LONDRA
«È il principio della
rana bollita. Dopo la crisi finanziaria le banche d’affari si sono
scottate, e sono corse ai ripari velocemente. Oggi, la temperatura si
sta invece alzando lentamente ma costantemente. Chi non è in grado
di adattarsi finirà bollito senza accorgersene». Non ha dubbi il
nostro interlocutore, partner di una delle “Big 4” della
revisione contabile, dal suo studio affacciato su Tower Bridge. Le
grandi banche d’affari si sono già scottate, e qualcuna rischia
grosso. Le contromisure, stavolta, cambiano la faccia del business
dell’élite finanziaria globale, che guarda anche al piccolo
cabotaggio dei conti correnti. E al modello delle utilities,
facendosi società di servizi.
Gli dei cadono ancora. I
conti del primo trimestre dell’anno sono impietosi: a Wall Street
come nella City le banche d’affari sono in perdita. Non si salva
nessuno. Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Lloyds, Barclays,
Royal Bank of Scotland, Standard Chartered, Deutsche Bank hanno
deluso le aspettative di analisti e investitori.
Tassi d’interesse
negativi, calo del prezzo del petrolio, rallentamento della crescita
globale, rischio Brexit, disinflazione, declino delle attività
d’investimento, multe miliardarie per la manipolazione del tasso
Libor o per aver favorito l’evasione fiscale. Eppure, dietro a
fattori contingenti c’è una trasformazione profonda dell’industria
bancaria, spinta da regole sempre più stringenti. La posta in gioco
è sia finanziaria – dare più stabilità al sistema – che
politica: i cittadini non dovranno più pagare per gli errori dei
banchieri.
Per rendere l’idea,
l’utile di Goldman nello scorso marzo è sceso a 1,4 miliardi di
dollari: meno 60% rispetto a marzo 2015. Nello stesso periodo, Morgan
Stanley ha riportato una contrazione del 54%, fermandosi a 1,1
miliardi di dollari. Gli utili di Citigroup sono invece diminuiti a
3,5 miliardi di dollari, meno 27%. A Londra Barclays e Standard
Chartered hanno registrato utili pari a 793 milioni di sterline e 589
milioni di dollari, un crollo rispettivamente del 25% e del 59% sul
marzo 2015.
Anat Admati,
professoressa di Finanza a Stanford e autrice, con Martin Hellwig, di
un libro al vetriolo sugli eccessi delle banche (The Bankers’
New Clothes: What’s Wrong with Banking and What to Do About It,
Princeton, 2013), ironizzava su Twitter sull’ex capo di
Barclays Bob Diamond, interessato a rilevare le attività della banca
inglese in Africa, ma non certo la sua divisione d’investimento, da
lui stesso creata.
Insomma, dopo anni di
dividendi magri o sospesi, frequenti tracolli borsistici, continui
aumenti di capitale, la domanda che trader e manager di fondi
d’investimento hanno iniziato a porsi è semplice : «Le banche in
generale torneranno mai ad essere profittevoli?».
«Non possiamo
controllare l’ambiente macroeconomico in cui operiamo», ha detto
il direttore finanziario di Goldman Sachs Harvey Schwartz nel corso
della conference call sui risultati del primo trimestre. Tradotto: i
tassi bassi – tra lo 0,25% e lo 0,5% negli Usa – non dipendono da
noi.
Per un dollaro in
più
Che fare? Goldman è
corsa ai ripari lanciando un conto deposito on line riservato
ai piccoli risparmiatori, che rende l’1% ed è accessibile
depositando solo un dollaro. Una mossa senza precedenti che ha
suscitato le ironie dell’Economist. Una svolta epocale per «il
gold standard bancario dell’élite globale», stando alla
definizione di Fortune. Non solo. Secondo Reuters, Goldman
starebbe inoltre lavorando in partnership con asset manager e
broker per prestare soldi ai loro clienti. L’obiettivo,
insomma, è fare volumi. Roba tradizionale, niente innovazione
finanziaria né prodotti oscuri e illiquidi.
