Come a tener desto il
filo d'un discorso del massimo interesse, la casa editrice Einaudi
ripubblica, a poche settimane di distanza dalla Linea d'ombra,
anche Cuore di tenebra (Heart of darkness) di Joseph
Conrad (pagg. 123, lire 12.000), nella traduzione di Alberto Rossi, e
con una nota introduttiva di Giuseppe Sertoli densa ed estremamente
interessante (anche se, temo, la mia ben più modesta interpretazione
si discosterà in più punti dalla sua).
Di Cuore di Tenebra
la Linea d'ombra rappresenta idealmente l'antecedente
immediato, anche se è stata scritta diciott'anni circa dopo l'altro
racconto. Marlow, uno dei due protagonisti principali di Cuore di
tenebra, è il giovane capitano della Linea d'ombra con
dieci anni di più di mare (e di esperienze, e di disinganni) sulle
spalle. La linea d'ombra, che egli aveva, nel libro omonimo, appena
attraversato, ora è ben lontana nel suo passato: il ricordo di
quell'attraversamento la quieta, un po' opaca e un po' frusta
maturità, che ora lo caratterizza riemerge qua e là nei
comportamenti del personaggio. Ma ora egli ha davanti a sé una più
consistente ed inquietante linea d'ombra, una linea d'ombra dove the
shadow è diventata the darkness, ed è così sterminata e
profonda da minacciare addirittura d'inghiottirlo. La prova di
maturazione virile si è trasformata in una lotta per la
sopravvivenza in un' oscura zona di confine dove anche la terribile
ma elementare forza della naturalità la bonaccia del mare, che nulla
può piegare, appare cosa da niente rispetto alla logica affascinante
e tentacolare del selvaggio-vivente, della wilderness.
Su di un piccolo yacht da
crociera, il Nellie, un gruppo di amici trascorre una serata
tranquilla sull'ultimo tratto del Tamigi, che conduce al mare. Tra di
essi, c'è un personaggio testimone, che dice io, e descrive la
scena; e ce n'è un altro, di nome Marlow, che è l'unico fra loro
che ancora seguisse il mestiere del mare. Ed è Marlow che parla, e
racconta (come altre volte in Conrad).
Racconta che, dopo aver
trascorso un periodo assai lungo sulle rotte dell'Oceano Indiano, del
Pacifico e dei Mari della Cina, rimasto senza imbarco, aveva brigato
per entrare al comando di una nave di una famosa Compagnia europea,
operante nell'ambito d'un grande ed ancora in gran parte ignoto
territorio africano. Marlow non fornisce molte precisazioni su questi
aspetti storici della narrazione, ma qui s'inserisce una componente
sostanziosamente autobiografica, che consente di far luce su molti
particolari della vicenda. Sappiamo infatti che nel 1890 Conrad
comandò una nave sul fiume Congo, nell'omonimo territorio allora
totalmente assoggettato all'influenza belga (e, infatti, Bruxelles è
la tetra città europea, dominata dall'avidità e dall'interesse,
dove Marlow va a ricevere le consegne dall'onnipotente Compagnia,
ossia dalla Société Anonyme Belge pour le Commerce du
Haut-Congo, controllata dallo stesso re Leopoldo II).
Marlow, dunque, raggiunge
via mare le prime e più esterne stazioni commerciali di quella
colonia, assistendo fin dall'inizio ad orribili spettacoli di
sfruttamento e abbrutimento della popolazione negra; indi si sposta
faticosamente a piedi fino ad una Stazione centrale, dove ha la
sorpresa di trovare la sua barca affondata nelle acque fangose del
fiume. Mentre intraprende una faticosissima opera di recupero, ha
modo di conoscere a fondo la popolazione bianca del luogo: un branco
di avventurieri votati unicamente alla conquista dell'avorio, persone
senza fede e senza idealità, che bene rappresentano l'avida
conquista europea del selvaggio ma ingenuo e indifeso mondo africano
(“La parola avorio echeggiava nell'aria, sussurrata, sospirata.
