In campagna elettorale se
ne sentono di tutti i colori. A Milano tra i candidati sindaci c’è
chi vuole riaprire i Navigli, chi punta a far viaggiare i cittadini
gratis sui mezzi pubblici, chi promette il reddito minimo garantito e
chi assicura il blocco della cementificazione proprio mentre in città
spuntano grattacieli e complessi residenziali. Gli anarchici del
circolo Ponte della Ghisolfa non hanno grandi richieste, vorrebbero
solo che si trovasse uno spazio per esporre un’opera d’arte.
Un gesto semplice, ma che
ha un valore importante per la memoria dei milanesi. I funerali
dell’anarchico Pinelli è, infatti, il quadro che non si può
vedere. È una creazione di Enrico Baj che non trova pace, non ha un
luogo dove restare e mostrarsi, viene mantenuta lontano dagli sguardi
dei cittadini, a volte compare per un breve periodo e poi ripiomba
nel buio. Una storia che pare non avere fine, così come tutte le
vicende che iniziano con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre
1969, ma che potrebbe anche arrivare a una conclusione con un po’
di buon senso e di volontà: una città capace di ospitare venti
milioni di visitatori dell’Expo può anche trovare un luogo
pubblico per ospitare un’opera d’arte dedicata a un ferroviere
anarchico morto quarantasette anni fa.
«Abbiamo raccolto
migliaia di firme, abbiamo ricevuto sostegno da parte di molti, non
vogliamo polemizzare con nessuno, semplicemente chiediamo un luogo
dove esporre quest’opera che ha un importante valore artistico,
anche sentimentale, e richiama grande interesse», spiega Mauro De
Cortes, anarchico del vecchio circolo milanese. La questione è
complessa, anche se l’esposizione di un quadro sembra una cosa
abbastanza semplice nell’epoca dell’aspirazione alla memoria
condivisa. Il prefetto Alessandro Marangoni, appena arrivato in
città, promette di recuperare «il rapporto con la famiglia
Pinelli», ha avuto un contatto con la signora Licia Rognini Pinelli,
ma non si capisce dove vuole o può arrivare: ricordare il ferroviere
con una lapide dentro le mura della Questura dove è morto, svelare
un’altra verità dopo quella ufficiale del malore con «alterazione
del centro di equilibrio» senza «perdita del tono muscolare» e con
«movimenti attivi e scoordinati»?
Intanto Milano attende
anche la versione del libro postumo di Antonino Allegra, ex capo
dell’Ufficio Politico della Questura al tempo della strage, che in
vita non ha mai pronunciato una parola su quei giorni tremendi
perché, diceva, «sono un funzionario dello Stato e devo mantenere
il segreto». Qui però non si tratta di riscrivere la storia, ma di
dare visibilità a un quadro di grande significato, rispettando
l’idea dell’autore.
Dario Fo, che scrisse e
portò in scena Morte accidentale di un anarchico già nel
1970 raccogliendo carrettate di denunce e polemiche, ha un ricordo
affettuoso di Baj: «L’essere vivo, vitale era il più evidente dei
suoi pregi, l’intensità dell’essere, lo sghignazzo provocatorio,
il riso pulito e commosso, l’ironia sarcastica, la determinatezza
dell’impegno».
L’opera ha bisogno di
spazio. Si tratta, infatti, di una composizione modulare, formata da
12 pannelli smontabili, con una dimensione di tre metri per dodici.
Le figure sono ritagliate su sagome di legno e assemblate con la
tecnica del collage, tipica dell’artista milanese. Il centro della
scena è occupata dall’urlo della morte del ferroviere, a sinistra
assistono alla tragedia undici anarchici e le due figlie Claudia e
Silvia Pinelli. La moglie Licia è in un angolo, a destra, in
ginocchio, sconvolta dal dolore. Davanti a lei sette poliziotti, con
le medaglie sul petto e rotelle al posto degli occhi. Il riferimento
più diretto dell’opera è a Guernica di Picasso, il secondo
è un omaggio al futurismo di Carrà de I funerali dell’anarchico
Galli (1911). Baj aveva racchiuso nel suo lavoro il dolore, la
paura, la tensione di quegli anni, la commozione dei funerali di Pino
Pinelli, caduto da una finestra della Questura in via
Fatebenefratelli dov’era trattenuto illegalmente.
Passarono molti anni
prima che emergesse almeno una verità: Pinelli non c’entrava
niente con la bomba, gli anarchici erano estranei all’attentato. I
funerali del ferroviere al cimitero di Musocco del 20 dicembre 1969,
a cui si ispira Baj, restano una pagina dolorosa nella memoria della
città. Gli anarchici, i militanti che sentivano forte la minaccia di
un nuovo terrorismo si strinsero attorno a Licia Pinelli e alle
figlie.
Nel libro Una storia
quasi soltanto mia, scritto con Piero Scaranucci, la signora
Pinelli ricorda: «Sgridavo mia mamma perché aveva cominciato a
piangere. Lo sforzo di non lasciar trapelare i sentimenti. Per non
dargli la soddisfazione. È tanto più facile dimostrare i
sentimenti. C’era tantissima gente se pensi alla paura di quei
giorni, al linciaggio. Io mi ricordo di me stessa davanti alla fossa.
Ho consegnato la bandiera nera da mettere sulla bara, ma ricordo
soprattutto questa atmosfera pervasa di tragedia che aveva preso
tutti».
