23.4.17

Homo sapiens. Sguardi su altre umanità possibili (Marcello Buiatti)

Negli ultimi anni la mia personale fiducia nella specie a cui appartengo è andata calando, non solo perché il mondo umano non è come lo vorrei, ma perché sembra aver dimenticato caratteristiche specie-specifiche come l’uso del linguaggio per comunicare, del cervello per inventare, studiare, elaborare, del corpo infine che viene oggi considerato un oggetto da vestire, nutrire e seppellire secondo le leggi di una ormai incontrollabile economia virtuale, sempre meno connessa con i bisogni reali della vita. Un ottimo antidoto per uscire dall’angoscia (cosciente o no) del terzo millennio può essere lo studio della nostra storia che ci ricordi chi siamo, come siamo fatti, in cosa siamo diversi dagli altri esseri viventi. E in questo può risultare molto utile una visita al Palazzo delle Esposizioni di Roma dove è in corso la mostra Homo Sapiens dedicata alla evoluzione della nostra specie e organizzata da Luigi Luca Cavalli Sforza, uno dei più grandi genetisti viventi, mio maestro e amico dai primi anni '60, e da Telmo Pievani, filosofo di vasta e profonda cultura biologica.

Linee evolutive
Bellissima per i contenuti, resi comprensibili a tutte le età da un allestimento perfettamente riuscito, questa mostra sfata molti luoghi comuni sulla nostra origine e natura, ricordandoci il meraviglioso percorso della nostra specie dalla sua nascita a oggi. In particolare, visitando la mostra, capiamo quanto sia falsa la credenza-presunzione di essere stati ed essere tuttora unici fra gli esseri viventi grazie a un processo evolutivo lineare e in qualche modo predeterminato. Non a caso il sottotitolo (davvero innovativo) della mostra è La grande storia della diversità umana - non «unicità», dunque, ma «diversità umana», dove per «umana» non si intende solo la nostra specie, ma almeno tutte quelle appartenenti al genere Homo.
Questo approccio permette di eliminare per sempre la tristemente famosa immagine della «scimmia» che lentamente si alza diventando bipede, perde il pelo, si dota di un’arma e infine diviene uomo (chissà perché non donna). I dati paleontologici e molecolari fomiti dall’esposizione, e aggiornati all’inizio del 2011, escludono che ci siamo «mossi verso» la nostra comparsa, così come sostiene anche il pensiero cristiano più aperto sulla evoluzione e in particolare Teilhard de Chardin. «La mostra - scrive Sergio Tramma in uno degli interventi sul catalogo - ci insegna che l’umanità “adulta” di oggi non era nel destino di sé stessa: altre condizioni adulte sarebbero state possibili, altre umanità avrebbero potuto realizzarsi e raccontare sé stesse».
La linea evolutiva delle scimmie antropomorfe (hominidae) si è divisa in homininae e ponginae dai 12 ai 16 milioni di anni fa. Alle pongine appartiene l’orango mentre le ominine si sono divise in ominini e gorillini. Ai primi appartengono i generi Homo e Pan (lo scimpanzé) che si sono separati circa 6 milioni di anni fa, ai secondi gli antenati degli odierni gorilla. I primi rappresentanti del genere Homo sono comparsi due milioni e mezzo di anni fa in Africa e precisamente in Etiopia dove convivevano due specie (Homo habilis e Homo rudolfensis) cui poi si aggiunsero Homo ergaster, bipede, dotato già della capacità di lavorare la pietra, e Homo erectus. Ambedue presentavano caratteristiche già molto simili alle nostre, e avevano inaugurato una strategia evolutiva diversa da quelle degli altri esseri viventi. Mentre tutti gli animali si adattavano e si adattano «passivamente» all’ambiente da cui sono diversamente selezionati, gli appartenenti al genere Homo modificano l’ambiente, inventando e costruendo oggetti utili e rifugi, usando il fuoco, elaborando progetti e idee astratte.