C'era da supporre che le rivolgessero delle preghiere. Un lezzo di
rapacità imbecille circolava per ogni dove, a zaffate, come il
fetore di un qualche cadavere”). Quando il recupero del battello è
terminato, Marlow naviga, insieme con l'indisponente e vuoto
Direttore di questa Stazione e alcuni dei suddetti pellegrini
bianchi, verso una lontana Stazione interna, del cui capo, un certo
Kurtz, ha già sentito parlare più volte durante il suo viaggio.
Kurtz viene descritto da tutti come un personaggio eccezionale, un
idealista, un riformatore, che ha ben presente l'obiettivo
dell'incivilimento dei selvaggi e del miglioramento delle loro
condizioni di vita accanto a quello economico del guadagno e del
profitto. È un fatto, comunque, che dalla sua Stazione proviene più
avorio di quanto ne arrivi da tutte le altre stazioni del territorio:
e questo, naturalmente, basta a far alzare le quotazioni mondane del
personaggio. Man mano che il faticoso viaggio lungo il fiume si
svolge, aumenta la pressione, fisica e psicologica, della natura
selvaggia sul minuscolo e pure tanto composito universo bianco, che
quel guscio di noce contiene. Marlow: “E noi che ci eravamo
avventurati là dentro, cos'eravamo mai? Avremmo saputo padroneggiare
quella cosa muta, o non essa ci aveva in sua signoria? Sentivo quanto
immane, quanto tremendamente immane fosse quella cosa che non parlava
e che presumibilmente era anche sorda.... Si va dunque, lentamente ma
inesorabilmente, verso il cuore della tenebra”.
Nei pressi della Stazione
interna la nave è assalita, con frecce e con lance, da un'orda di
selvaggi, più disperati che inferociti: si saprà poco più tardi
che è stato Kurtz a sollevarli contro i suoi amici bianchi per
sfuggire alla loro presa. Marlow ha così l'improvvisa, lancinante
rivelazione che una modificazione profonda è avvenuta: Kurtz si è
immedesimato prodigiosamente nel cuore della tenebra, è divenuto,
per molti versi, il capo, temuto e idolatrato, di quella tribù. Ma,
per altri versi, calandosi in questa situazione anomala ed atroce,
egli ha tenuto alto il vessillo dell'economia imperialistica: il
molto avorio di cui ha rifornito la sua Compagnia non è il frutto,
come si pensava, di abili transazioni commerciali, ma di feroci
razzie e di violenze senza nome: ne fanno fede le teste dei nemici
infilzate sui pali che circondano la sua squallida residenza.
Urlavano facendo
orrende smorfie
Kurtz viene strappato al
suo regno e al suo demonio. Strappato? La cosa è incerta. Il suo
superomismo pencola tra l' Africa selvaggia e la selvaggia Europa:
impedisce ai suoi fedeli neri di sterminare il drappelletto di
bianchi, che pure lo sottrae alla loro allucinante devozione; fugge
dalla barca per ritornare al suo popolo, ma viene ripreso, e anche in
quel momento rinuncia a gridare per farsi salvare. È malato,
profondamente malato: ma nell' interno è malato, prima che nel
fisico.
Non sopravvive che pochi
giorni all'imbarco. Muore tra la soddisfatta allegrezza di tutti i
bianchi del battello, che vedono scomparire in lui una presenza
inquietante o una superiorità minacciosa o una concorrenza temibile.
L'unico a ricordarlo, e a prestare un amaro tributo alla sua memoria,
è Marlow: “Già, son rimasto a sognare il mio incubo fino in
fondo, a dar prova ancora una volta della mia lealtà verso Kurtz. Il
mio destino! Che bizzarra cosa la vita questo misterioso congegno di
implacabile logica in vista di uno scopo tanto futile...”.
Ci sono scrittori che
attirano l'attenzione più sul simbolo che sul racconto e altri che
seguono la strada opposta. Conrad appartiene a questa seconda
categoria: è un narratore nato, che ricama su quel che
effettivamente ha visto e conosciuto e vissuto. La peripezia e
l'avventura, ingredienti del grande racconto classico, costituiscono
la base anche della sua narrativa. Eppure, quale straordinaria,
complessa e poliedrica forza simbolica scaturisce dal suo racconto!