Alcuni giornalisti –
Camilla Cederna, Marco Nozza, Giampaolo Pansa – compresero e
raccontarono subito quell’ombra nera, di violenza e intrighi, che
avvolgeva il Paese. Franco Fortini, presente ai funerali con Vittorio
Sereni e Giovanni Raboni, scrisse parole dolorose: «Il gelo del
cimitero, la pietà dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa
ingiusta, la sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia
che si chiude, di un triste futuro di persecuzione e di silenzi».
Il battesimo dell’opera
di Baj era previsto il 17 maggio 1972 a Palazzo Reale. La
presentazione fu annullata perché al mattino dello stesso giorno in
via Cherubini a Milano era stato assassinato il commissario Luigi
Calabresi, che aveva partecipato alle prime indagini sulla strage di
piazza Fontana. Per quell’omicidio molti anni dopo furono
condannati tre ex militanti di Lotta Continua.
L’opera di Baj finì
nel dimenticatoio, nessuno ne parlò più in Italia mentre, negli
anni successivi, raccolse interesse e attenzione all’estero:
Rotterdam, Stoccolma, Dusseldorf, Ginevra, Miami, Locarno. Nel 2003
fece un’apparizione all’Accademia di Brera. Baj, nel frattempo,
aveva regalato l’installazione a Licia Pinelli, che però non
poteva custodirla nel suo piccolo appartamento. I funerali
dell’anarchico Pinelli finirono così alla Fondazione Marconi.
Dopo ben quarant’anni, nell’estate del 2012, il Comune di Milano
decise di mostrare l’opera di Baj alla città, nella sala delle
Cariatidi a Palazzo Reale. Il sindaco Giuliano Pisapia, il quale
promosse l’iniziativa con l’ex assessore alla Cultura Stefano
Boeri, commentò che «l’arte, quella vera, non minaccia nessuno:
quello di Baj fu anzitutto l’omaggio al dolore di Licia, Claudia,
Silvia, allo sgomento degli anarchici milanesi, del tutto alieni a
ogni idea di violenza, ad ogni sopruso, ad ogni negazione della
libertà dell’uomo». Passata l’estate del 2012, però,
l’installazione di Baj è stata smontata ed è tornata nel
magazzino della fondazione.
Giorgio Marconi, 86 anni,
gallerista e collezionista, è il proprietario de I funerali
dell’anarchico Pinelli e si sta battendo perché si trovi uno
spazio pubblico adeguato. «Sono sempre disposto a donare l’opera
alla città», racconta, «perché non ha solo un importante valore
artistico, rappresenta una pagina della storia di Milano. Voglio
donarla a condizione che sia esposta in uno spazio fruibile a tutti.
Ci sono molte aree vuote, saloni, musei che potrebbero essere
utilizzati, mi hanno anche convocato all’assessorato alla Cultura
assicurandomi che avrebbero trovato una soluzione, ma non viene mai
presa una decisione». Aggiunge Marconi, erede del più famoso
corniciaio di Milano: «Ho visto nascere l’opera, Baj ci teneva
tanto e aveva addirittura affittato un appartamento solo per crearla.
Tagliava, dipingeva i pezzi di legno e poi li assemblava con il suo
stile. Mi chiese di comprare l’installazione e il ricavato venne
donato alle figlie di Pinelli. Ho ricevuto offerte dalla Germania e
dalla Francia, ma non ho mai voluto venderla perché deve restare a
Milano».
Adesso ripartirà la
raccolta di firme, la mobilitazione, la richiesta di uno spazio in
città, che si potrebbe trovare considerato il numero e la vivacità
di musei, gallerie, fondazioni. Il circolo Ponte della Ghisolfa vuole
proiettare l’immagine dell’opera di Baj sulla facciata di Palazzo
Marino per ricordare a tutti la vicenda del quadro invisibile. Forse
la campagna di confronto politico per l’elezione del sindaco
potrebbe consentire di scegliere il destino di quest’opera senza
pregiudizi e polemiche. Ma è meglio non alimentare speranze, ci sarà
ancora da aspettare, cosa non facile quando si parla di piazza
Fontana, della lunga serie di lutti e tragedie che parte da quei
lontani giorni di dicembre.
Qualche anno fa fu rubata
la seconda lapide che gli anarchici avevano collocato a ricordo di
Pinelli nei giardini di fronte alla sede della Banca Nazionale
dell’Agricoltura, dove esplose la bomba. L’hanno sostituita con
la prima, ancora più vecchia, che ormai non resiste più all’usura
del tempo. Così ne hanno ordinata un’altra. Tra pochi giorni da
Carrara, terra di marmi e di libertari dove riposa Pino Pinelli, ne
arriverà una nuova di zecca. Verrà posata in piazza Fontana per
durare altri decenni.
PROFILO DI ENRICO BAJ
Nel luglio 2003,
all’indomani della morte di Enrico Baj, Christopher Maters notò
sul “Guardian” che i quadri e i collage figurativi dell’artista
milanese «non sono immediatamente evocativi come i monocromi di Yves
Klein o le tele tagliate di Lucio Fontana... ma le sue immagini
vivide, spesso angosciose, hanno rappresentato una sfida costante
alle ortodossie artistiche e politiche». Ne sono esempi i Generali
fatti di bottoni o i Meccani ispirati all’Ubu re di Alfred
Jarry o ancora, sulla scia della Guernica di Picasso, oltre ai
Funerali dell’anarchico Pinelli, la grottesca Nixon
Parade (1974). E Baj fu anche autore di libri, che portano
(ovviamente) titoli provocatori. Come Automitobiografia o (con
Paul Virilio) Discorso sull’orrore dell’arte.
Pagina 99 we, 5 marzo
2016
Nessun commento:
Posta un commento