Antenati abbronzati
In embrione questo tipo di adattamento «attivo» era già presente in ergaster e erectus e ha permesso loro - in particolare al primo - di spostarsi, rapidamente in ambienti anche molto diversi. Lo si ritrova infatti nella «prima migrazione umana» due milioni di anni fa oltre che in Africa, in Asia, in Georgia, in Medio Oriente, mentre erectus è in Cina. Una «seconda migrazione» di appartenenti al genere Homo data da circa 800.000 a 130.000 anni fa ed è stata compiuta da una nuova specie, Homo Heidelbergensis, così chiamato perché i suoi resti sono stati ritrovati vicino a Heidelberg, in Germania. Heidelbergensis aveva un cervello più grande dei precedenti (circa 1200 cc.), usava il fuoco, viveva in piccole comunità con una vita sociale complessa, in villaggi, costruiva utensili per cacciare, per disossare gli animali e con altre funzioni con una tecnica che è stata chiamata acheulana. Lo dimostrano numerosi giacimenti, tra i quali in particolare quello di Creta dove sono stati ritrovati ben duemila strumenti di pietra di ogni tipo datati a 130.000 anni fa.
La nostra specie, Homo sapiens, è nata come variante di Homo Heidelbengensis in Africa, crogiolo di tutti gli ominini circa 200.000 anni fa (più o meno ottomila generazioni), e si è spostata in ondate successive nel vecchio continente e in Europa dove è arrivata dai 50.000 ai 45.000 anni fa. Per quanto ne sappiamo, i nostri antenati - per dirla con Berlusconi - erano tutti «abbronzati» ma in seguito l’abbronzatura si è diluita negli umani che sono andati a nord (in modo da utilizzare lo scarso sole settentrionale per alcuni processi vitali fra cui la fissazione della vitamina D) e si è mantenuta in Africa e nelle le zone dove il sole è forte e dove quindi è necessario ripararsi per evitare infiammazioni e tumori.
Dalla sua nascita la nostra specie è in gran parte rimasta uguale a sé dal punto di vista fisico, ma ha molto rapidamente raffinato la propria innovativa strategia di costruzione attiva di un ambiente favorevole e non di selezione passiva. Sono quindi nate e si sono sviluppate culture diverse nel tempo e nello spazio come risulta dalle tecnologie usate per la produzione di utensili e per le arti emerse 60.000 anni fa nel Levante nella bassa Galilea e nella zona del Monte Carmelo e 45000 anni fa in Europa.
Le prime pitture di esseri umani, animali, oggetti e anche di segni simbolici datano da 40.000 anni fa nel periodo chiamato Aurigniaciano. A quell’epoca i nostri avi erano ormai praticamente uguali a noi e avevano superato la fase delle pietre scheggiate, giungendo all’astrazione come testimoniano pitture che raffigurano una realtà modificata dall’autore e quindi non fotografica, come mostrano gli splendidi graffiti di molte grotte europee e di altre zone del mondo. Già 60.000 anni fa si producevano monili ornamentali e si seppellivano i morti in tombe decorate con conchiglie forate, catene, e altri oggetti che ci fanno pensare che gli umani già allora credessero a una vita posteriore alla morte.
E tra 60.000 e 40.000 anni fa che Homo sapiens dimostra di avere una marcia in più degli altri umani che sono stati nostri «compagni di viaggio» fino alla estinzione dell’ultimo, solo 12000 anni fa. Il più vicino a noi è stato Homo Neanderthalensis presente in mostra grazie alla ricostruzione di un bel signore neanderthaliano anziano dal sorriso dolce e insieme triste, a ricordarci la sua estinzione. Neanderthal era la specie più vicina a noi geneticamente e fino alla sua scomparsa si era evoluto fisicamente e culturalmente in modo simile al nostro. Anche i Neanderthal discendevano da Homo Heidelbergensis, vivevano in comunità socialmente evolute in cui assistevano vecchi e malati come indicano i segni di operazioni chirurgiche in arti malformati trovati nelle sepolture. Queste erano complesse ed è possibile che i Neanderthal avessero sviluppato riti, dato che la presenza di un’intelligenza estetica e simbolica è provata dalla costruzione di monili variamente colorati e da manufatti di 36000 anni fa più avanzati di quelli dei coetanei Sapiens.
Con Neanderthal abbiamo convissuto a lungo e ci siamo anche incrociati visto che, come mostrano dati del 2010, dal 2% al 4% del nostro dna ha caratteristiche neanderthaliane. Non sappiamo come mai la loro specie si sia estinta, ma l’ipotesi avanzata nella mostra è che la loro evoluzione culturale e di conseguenza la loro capacità di adattamento si siano fermate, forse perché il loro linguaggio era meno efficiente - ipotesi questa, corroborata dalla struttura anatomica non sufficiente per linguaggi espressivi e articolati come i nostri. Ed è di nuovo il linguaggio a differenziarci anche dagli attuali primati, come dimostrano studi recenti che hanno paragonato le capacità di bambini di due anni e mezzo con scimpanzé di età prevalente, dimostrando che il bambino si distingue solo per la capacità di ricevere e comprendere informazioni dai suoi simili.
Gli altri due «compagni di viaggio» finora conosciuti sono l’«uomo di Denisov» i cui resti sono stati trovati a Denisova in Siberia, e Homo floresiensis, un pigmeo alto un metro che ha abitato l’isola di Flores in Indonesia fino a 12000 anni fa. I denisoviani derivano da un’ulteriore variante di Heidelbergensis, più simile a Nenderthal che a noi mentre il ben più antico Floresiensis deriva direttamente da Homo erectus, probabile progenitore di una possibile ulteriore specie presente nell’isola di Giava.
Benché a un certo punto si siano fermati, tutti i nostri cugini avevano caratteristiche culturali affini alle nostre come si desume dalla elevata socialità, dai manufatti in certi periodi anche superiori ai nostri, dalla esistenza di forme di pensiero astratto e, almeno in Neanderthal, anche della concezione del «bello», di cui sono prova le con chiglie colorate e forate dei nostri cugini L’umanità quindi, ci dice la mostra, non limitata alla nostra specie ma è stata pre sente in altre, diverse ma capaci di evoluzione culturale. La causa della loro scomparsa deriva probabilmente dalla mancata evoluzione di pochi geni necessari per accelerare e rendere più incisiva le nostre capacità di adattamento legate alla conoscenza e alla invenzione.