All'endiade-contrapposizione Occidente-Oriente egli ha voluto
sostituire questa volta quella Europa-Africa. In questo modo è vero
ha messo in primo piano e violentemente sottolineato l'elemento
storico, il fattore contestuale, entro il quale la vicenda si svolge:
quello della vituperazione, dell'abominio e della condanna dello
sfruttamento coloniale, come storicamente aveva preso forma negli
ultimi decenni dell'Ottocento, in Oriente, ma soprattutto in Africa,
ad opera delle nazioni europee più evolute.
Sono pagine di altissimo
pathos etico quelle in cui Marlow scopre con angoscia, intendiamoci,
con vera angoscia e con turbamento che gli esseri primitivi che gli
si parano dinanzi sono suoi simili: “La terra non aveva nulla di
terrestre, e gli uomini... no, non erano inumani. Ebbene, vi assicuro
che questo era il peggio: questo sospetto che lentamente si faceva
strada, che essi non fossero inumani. Quella gente urlava, saltava,
piroettava, faceva certe smorfiacce orrende; ma quel che vi stringeva
il cuore era proprio il senso della loro umanità, non altra dalla
nostra: il senso di una remota parentela con quel selvaggio e
appassionato tumulto...”.
Pure, il discorso
conradiano non s'arresta qui. Anche gli Imperi tramontano, mentre
Cuore di tenebra continua, e continuerà per sempre a mandare
il suo cupo bagliore. Altri elementi, dunque, si selezionano e si
affermano accanto a questo. Come la Linea d'ombra, anche Cuore
di tenebra si presenta come un grande racconto virile. Su questo non
s'insisterà mai abbastanza. L'elemento femminile è ben presente in
Conrad, ma è marginale, sussidiario, rispetto a quello maschile,
incarnato da due tipi tanto diversi come Marlow e Kurtz. In Kurtz
l'elemento virile è rappresentato dalla totale smodatezza, dal
rifiuto di ogni limite, dalla ricerca di un rischio che sfida ogni
confine l'amore astratto del rischio per sé, per realizzare il
possesso totale di sé e insieme di qualsiasi altra cosa. In Marlow,
al contrario, l'elemento virile è rappresentato dall'osservanza
della regola. Gli unici elementi camerateschi che compaiano in questo
libro, si manifestano tra Marlow e il capitano svedese di una piccola
nave a vapore e il singolare giovane russo succube di Kurtz: in
ambedue i casi, è la marineria a determinarli (come, del resto,
nella Linea d'ombra).
Ma Marlow si spinge anche
un po' più in là: “Quel che ci salva, dice, è l'idea
dell'efficienza: il nostro culto dell'efficienza (the devotion to
efficiency). Questo culto dell'efficienza può anche diventare
amore: è quanto accade a Marlow nei tre lunghi mesi in cui passa
tutte le sue giornate a salvare il vecchio trabiccolo dal fango e
dalla dissoluzione. L'efficienza, ossia il lavoro, apre le porte alla
conoscenza di noi stessi; e la conoscenza di noi stessi, è un modo
come un altro per esprimere amore: “Ci avevo tanto faticato attorno
che avevo finito per amarlo...”.
Marlow è, dunque, un
paradossale eroe del beruf weberiano radicalizzato dal
rapporto con il selvaggio ambiente africano. Ma non è solo questo.
Marlow è anche un narratore. È da questa duplicità del personaggio
eroe narratore che nasce l'infinità di sensi che un racconto come
questo sprigiona. Si va ben al di là di qualsiasi interpretazione
storicistica, documentaria. Per capirne qualcosa, bisogna tornare un
istante sulla struttura stessa del racconto e cercare d'intendere
cosa voglia dire il fatto assai singolare che Conrad racconti di un
io che racconta Marlow che racconta Conrad (il Conrad vero dell'
esperienza congolese) che racconta Kurtz. Da questo punto di vista la
Linea d' ombra è incomparabilmente più semplice del Cuore di
tenebra: lì, dal principio alla fine, il personaggio che si dice io
è lo stesso che racconta. La mia ipotesi è che la differenza di
complessità narrativa è la stessa che passa, dal punto di vista
semantico e simbolico, tra shadow e darkness, tra ombra e tenebra.