Nell’eurozona la
pressione macroeconomica è ancora più evidente. Nonostante i tassi
negativi, scesi a meno 0,4% sui depositi presso la Bce, l’istituto
di Francoforte è lontano dal raggiungere l’obiettivo
dell’inflazione vicina al 2%. Anzi, a fine aprile i prezzi
segnavano un meno 0,2% sul marzo scorso.
In teoria, più prestiti
e mutui concedono, e più le banche macinano utili. Se però il
rubinetto del credito gratis è aperto per tutti, la pressione
competitiva riduce l’effetto-bilanciamento della liquidità fornita
dalla Bce. Un bene per i consumatori, che possono accendere un mutuo
a un attraente tasso dell’1%. Un male per gli istituti, perché su
quel mutuo non ci guadagnano.
Da un lato, dunque, è
difficile recuperare margini prestando a famiglie e imprese se i
tassi sono negativi. Dall’altro, è diventato più complicato fare
soldi facili tramite investimenti su strumenti rischiosi e opachi. Ad
esempio, da luglio 2015 negli Usa è in vigore la Volcker Rule, che
prende il nome dall’ex presidente della Federal Reserve, e prevede
il divieto per le banche di utilizzare i propri fondi, risparmi dei
clienti compresi, per investire in attività come i derivati.
In Europa, l’accordo
“Basilea III” e l’unione bancaria si basano su due principi,
atti a circoscrivere l’effetto contagio di un default come quello
di Lehman Brothers. Primo: alle banche serve un livello di capitale
adeguato in caso di shock esogeni. Secondo: se una banca è a rischio
fallimento, va sistemata utilizzando i mezzi propri - obbligazioni
subordinate, azioni - e non le risorse della collettività (è questo
il famoso bail-in).
E io cambio
business
Risultato: banche più
solide, ma meno redditizie. Un contesto nel quale si fa strada l’idea
di una trasformazione del modello di business delle banche. «Il
quadro formato dai regolatori internazionali prevede che le banche
diventino simili alle utilities: dividendi prevedibili, e
bassi rischi», spiega a pagina99 un analista presso una banca
d’affari giapponese. Tuttavia la trasformazione degli istituti in
erogatori di servizi di pubblica utilità non è così facile:
«fornire acqua o elettricità è un business molto più semplice e
meno influenzabile da fattori esogeni, a meno di una guerra»,
aggiunge il nostro analista.
«Nelle utilities
regolate è l’authority che decide quanto capitale devi
investire e quanto puoi guadagnare, in modo da bilanciare i bisogni
degli azionisti con quelli dei consumatori. Nel settore bancario,
invece, hanno deciso quanto capitale è necessario per salvaguardare
il sistema, salvo ogni tanto ripensarci e alzare di continuo
l’asticella. In compenso, i regolatori si sono dimenticati di dirci
quanto – e come – le banche devono guadagnare. Non può
funzionare», osserva cinico il gestore di un fondo d’investimento
specializzato in banche, durante un pranzo nell’elegante quartiere
di Mayfair.
Un esempio del modello
“banca come utility” è Santander Uk. La filiale inglese del
colosso iberico si è concentrata sui settori tradizionali, assai
poco sexy ma con dividendi e crescita prevedibili e a rischi bassi.
Con offerte davvero competitive: ad esempio, sul conto corrente ti
danno il 2% di cashback se fai debiti diretti per pagare bollette e
metropolitana. Risultato: nell’ultimo triennio non è mai scesa
sotto il miliardo di sterline di utili, arrivando a 1,6 miliardi nel
2015 (+60% sul 2014). Nel primo trimestre 2016 ha registrato profitti
pari a 349 milioni di sterline, come a marzo 2015.
