La casa editrice Einaudi
ha ripubblicato ancora una volta The Shadow Line di Joseph
Conrad La linea d' ombra nella traduzione di Maria Jesi e con
la bella prefazione di Cesare Pavese, apparsa per la prima volta nel
1947. Si tratta di uno dei più bei racconti che siano mai usciti
dalla penna di un uomo. Di misura assolutamente classica un centinaio
di pagine circa, non molto più lungo, dunque, delle più lunghe
novelle del Decameron di Giovanni Boccaccio, concentra in questo
breve spazio il senso di un'esperienza, e di un passaggio,
assolutamente decisivi nella storia di un uomo. È, in sintesi, un
racconto sul destino: poiché quanto vi accade non discende mai o
quasi mai dalla libera scelta, dalla volontà dei singoli personaggi
e in particolare del protagonista: ma è un intreccio di caso e di
volontà, un conflitto d'ingenue aspirazioni umane e
d'imperscrutabili forze naturali, il cui esito è imponderabile e
soprattutto imprevedibile.
Siamo ben al di là della
soglia culturale dell'homo faber: siamo nel dominio di
quell'uomo moderno, che sa soltanto di esserci ed ha soltanto il
problema di come esserci. La trama è semplice, lineare, ma, per
quanto ben nota, vale la pena di riassumerla, perché già in essa,
come in tutti i grandi racconti, viene fuori l'evidenza del racconto
stesso. Il protagonista è un giovane ufficiale di marina, che ha
passato diciotto mesi della sua vita su di una eccellente nave a
vapore, che scorrazza a trasportar merci sui lontani mari
dell'Oriente. “Poi, i diciotto mesi trascorsi, pieni di esperienze
così varie e nuove, mi sembravano tetri e prosaici giorni perduti.
Sentivo come dire? che non potevo trarne alcuna verità”. Cos'è
accaduto? È accaduto che il giovane ha oltrepassato la linea
d'ombra: quella che separa la prima giovinezza, fatta di trasporti,
entusiasmi, ingenuità e delirii d'ansia e di attesa, dalla seconda
giovinezza, o prima maturità, in cui la vita comincia a ritirare le
sue promesse. Il giovane, premuto da questa oscura coscienza del
destino mediocre che avanza, si congeda: si congeda per sempre, e
decide di tornare in patria, senza neanche saper bene a fare che
cosa.
Questo è importante. La
storia comincia quando il protagonista ha già attraversato la linea
d'ombra. Quanto accade poi nel racconto è un'improvvisa, imprevista
virata su di un mare che avrebbe potuto essere da quel momento in poi
un'eterna distruttiva bonaccia, l'eterna vita comune di tutti i
giorni. A quel giovane di cui, significativamente, non sapremo mai il
nome e che parla in prima persona sarà concesso, prima di rientrare
presumibilmente sulle grandi rotte così conosciute della vita umana
normale, di sperimentare l'avventura, la dimensione eccezionale
dell'esistenza. Ma, forse non a caso, il suo cimento non consisterà
nel misurarsi con una grande tempesta ma, appunto, con una grande,
smisurata, quasi inconcepibile bonaccia. Nei giorni che trascorre a
terra, il giovane viene fortunosamente a sapere che si cerca un
capitano per una nave rimastane priva a causa della morte di quello
precedente, nella rada di Bangkok: e afferra al volo l'occasione
della sua vita. Veramente, verso questa occasione il giovane è
spinto quasi a viva forza da un certo capitan Giles, Genio (benefico?
malefico? per dirlo, bisognerebbe formulare un giudizio sugli eventi,
proprio ciò che è difficile fare) del suo destino.
Il racconto, del resto, è
costellato di queste presenze umane, che, pur restando estremamente
concrete e definite, assumono una significazione estremamente e
misteriosamente simbolica: il capitano morto, vera sublimazione della
malvagità e della violenza; il secondo di bordo, Burns, emblema
vivente di un'ostinata disperazione, che oscilla tra la rabbia, la
malattia e la follia; e soprattutto il dignitoso, elegante e
coraggioso Ransome, cuoco e cameriere, che porta il male racchiuso
coscientemente nel petto fedele, ma non esiterà ad esporre la sua
vita allo sforzo quando sarà necessario portare la nave in salvo. Il
giovane, che da questo momento sarà per tutti il capitano, raggiunge
la sua nave a Bangkok; e quando la vede per la prima volta è come
folgorato dalla sua bellezza e dalla sua sobria eleganza. È amore,
dunque, quello di cui in questo racconto si parla, amore e
disillusione (come sempre, verrebbe fatto di dire): amore per un
oggetto inanimato, che ha però la consistenza e la grazia d'un corpo
femminile; amore per la propria autorealizzazione, che attraverso
quell'oggetto finalmente può compiersi; e disillusione, anche, per
l'inganno che la nave porta nel suo corpo.