Lingue in evoluzione
Confermerebbe questa ipotesi il confronto fra il nostro genoma attuale e quello dello scimpanzé: solo una cinquantina di geni si sono evoluti rapidamente nella nostra linea evolutiva e non in quella del nostro «cugino» vivente - geni corrispondenti a una parte piccola ma importante del nostro dna, che è per il 98.4% uguale a quello dello scimpanzé e per il 99.84% al genoma di Neanderthal. Alcuni dei geni che abbiamo cambiato d consentono di usare un linguaggio più articolato di quello degli altri primati; quello per la encefalina non solo ci permette di avere un cervello più grande, ma di aumentare la misura relativa dell’encefalo (ora abbiamo 100 miliardi di neuroni, capaci di formare potenzialmente un milione di miliardi di connessioni diverse); altri ancora rendono più efficiente la ricezione dei segnali.
È così che la nostra strategia adattativa si è basata sempre di più sulla costruzione di culture e linguaggi differenti che derivano da interazioni positive con i tanti e diversi ambienti che abbiamo popolato e modificato. Così, da cacciatori, pescatori e raccoglitori che eravamo, ci siamo fermati nel nostro girovagare e abbiamo costruito, a seconda dei luoghi in cui ci trovavamo, agricolture basate su piante e animali diversi, con cibi, religioni, filosofie, riti e usi variegati. Ed è per questo che mentre adesso gli altri animali sono geneticamente diversi nelle differenti aree del pianeta perché sono stati diversamente selezionati dall’ambiente, nel caso nostro la diversità genetica è minima, mentre grandissima è quella culturale. In questo momento solo il 15% della nostra variabilità genetica distingue gli umani dei diversi continenti mentre l’85% è comune a tutti. Non solo, la nostra variabilità genetica è molto minore di quella dei primati vicini a noi viventi, sebbene noi siamo sette miliardi e loro non superino le decine di migliaia.
I linguaggi invece, che sono i segnali delle culture, sono più di duemila (e molti di più se si considerano i dialetti) e i loro numeri nelle diverse zone della Terra sono correlati con il numero delle specie viventi di animali e piante e soprattutto con le varietà coltivate e allevate. Come ha dimostrato Cavalli Sforza, le lingue si evolvono anch’esse a mano a mano che si evolvono i popoli. Con le lingue si è passati dalla comunicazione orale a quella scritta, sono sorte la matematica e la geometria importanti, oltre che per progettare oggetti sempre diversi, per lo scambio dei beni da cui è nato il mercato e, già dal IX millennio a.C in Anatolia e in Medio Oriente, la moneta che dovrebbe misurarne il valore.
Una incredibile diversità e capacità di invenzione che ci ha permesso di adattarci e di moltiplicarci mantenendo un rapporto positivo con i diversi ambienti e al tempo stesso aumentando anche il livello di bene-essere. L’immagine della nostra specie che Homo Sapiens offre è, insomma, variegata e multiforme, talvolta entusiasmante. Visto questo bel passato, al visitatore viene voglia di capire quanto siamo ancora fedeli al nostro modello di adattamento così efficiente e positivo. Ma basta guardarsi intorno per capire che la nostra strategia evolutiva ci ha preso la mano e ha dato avvio a un processo di alienazione dalla materia vivente e dai suoi bisogni.

Materia viva
Una prima svolta è stata l’epoca moderna in cui gli umani si sono convinti che la Terra e la biosfera e noi stessi siamo come macchine, passibili di essere modificate su progetto senza nessun effetto indiretto negativo. Ci siamo così omologati a computer con un solo programma scritto nel dna, buoni o cattivi per via ereditaria e quindi divisibili in razze anche se la nostra variabilità genetica è piccolissima per cui il termine «razza» non ha significato biologico per la nostra specie. Da qui i tentativi di «miglioramento» della specie umana ottenuto o per «selezione» o con inesistenti marchingegni molecolari. Ci siamo pensati come «altri» dall’ambiente rompendo le connessioni e modificandolo senza limiti coni nostri manufatti, distruggendo la biosfera, provocando e accelerando il cambiamento climatico e danneggiandoci con le nostre mani. Più di recente siamo passati a una nuova fase che dimentica sempre di più la materia viva e la sostituisce con il mercato - non quello dei beni, ma quello delle monete, scambiate con processi ormai incontrollabili almeno quanto quelli ambientali.

Se vogliamo veramente sopravvivere bisogna tornare al senso della vita dei nostri avi e di tutti i non umani, ricordandoci di essere, noi e gli altri, materia viva e godendoci le meravigliose connessioni nel nostro corpo, fra noi, con gli altri esseri viventi e fra questi e il nostro pianeta.

il manifesto, 6 gennaio 2012

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