Conrad, oppresso anche lui dall' insostenibile angoscia della
memoria, allontana l'inquietante fascino della Wilderness,
della darkness; invece di raccontare lui stesso, o di far
raccontare un altro che dice io, inventa una catena narrativa, in cui
le voci (e le memorie relative) s'incastrano indissolubilmente l'una
nell'altra, fino a costituire un continuum epico alla maniera aedica.
Il suono, l'accento fisico delle voci (si pensi a quella di Kurtz, o
dello stesso Marlow, o a quelle molteplici, modulate, diverse e
incomprensibili dei selvaggi), hanno un'importanza preminente in
questo racconto, quasi a testimoniare la complessità e la
molteplicità della comunicazione, proprio mentre se ne nega
l'effettiva possibilità. Marlow: “No, è impossibile, impossibile
comunicare ad altri la sensazione viva di un momento qualsiasi della
nostra esistenza... È impossibile. Si vive come si sogna:
perfettamente soli (We live, as we dream - alone...)”.
Partendo da questo
elementare richiamo alla struttura narrativa del racconto e cioè dal
fatto che ci troviamo di fronte a ciò che esattamente si chiama un
racconto epico, una narrazione aedica, nel senso più classico del
termine cerchiamo di mettere un po' d'ordine nella straordinaria
complessità dei motivi dominanti. Vediamo, intanto, quel che si può
pensare e definire come certo. Il viaggio di Marlow e del suo
trabiccolo è un viaggio di risalita: un viaggio all'indietro; e si
fa verso le sorgenti, attraverso il cuore della tenebra l'insensibile
minaccioso viluppo amorfo della foresta tropicale, l'incomprensibile,
anche se non disumana, carnalità dei selvaggi e si fa per acqua...
L'intelligenza era
chiara, l'anima folle
Marlow e Kurtz sono, come
abbiamo visto, agli antipodi (beruf contro sregolatezza,
controllo contro disfrenamento delle passioni) eppure si
assomigliano, persino fisicamente: non a caso Marlow narrante assume
le fattezze d'un Budda (molto simili a quelle giallastre e
scarnificate di Kurtz) per poter capire, e narrare, il senso di
un'esperienza ai limiti dell'essere. Certo, tra i due resta un
confine, ma un confine tanto impalpabile e casuale che varcarlo o non
varcarlo è dipeso, dipende da fattori anch'essi imponderabili, e
comunque non logicizzabili. Marlow: “È vero, egli aveva compiuto
il passo supremo, aveva varcato la barriera, mentre a me era stato
permesso di tirare indietro il piede esitante. Forse sta qui tutta la
differenza; forse tutta quanta la saggezza e tutta la verità, tutta
la sincerità, sono concentrate appunto in quell' imponderabile
momento del tempo nel quale si varca la soglia dell' invisibile...”.
Forse possiamo, con
queste parole di Marlow, avvicinarci anche ma con quante esitazioni!
al cuore dell'enigma, al personaggio centrale rappresentato da Kurtz:
arrivato, lui sì, nel cuore delle tenebre, e lui stesso, anzi, cuore
delle tenebre. Kurtz, come dice Marlow, è uno che è andato al di là
del confine, ha oltrepassato la soglia: un senso di possesso
infinito, una totale plurivalenza delle capacità c'è chi lo ricorda
grande musicista, eccellente pittore (inequivocabilmente simbolista),
trascinatore di folle, eloquente giornalista, intellettuale raffinato
che però non ne sviluppa, perché non ne sceglie fino in fondo
nessuna (è, a mio giudizio, il tema musiliano dell' uomo senza
qualità, che vive la crisi della specializzazione occidentale),
preferendo battere la strada della totalità senza limiti, del
possesso totale senza specificazioni: il prodotto è un ambiguo
intreccio di alto moralismo e di sfrenata passionalità; eroe e
cialtrone, essere superiore ed infantile, chiaramente conscio dei
suoi alti mezzi e puramente vanesio...
