Si chiude oggi a
Cagliari, presso il Dipartimento di Filologie e Letterature moderne
dell' Università, un convegno internazionale dedicato a "Bachtin
teorico del dialogo". Per tre giorni, studiosi italiani e
stranieri (questi ultimi convenuti a Cagliari dagli Usa, dal Canada,
dalla Germania, da Israele) si sono misurati con questa straordinaria
figura di studioso che - tra gli anni Venti e i primi anni Settanta -
ha impostato in maniera lucidamente innovativa una serie di tematiche
diversissime tra loro - dall' estetica alla teologia, dalla
psicologia alla linguistica e alla critica letteraria -, dando avvio
alla moderna scienza semiologica (della "scuola sovietica",
ovviamente, in particolare).
Negli ultimi anni, e
segnatamente dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1975, Michail
Bachtin ha goduto dei favori - per la verità talora scomodi - della
"moda culturale", venendo variamente citato (a proposito,
ma anche a sproposito) per i suoi lavori fondamentali, il Dostoevskij
e il Rabelais; e tuttavia la sua figura rimane per i più un
"oscuro oggetto di desiderio", piuttosto che un limpido
termine di confronto.
Bachtin è stato
"scoperto" all' inizio degli anni Sessanta, quando, su
richiesta di Vittorio Strada, egli approntò una nuova edizione del
suo vecchio saggio su Dostoevskij (che poi apparve da Einaudi
nel 1968): ma via via che si andavano riscoprendo i tasselli della
sua vasta ed eterogenea attività intellettuale (in Francia, ad
esempio, fu naturalmente il Rabelais a suscitare il maggior
interesse), si scoprivano anche i lati oscuri della sua parabola
umana e scientifica, cui nessuno sapeva dare plausibile o documentato
chiarimento. Così, nel 1973, Vjaceslav Ivanov faceva enigmaticamente
sapere, senz'altra delucidazione se non quella di "testimonianze
dirette", che il testo di base di alcuni libri apparsi decenni
prima sotto altro nome (alcuni avevano anche fatto scalpore, come il
Freudismo di Volosinov, o Il metodo formale di
Medvedev) "apparteneva a M.M. Bachtin". All'alone di
mistero che ha avvolto - e in parte ancora avvolge - la figura di
Bachtin hanno contribuito almeno tre fattori: la notevole complessità
e novità del suo pensiero; la sua vicenda biografica, che presenta
molte zone oscure (sembrò spuntare all'improvviso da una università
sovietica di provincia); infine, la labilità dei confini della sua
stessa opera. Paradossalmente, si può dire che l'immagine più
compiuta di Bachtin è quella offerta dalla misteriosa figura del
"filosofo" d'un negletto romanzo sovietico del 1928, Il
canto del capro (=trago-oidia) di Konstantin Vàginov. Una
figura, quella di Bachtin, più da "romanzo dei misteri"
(come s' esprimeva negli anni Venti il suo interlocutore/antagonista
Viktor Sklovskij), che da storia erudita del pensiero estetico
contemporaneo.
Gli equivoci e i
paradossi, nel modo stesso d' interpretare i testi di Bachtin, sono
stati molti. Basti ricordare che per anni il suo lavoro giovanile è
stato interpretato come quello di un "giovane marxista" non
asservito alle banalità d'una asfissiante ortodossia staliniana;
mentre con gli anni appare sempre più chiaro che esso è frutto
d'una complessa meditazione filosofico-religiosa, saldamente ancorata
alla sua matrice russo-ortodossa, anche se connessa col pensiero
teologico contemporaneo. Del resto, l'episodio più triste nella
biografia di Bachtin - il suo arresto nel 1929 - è da riconnettere
con l'inasprirsi della campagna antireligiosa di quegli anni. La
sobornost' (conciliarità) ortodossa, e non il collettivismo
marxista, sembra dunque doversi porre alle radici del "dialogismo"
bachtiniano. All'immediata vigilia del convegno cagliaritano, è
apparso un lavoro che può far uscire la figura di Bachtin dalle
nebbie che l'hanno sin qui avvolta, per restituirle il posto giusto
nella travagliata storia intellettuale di questo secolo: dico il
volume di Katerina Clark e Michael Holquist, Mikhail Bakhtin
pubblicato dalla Harvard University Press. Ci sono dunque le premesse
perché il discorso su Bachtin approdi finalmente ad una riflessione
matura, sganciata dalle trappole della moda culturale.
“la Repubblica”, 18
maggio 1985
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