Modena nel 1969, inaugurando quello che sarebbe diventato il famoso “modello emiliano”. «Per la prima volta a Modena i nidi chiudono anziché aprire», ha commentato un consigliere comunale.
Era il 1 settembre 2014 quando il premier Matteo Renzi annunciava l’arrivo di «mille asili nido in mille giorni». Da allora, mentre il governo lavora ancora ai decreti della Buona scuola che vorrebbero aumentare la diffusione dei servizi della prima infanzia (vedi l’altro articolo nella pagina seguente), qualche nuovo nido è stato sì aperto tra Napoli, Firenze e Milano, ma in altre parti d’Italia tante strutture stanno anche chiudendo. Tra scarsità di fondi, ma anche di bambini. La ragione non è solo il calo delle nascite. Con la crisi, a fronte di rette mensili che nella media italiana sono sui 300 euro ma che in alcuni casi superano i 500-600 euro, le famiglie ritirano i bambini o rinunciano alle iscrizioni. E in molti casi l’uscita del figlio dal nido significa anche la rinuncia al lavoro da parte della mamma (il tasso di inattività femminile in Italia è del 46%).
In base ai dati dell’associazione Cittadinanzattiva, in media una famiglia italiana spende 311 euro al mese per mandare il bambino al nido comunale. Nell’anno scolastico 2014-2015 la regione più economica è stata la Calabria, con rette medie di 164 euro, la più cara la Valle D’Aosta, con una spesa media di 440 euro.
A decidere il prezzo dei nidi sono i Comuni. Ma mentre dal governo si spinge per la costruzione di nuove strutture, i sindaci devono vedersela con la riduzione dei trasferimenti statali e i limiti alle assunzioni. E se le casse piangono, a rimetterci spesso sono i servizi. Ogni anno, nel bilancio di previsione, le amministrazioni locali definiscono la percentuale di copertura del costo che i genitori devono affrontare: minori sono le risorse a disposizione, maggiori sono le rette richieste. Secondo l’Istat, la percentuale di compartecipazione alla spesa da parte delle famiglie è aumentata negli anni fino a coprire nel 2012 un quinto del costo totale. E dopo ha continuato a crescere. «Oggi la tariffa applicata agli utenti si aggira intorno al 30% del costo», spiega Tina Napoli di Cittadinanzattiva.
E se i prezzi più elevati si trovano nelle città del Nord Italia, è al Sud che le amministrazioni comunali nell’ultimo anno hanno rincarato maggiormente il costo dei servizi. Con picchi del +18% in Calabria. Solo a Cosenza, il Comune ha aumentato le rette del 117,3 per cento. «Molte volte», spiega Napoli, «le amministrazioni locali in difficoltà decidono di non tagliare i servizi ma di aumentare i costi, in alcuni casi evitando di chiudere un nido o di abbassare il livello del servizio». È accaduto a Viareggio, ad esempio: il comune commissariato aveva deciso di risparmiare aumentando le tariffe dei nidi di circa 100 euro. I genitori sono ricorsi al Tar, che ha annullato la delibera. A Imola, invece, l’amministrazione ha rivisto il sistema a scaglioni in base all’Isee, aumentando le rette sopra i 25mila euro. Al contrario, a Biella hanno cercato di rispondere alla fuga degli iscritti abbassando la retta di 20 euro per tutti. E la stessa cosa hanno fatto a Vercelli, dove le tariffe massime sono calate ma le minime sono raddoppiate.
E così come variano i prezzi, da Nord a Sud varia anche l’offerta. In base agli ultimi dati Istat relativi all’anno scolastico 2012-2013, oltre la metà dei nidi comunali si trova nelle regioni settentrionali, mentre solo il 19% è nel Mezzogiorno. In media, i bambini italiani tra 0 e 2 anni che usufruiscono del servizio di asilo nido comunale sono solo l’11,9 per cento. Percentuale ben lontana dagli obiettivi del consiglio europeo di Barcellona del 2002, che prevedeva di raggiungere la quota del 33% di bambini sotto i tre anni al nido entro il 2010. E in alcune regioni i numeri sono ancora più distanti: si va dalla copertura massima del 24,8% dell’Emilia Romagna fino al minimo del 2% della Campania (secondo l’Osservatorio di Cittadinanza attiva, su dati Istat).
Nel 2007 il governo Prodi destinò per i nidi oltre 600 milioni di risorse statali in tre anni, facendo aumentare i livelli di copertura dal 9 all’11 per cento. «È la testimonianza che se si investono soldi, la domanda cresce», dice Antonia Labonia, membro dell’associazione Gruppo nazionale Nidi e infanzia. Finito il piano straordinario, però, i finanziamenti sono tornati a galleggiare intorno ai 70-100 milioni l’anno. Fino al vuoto della legge di stabilità del 2016, che non prevede finanziamenti ad hoc per le strutture della prima infanzia.