Egli è tutto ciò che
Marlow sa di poter essere, potrebbe essere, intravede di essere, ma
non vuole essere, ingabbiato com' è nella sua corazza di cavaliere
errante di una umanità che ha ormai introiettato i suoi orrori sotto
una crosta di regolamenti e di procedure rispettabili. Quando Kurtz
fugge dal battello smanioso di recuperare il dominio della sua
selvaggità, è proprio a Marlow che tocca di cacciarlo e di
andarselo a riprendere: non potrebbe mai consentire che al suo doppio
sia concessa la sterminata libertà d'impazzare senza pari
(“Credetemi o no, la sua intelligenza era perfettamente chiara...
Ma la sua anima era folle”).
Un altro elemento. C'è
una linea di divisione, invisibile ma profondissima, che separa il
mondo dei selvaggi da quello dei bianchi, ed è la totale assenza di
qualsiasi senso del tempo, e quindi, a miglior ragione, della Storia.
Il senso del tempo, e quindi della Storia, è strettamente collegato
in questo caso si possono usare senza tema le grandi categorie ad una
caratteristica fondamentale e strutturale della civiltà occidentale,
e solo di questa. L'economia, ad esempio, ha un rapporto strettissimo
con l'uso del tempo ed uno ancor più stretto con la nozione di
Progresso, e dunque d'incivilimento. Andando verso il cuore della
tenebra, si entra in un mondo in cui il tempo perde il suo senso e, a
miglior ragione, la Storia, e dunque il Progresso, e dunque
l'incivilimento, ecc. Kurtz si perde, perché perde il rapporto con
l'asse temporale, che, nonostante le ciclopiche distanze, continua a
collegare, nella mente dei bianchi, Leopoldville a Bruxelles e la
raccolta dell'avorio alle fortune dell'Europa: quando ha perduto il
senso del tempo, anche lui è perduto, perché anche Kurtz è,
irrimediabilmente, una creatura del tempo, e dunque della Storia
(giornalismo, arte, cultura, politica, riformismo, ecc. ecc.).
Se mettiamo insieme
questi vari elementi, possiamo azzardare qualche ipotesi sui sensi
mitici, leggendari, del racconto narrato. Esaminato da un certo punto
di vista, il viaggio descritto da Marlow è un viaggio acheronteo:
per acqua si fanno sia i viaggi genitali sia i viaggi ferali, e non
v'è dubbio che quello di Cuore di tenebra appartenga alla
specie di questi ultimi. Alla fine, c'è la visione di un'anima
dannata che, secondo gli archetipi più consolidati della cultura
occidentale-cristiana, paga per tutti il suo peccato di smisurato
orgoglio. In questa chiave, Kurtz è l'Angelo caduto: Lucifero.
Esaminato da un altro
punto di vista, il viaggio descritto da Marlow è un viaggio
preistorico: un viaggio, esattamente, nel cuore di quel passato umano
in cui la storia deve ancora avere inizio. Questo, del resto, è
detto più volte chiaramente nel testo: “Eravamo un pugno di uomini
erranti sopra una terra preistorica, una terra che aveva l'aspetto d'
“un pianeta sconosciuto... Il nostro battello avanzava
faticosamente sul ciglio di un nero e incomprensibile delirio. Una
umanità preistorica ci malediva, ci invocava, ci salutava...”. In
questa chiave, Kurtz è una specie di Prometeo alla rovescia, che ha
spento il fuoco ed è rientrato nella nera tenebra.
Infine - ed è ovviamente
l'interpretazione che noi preferiamo - il viaggio descritto da Marlow
è un viaggio alle fonti dell'essere, del nostro essere, di qualunque
essere: e in quanto tale, come la mitica linea d'ombra, il cuore di
tenebra non è un'esperienza storicizzabile, perché fa parte
dell'esistenza umana, è una parte di noi, è noi, ieri, oggi e
sempre. In questa chiave Kurtz è Marlow e Marlow è Kurtz: cioè,
ciascuno di noi è Kurtz ciascuno di noi è Marlow quando, s'intende,
abbiamo rinunciato ad essere le iene, gli sciacalli, gli avvoltoi, le
scimmie e i corvi delle varie stazioni coloniali descritte nel
racconto.