Per le banche
internazionali, invece, il valore sarà incentrato sui transaction
services. «Ad esempio, la Coca Cola in Polonia deve pagare gli
stipendi in valuta locale, e avrà sempre bisogno di una banca in
grado di ottimizzarne la tesoreria», spiega ancora l’analista. Per
chi ha già un brand riconosciuto, la gestione di patrimoni rimane
profittevole. «Tuttavia, servono enormi masse per godere di
significative commissioni di gestione. Ubs ha duemila miliardi di
dollari in gestione e 150 anni di storia. Difficile competere quando
le barriere in entrata sono così elevate», continua.
Su scala nazionale,
l’esempio è l’inglese Atom Bank, appena lanciata sul mercato
dopo che la spagnola Bbva ne ha acquisito il 30% lo scorso novembre.
«È una banca che funziona solo tramite app. I costi di gestione
sono ridotti – 160 impiegati, zero sportelli – e i profitti
derivano dalle fees più basse dei concorrenti su mutui e prestiti.
La sede è a Durham, nel Nord Est del Paese, lontano da Londra».
Tecnologia nuova, business tradizionale, poco personale.
Meno pirati, più
ragionieri
Di questi tempi, i
banchieri d’affari sono precari. Pirati negli anni ’90, oggi
ragionieri. Tagli al personale, dieta ai bonus –salvo eccezioni,
soprattutto nel top management a Wall Street –, chiusura di trading
desk su derivati, tassi, materie prime. Sono solo alcune delle
contromisure che gli istituti di credito hanno intrapreso per provare
ad assicurare adeguati ritorni ai propri azionisti. I numeri fanno
impressione: Credit Suisse ha annunciato l’uscita di quattromila
persone, Hsbc di duemila, Barclays sui 1.200. Da noi, Unicredit ha
deliberato il taglio di 18 mila lavoratori entro il 2019.
«Oggi le banche non sono
incentivate ad assumere, per conto dei propri clienti, posizioni di
acquisto o vendita su strumenti rischiosi. Ciò significa che un
compratore potrà scambiarli se nello stesso momento dall’altra
parte c’è un venditore. E che i nuovi banchieri sono asset
manager: investitori di lungo periodo», osserva l’analista.
«Quando arrivai a
Londra, nel 2004, riuscivo a guadagnare un bonus di 50 mila sterline
l’anno. Meno male che ho comprato casa allora, perché oggi quelle
cifre sono inimmaginabili. In più, per metà il bonus è
rappresentato da azioni delle banche stesse non redimibili nel breve
periodo. Sai che affare», ironizza un banchiere di una primaria
banca internazionale.
«A inizio anni ’90
sbarcò a Londra un’infornata di banchieri italiani che fece
furbescamente da tramite tra capitali anglosassoni in cerca di
rendimento e un mercato borsistico agli albori. Hanno tutti la
Ferrari e casa a Holland Park. Oggi quei tempi sono finiti. Può
succedere solo se lavori per un hedge fund e azzecchi un trade
difficile quanto prevedere che il Leicester avrebbe vinto il
campionato», chiosa un osservatore di lungo corso della City.
È finito il tempo
dell’espansione, guidata da pirati come lo scozzese Fred Goodwin,
amministratore delegato di Rbs dal 2001 al 2009 quando divenne la
quinta banca al mondo, o Adam Applegarth, capo di Northern Rock, la
prima banca britannica a fallire nel 2008, e prima a concedere mutui
pari all’intero valore di un immobile. Segno dei tempi, a Standard
Chartered è arrivato Bill Winters, ex responsabile delle attività
d’investimento di Jp Morgan. A guidare Deutsche Bank c’è invece
John Cyran, ex direttore finanziario di Ubs. Uomini dei numeri, con
un chiaro mandato: ristrutturare il business.
In Italia, viene in mente
Giovanni Bazoli, il padre di Intesa Sanpaolo che in una celeberrima
intervista al Financial Times rivendicava il ruolo benefico della
“finanza di relazione”.
Pagina 99, 7 maggio 2016
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