ROMA - Ho letto un'altra
volta la pagina che Giovanni Raboni premise, due anni or sono, alla
raccolta delle Poesie. 1961-1998 di Toti Scialoja. Ora, alla
malinconia per Scialoja, che è morto nel '98, e per la compagna
Gabriella Drudi, s'è aggiunta quella per Raboni, che è mancato da
pochi mesi (è stato, tra l'altro, il primo, prezioso presidente
della Fondazione Scialoja). Ricordarli - tutti assieme - è il senso
primo di una piccola mostra preziosa, ordinata oggi all'Accademia di
San Luca, con gran garbo, da Barbara Drudi, destinata all'opera su
carta di Scialoja, e alla sua poesia (manoscritti, libri, letture).
Rileggo da Raboni: «in
Scarse serpi Scialoja fa delle parole - o, se si preferisce,
con le parole - esattamente le stesse cose che ha fatto durante la
sua precedente incarnazione, quando era o fingeva di essere un poeta
"per bambini"; le scompone, le accoppia, le ribalta, le fa
lievitare, le fa scomparire e riapparire, insomma le mette in scena e
in movimento in tutti i modi diabolicamente e angelicamente
possibili». Ricordate?: «Una zanzara di Zanzibàr/ andava a zonzo,
entrò in un bar,/ "Zuzzurellona!" le disse un tal/
"mastica zenzero se hai mal di mar"». Poi, proprio da
Scarse serpi, senza disperdere quel che aveva meditato a
partire dal nonsense di Edward Lear, «comincia per Scialoja un lungo
viaggio nella mestizia, nello sgomento, nell'amarezza, alla cattura
di sempre più mature sofferenze e inquietudini». Viene così, ad
esempio: «Di tanto in tanto a Taranto/ arde un cielo amaranto/ nasce
dal mare un rantolo/ interrotto da un tonfo./ è una tortura a
Taranto/ la ronda del tramonto/ anima mia all' istante/ moribonda
tarantola».
Accanto alla poesia
(prima, dopo?: diciamo finalmente: assieme, senza fare, come troppo
spesso s'è fatto, con ottusità o malevolenza, una gerarchia), la
pittura. E stato così lungo il percorso di Scialoja, così intenso,
così ininterrotto, da essere difficilmente documentabile, tutto
intero e senza lacune, in una singola occasione espositiva.
Oggi, Barbara Drudi ha
inteso sottolineare in particolar modo due tempi di quel percorso. Il
primo, giusto alla metà degli anni Cinquanta, quando Scialoja, in
una sintassi cromatica ristretta al rosso e al nero (in ciò
avvertendosi la suggestione di Burri, suo compagno di strada e amico
fraterno), ritaglia porzioni di spazio di memoria neo-concreta su una
carta macchiata da impronte litografiche (quasi una premonizione
dell' impronta che verrà, costituendo il modo maggiore di Scialoja,
a partire dal '57). Il secondo tempo, relativo agli anni Sessanta,
documenta il progressivo restringersi dell' impronta nel campo della
pagina pittorica - ritmata in cadenze allusive dello scorrere del
tempo - ritagliato in porzioni quasi geometrizzanti: ed è questo il
momento in cui, quasi silente la pittura che tornerà ad esplodere
negli anni Ottanta, si fa egemone proprio il lavoro condotto sulla
carta.
“la Repubblica”, 20
dicembre 2004
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