Vediamo un'ultima
componente del racconto: quella erotica. Kurtz ha lasciato in patria
una fidanzata giovane e purissima, avvinta a lui da un vincolo
indistruttibile; ed ha avuto in colonia una barbarica, fierissima
compagna, che lo insegue fino all'ultimo sulla sponda fangosa del
fiume. Kurtz, in mezzo a loro, perde definitivamente la sua identità,
pur così possente e in sé tanto marcata: egli, infatti, si svuota
nel loro pensiero di ogni contenuto determinato e non è più se non
ciò che quelle due donne pensano che egli sia. La sua dannazione è
dunque anche quella di sparire di fronte alla passione così diversa
ma egualmente sterminata ed autentica, pietosamente autentica, delle
due amanti: non sappiamo neanche, infatti, se egli ami veramente
oppure no.
D'altra parte, la
principessa della luce nulla sa e non vuole che essere ingannata; la
principessa delle tenebre, che invece tutto conosce, è muta, o, per
meglio dire, parla una lingua dolorosa e totalmente incomprensibile.
L'eros, dunque, non attenua ma accentua all'estremo la completa
estraniazione del personaggio. Kurtz muore totalmente solo (l'unica
presenza ammessa è, appunto, quella di Marlow, che è puramente
testimoniale), come totalmente solo aveva sognato; e Marlow, che al
mondo non odia nulla più della menzogna, quando fa da intermediario
fra Kurtz e il suo eros, è costretto alla fine a mentire, a
spudoratamente mentire: “'La sua ultima parola, per aiutarmi a
vivere - mormorò -. Non capite che lo amavo - che lo amavo - che lo
amavo!'. Mi padroneggiai con uno sforzo, e dissi lentamente:
'L'ultima parola che pronunciò fu... il vostro nome'”.
Il mistero
dell'odio e dell'amore
In realtà, Kurtz, nel
momento finale della sua vita, quando sul viso gli si dipinge senza
più difesa l'espressione di un cupo orgoglio, di un'energia crudele,
di un avvilente terrore, di un'intensa e irrimediabile disperazione,
aveva gridato ben altro, con la sua voce ridotta ad appena più di un
sospiro. Aveva gridato (o sospirato, gridando): “Quale orrore!
quale orrore! (The Horror! the horror!)”. Questo è il punto.
Kurtz, morendo, ha una visione (cristianamente): e vede, vede la vita
umana, nel suo senso profondo, nei suoi intrecci inesplicabili, nella
sua fatale concatenazione con il destino: ed esprime con quel grido
una vibrante nota di rivolta, e il terribile volto di una verità
intravista: e cioè si badi bene a questa conclusione, perché questa
conclusione spiega tutto il resto “il misterioso compenetrarsi
dell'amore e dell'odio...”.
Ci voleva uno andato ben
oltre il confine per dire così chiaramente questa irrimediabile e
impenetrabile verità. Ci voleva uno che andasse nel cuore della
tenebra per poter raccoglierla e raccontarla. Ci voleva un'
esperienza (un experimentum) e ci voleva un racconto, un
esploratore e un testimone, un eroe e un messaggero perché questa
parte dell'essere ci divenisse visibile. Oggi non facciamo altro che
gettare un velo su questa rivelazione. Tutta la politica, tutta la
cultura di oggi non sono che infantili tentativi di gettare un velo
su questa rivelazione: in attesa che un qualche rinnovato ed
autentico viaggio verso il cuore della tenebra ci mostri ancora una
volta terribilmente di quale pasta siamo fatti. In fondo, dobbiamo
ammetterlo, più che di Kurtz o di Marlow siamo i meschini
discendenti degli sciacalli e degli avvoltoi della Stazione centrale
belga, alto Congo, anni Novanta del secolo scorso.
“la Repubblica”,11
giugno 1989
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