Marcello Catanelli,
perugino, viene dalla contestazione, quella del lungo Sessantotto
italiano per generazione e scelta, ma anche quella di generazioni
precedenti: il padre, ottico, antifascista militante e resistente,
anarchico e libertario, vicino a socialisti e comunisti ma capace di
esprimere una voce autonoma e critica in momenti cruciali, amante
appassionato della sua Perugia e partecipe delle sue sorti; e – tra
gli amici più cari del padre – la figura esemplare di Aldo
Capitini, al quale della contestazione piaceva in primo luogo per il
nome e il concetto che il nome richiamava, per l'idea del cittadino
che, senza complessi, prende la parola e chiede ragione dei suoi atti
al potere, a tutti i poteri.
Dopo la stagione della
militanza rivoluzionaria e dell'azione collettiva Catanelli non ha
avuto paura di sporcarsi le mani e ha dato in molti modi un
contributo di idee e di impegno alle comunità di cui si sente parte,
la sua regione e soprattutto la sua città, da medico specializzato
in Igiene e Sanità pubblica, da ricercatore, da dirigente della
Sanità pubblica, da consigliere e assessore in Comune (per
Rifondazione Comunista). Su Perugia ha scritto, insieme a Fabrizio
Ricci, un libretto (Le città di Perugia,
Era Nuova, 2005) che espone e argomenta un'idea originale di
città policentrica, pressoché agli antipodi delle pratiche della
nuova amministrazione di centro-destra i cui esponenti tornano a
parlare di “contado”, ed ha prodotto, insieme a Guglielmo
Benemio, un apprezzato documentario che per modestia definisce
“amatoriale”.
È ancora fresco di
stampa, uscito sul finire dell'anno scorso per Morlacchi editore, il
libro a sua firma di cui qui ci occupiamo, Perugia ormai troppo
lontana. Il titolo e la bella
foto di una notte in città che – decolorata - fa da base alla
copertina potrebbero lasciar pensare a una rievocazione di uomini,
donne, luoghi, abitudini di tempi andati e finiti, non priva di
accenti nostalgici. Non nascondo che, da perugino d'elezione (ho
scelto di vivere quasi 40 anni fa), pensavo di trovare nel volume
notizie, curiosità, conferme (o anche smentite) a mie intuizioni e
che imbattermi invece in un libro di racconti è stato dapprincipio
una delusione. La prima, superficiale, impressione era che la città
faccia solo da sfondo a vicende che potrebbero essere accadute in
molti altri luoghi. Così non è, come si vedrà.
Il
volume contiene cinque racconti. I primi quattro sono ambientati a
Perugia e dintorni, il quinto ha ambientazione rurale, nelle campagne
tra Umbria, Alto Lazio e Toscana, fino alla Maremma.
I
racconti perugini hanno al centro un giovane, Ernesto, che sembra
essere, almeno in parte, una proiezione dell'autore e costituiscono,
nel loro insieme, una sorta di romanzo di formazione, in cui trovano
posto la famiglia, la scuola, le amicizie, i gruppi e i movimenti di
lotta e poi anche l'arte, la letteratura, la religione, la curiosità
verso la storia, l'odio per la guerra. Un ruolo particolarmente
importante assume l'educazione sessuale e sentimentale: il giovane
maschio si confronta con figure femminili fortemente caratterizzate,
di tenace concetto, con una consapevolezza di sé che sembra
precedere il nuovo femminismo e fondarlo. Niente a che vedere con gli
“angeli del ciclostile” di cui un tempo si favoleggiava.
In
Perugia un po' troppo lontana prevale
la rappresentazione di situazioni sulla narrazione di avvenimenti e
sono rari gli eventi e i momenti propriamente drammatici, ma sarebbe
sbagliato dire “non succede niente”: il lettore attento non
mancherà di individuare i punti di svolta. Quanto alla scrittura,
all'impasto linguistico che rimpolpa, soprattutto nelle descrizioni o
nelle introspezioni psicologiche, il linguaggio base della
narrazione, è evidente una ricerca che approda a risultati non
omogenei nei vari racconti, i quali, come svela Catanelli nella sua
postfazione, risalgono anche nella scrittura a tempi diversi. La mia
impressione che l'autore, scrittore non professionista, ma colto e
nutrito di eccellenti letture, riesca a dare il meglio di sé nei
dialoghi, anche quelli particolarmente impegnativi, su temi politico
culturali o esistenziali, ed in uno dei racconti, Al
cinema, la sera, che ha come
centro quel Modernissimo che era d'éssai
senza bisogno di proclamarlo e che ho avuto la fortuna di conoscere
nei suoi ultimi splendori tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta.
E
torniamo a Perugia, i cui luoghi – di certo molto amati – sono
spesso utilizzati come fondale, ma che vien fuori meglio quando il
sito entra in relazione con l'uomo che lo abita e ne anima con i suoi
pensieri, le sue suggestioni e i suoi dubbi gli angoli medievali, gli
scorci paesaggistici, i meravigliosi panorami che s'osservano
dall'alto dell'acropoli. Io ho trovato molto “perugine”, molto in
sintonia con le ragioni che – tanti anni fa - mi hanno portato a
vivere qui, descrizioni d'atmosfera come quella che segue, di un
locale da “fritti” in un vicolo del centro: “Alla mescita un
anziano magro, con i capelli tagliati cortissimi, assorto nella
somministrazione di baccalà, patate, supplì e a quella velocissima
di bicchieri di vino, riempiti fino all'orlo, scolmati dagli
avventori con un primo sorso,mentre erano ancora sul banco del
bancone, per non perdere neanche una goccia, e bevuti poi tutti di un
fiato per essere immediatamente lavati ed altrettanto immediatamente
riempiti”.
Una
chiave di lettura del libro, peraltro suggerita dalla postfazione che
sottolinea distanze sempre meno colmabili tra il mondo di ieri e
quello di oggi, soprattutto nei modi della comunicazione, può essere
il titolo. Lo stilema “ormai troppo lontana” deriva da una
canzone, quella Lontano lontano
con cui Luigi Tenco aveva partecipato nel 1966 al Disco
dell'estate, il cui testo è nel
libro interamente riprodotto a mo' di epigrafe. Nella canzone si
immagina che in un contesto totalmente cambiato, da un sorriso, da
un'espressione, da un qualcosa d'indefinito riemergano frammenti del
passato, capaci di restituire per un momento emozioni perdute. Un po'
di rimpianto in questi casi è inevitabile e nel libro c'è la
traccia di un rimpianto politico. Vi compare, non nominato ma
riconoscibile, Aldo Capitini, un vecchio professore che vota alle
assemblee studentesche e a cui nessuno ha il coraggio di dire che
quello è un diritto dei soli occupanti: “Rappresentargli
pubblicamente quel divieto sarebbe stato invece l'inizio o la
continuazione di un discorso che avrebbe sicuramente messo in
discussione quel potere di pochi che era presente comunque anche in
quell'aula”. Vale la pena di porsi una domanda più generale. Che
cosa sarebbe successo se il Sessantotto avesse dialogato con
Capitini, se la morte non lo avesse strappato all'impegno civile e
alla lotta? Domanda, ovviamente, senza risposte.
"micropolis", febbraio 2017
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