Così, la vera novità a proposito di nidi è che le famiglie hanno cominciato a rinunciarci. Nel 2011, l’Istat per la prima volta dal 2004 ha registrato un calo di iscrizioni ai nidi, continuato l’anno successivo con 8.400 bambini in meno. «I Comuni in difficoltà economiche hanno aumentato i prezzi», dice Laura Branca, presidente dell’associazione Bologna Nidi. «Ma non tutti possono permettersi questa spesa, così in tanti decidono di rinunciarci». È un circolo vizioso: le rette salgono, i genitori ritirano i bambini, e in alcuni casi i Comuni chiudono le strutture per scarsità d’utenza. Per l’anno 2015-2016, come riporta il report Mille nidi in mille giorni di Bologna Nidi, persino a Reggio Emilia, famosa per la qualità dei suoi asili, sono rimasti 13 posti liberi e le strutture hanno cominciato a chiudere.
Ma in questo caso si tratta di situazioni nelle quali l’offerta partiva da un livello alto. Caso raro, in Italia. Nella media, nonostante il calo delle iscrizioni il 19% dei bambini italiani resta in lista d’attesa, con un picco del 67% in Basilicata. Secondo i calcoli della Funzione pubblica Cgil, oltre 900mila bambini in Italia sono esclusi dai nidi. Non solo: il tempo pieno in Italia è garantito nell’87% dei capoluoghi italiani. In città come Potenza, Matera, Crotone, Lecce e Cagliari, i nidi sono disponibili solo per sei ore al giorno. Senza alcuna flessibilità oraria. Per il resto della giornata, le famiglie devono arrangiarsi. «E in Italia alternative ai nidi non ce ne sono molte», spiega Labonia. «Ci sono le ludoteche, ma solo dai tre anni in su, e i baby parking, dove si può lasciare il bambino per qualche ora ma senza finalità educative».
La legge di stabilità del 2015 aveva previsto un finanziamento da 100 milioni di euro da destinare ai nidi. Pochi spiccioli, che però sarebbero stati utili. Peccato che le Regioni abbiano aspettato fino a maggio per accordarsi sulla ripartizione dei fondi, che sono arrivati a destinazione solo a dicembre. Non solo l’effetto non si è visto. Ma in molti casi i Comuni hanno usato i soldi per coprire le spese già sostenute.
Per contenere le spese di gestione dei nidi, i Comuni hanno spesso esternalizzato il servizio, dandolo in concessione o in appalto a gestori privati e cooperative. Da Nord a Sud, da Cesano Boscone a Catania. «Circa la metà dei comuni che ha attivato il servizio di asilo nido comunale opta per una gestione affidata a servizi terzi», spiega Tina Napoli. «La ragione principale è sicuramente la maggiore sostenibilità a livello di costo, soprattutto derivante dalla riduzione dei costi di struttura». Con il passaggio dalla gestione diretta a quella indiretta, la spesa per le casse comunali si dimezza: se i Comuni spendono in media poco più di 9mila euro annui a bambino, con gli appalti a terzi si scende a 4mila euro (anche se la retta per le famiglie cala in media di soli 300 euro circa).
A Biella, la scorsa estate i genitori hanno protestato contro la decisione dell’amministrazione comunale di esternalizzare due dei quattro nidi della città. Ma dal Comune hanno risposto che era l’unica soluzione: il risparmio previsto è di 150mila euro in un anno. In altre città, invece, come Ancona e Firenze, anziché appaltare tutto il servizio, è stata data in concessione solo una parte: la mattina i bambini sono con le educatrici comunali, il pomeriggio con quelle del gestore privato.
«Il privato il più delle volte ha costi inferiori per i risparmi effettuati sul personale, che di solito ha contratti peggiorativi», dice Branca. «Le educatrici dei gestori privati a volte sono meno formate di quelle pubbliche. E con i contratti precari, c’è un turnover continuo che certo non aiuta i bambini».
Per garantire una qualità accettabile del servizio, il Cnel ha individuato il costo minimo per bambino, che oscilla tra i 4 e i 6 euro all’ora. Per una spesa totale di minimo 850 euro al mese. «Sotto questa cifra, il rischio è che il servizio non sia di qualità», dice Labonia. «Significa che si risparmia sui contratti e la preparazione del personale, sulla qualità della struttura e degli alimenti». Eppure è accaduto che i comuni abbiano dato in concessione i servizi dei nidi a prezzi inferiori a questa cifra. A Roma, sotto la giunta Alemanno, i nidi sono stati appaltati con una base d’asta di 480 euro al mese a bambino. «Questa cifra di sicuro non permette il rispetto degli standard minimi», dice Labonia. E il Comune, che è quello che dovrebbe controllare la qualità dei servizi, è lo stesso che sottoscrive le concessioni al ribasso.


Pagina 99 - 16 aprile 2016

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