L'amore è, nel giovane
capitano, l'effetto di una doppia illuminazione. Il giovane capitano
e questo è un particolare tutt'altro che indifferente si realizza,
regredendo dalla nave a vapore alla nave a vela; regredisce
storicamente, dico, perché gli capita di vivere in un momento in cui
il vapore, la soluzione del futuro, e la vela, la soluzione del
passato, sono ancora alternativi fra loro; ma da un punto di vista
sostanziale, il vapore si può stimare, ma solo la vela si può
amare, e, mentre il giovane cresce verso la maturità, si permette il
maggior lusso della sua vita, quello di andare contro corrente, verso
il sogno infantile d'un'ala di gabbiano bianca dispiegata sul mare.
Inoltre, l'amore autentico non può essere il frutto di un'attesa
pazientemente costruita, il compenso per un servizio fedele: perché
c'è qualcosa di sgradevole nel concetto di compenso. Ciò che si fa,
si fa per amor proprio, per amor della nave, per amor della vita che
si è scelta, non per amor del compenso: si ama, perché ci si ama, e
ci si ama se il senso del meraviglioso, il trionfo dell'inaspettato,
il sentimento della presenza di un potere più alto, accompagnano,
anche per brevi istanti, la nostra infima storia: fuori delle
carriere e delle burocrazie, verso il fantastico.
Ma, non appena messo
piede a bordo della nave subito amata, il giovane capitano ha modo
d'accorgersi che qualcosa non funziona: il secondo, Burns, vive nella
tragica aura del conflitto sostenuto con il precedente capitano,
malvagio e disperato, che passava le caldi notti tropicali a suonare
il violino nella sua cabina e che era morto maledicendo la nave e il
suo equipaggio. Ammalatosi terribilmente anche lui, Burns viene
sbarcato, ma il giovane capitano non sa resistere alle sue
implorazioni quando giunge il momento di partire: Burns torna a
bordo, accompagnando con il suo delirio e con la visione del suo
corpo stecchito l'intero viaggio della nave, riemergendo solo alla
fine della vicenda dalla sua malattia, come per testimoniare il
trionfo da lui personalmente conseguito, ma a prezzo di uno sforzo
sovrumano, sulla maledizione del capitano scomparso. Nonostante i
saggi consigli di un medico, il giovane capitano vuole ad ogni costo
partire. Partire? La nave, appena uscita dalla rada, s'immerge in una
terribile, snervante bonaccia, che refoli di vento, senza una regola
né una direzione precisa, riescono a malapena ad interrompere di
tanto in tanto, ma solo per dar vita ad un beffardo e ingannevole
gioco di derive. Intanto, la malattia mostra d'aver piantato radici
profonde a bordo; i marinai si ammalano uno dietro l'altro; gli unici
sani restano Ransome, che tuttavia porta già il suo male dentro il
petto, e il giovane capitano, che soffre la sua sanità come
un'aggravante della propria colpa. Qui non c'è molto da riassumere.
Sono cinquanta semplici pagine, in cui Conrad compie il miracolo d'
interiorizzare completamente il confronto smisurato tra l'uomo e la
natura e di spiritualizzare al tempo stesso ogni più piccolo
movimento naturale. È la storia di una immobilità materiale, che
diventa esistenziale e poi metafisica: “Con l'ancora levata e le
vele spiegate la mia nave rimaneva immobile, simile a un modello di
veliero posto tra le luci e le ombre di un marmo levigato. In quella
misteriosa calma delle forze immense dell' universo non era possibile
distinguere la terra dall'acqua.... In quell'immobilità il morbo
freme e dilaga, inarrestabile: i marinai si riducono, poco a poco, a
povere larve. Ma siccome sono un buon equipaggio, continueranno fino
allo stremo ad esercitare l'umile e straziante manovra delle vele e
il governo del timone”.
Il climax della vicenda
si raggiunge quando il giovane capitano scopre che il vecchio
capitano, il morto, ha svuotato le bottiglie di chinino, con cui i
marinai colpiti dalla febbre potevano esser curati, sostituendolo con
una polvere grigia qualsiasi, una sabbia inutile. Il giovane capitano
è preso da un panico indicibile, da un rimorso senza speranza. Tutto
ricade ormai sulle sue spalle, ed egli pensa al tempo stesso d'
essere l'unico responsabile della sciagura della sua ciurma. Quando
tutto sembra ormai perduto, e il giovane capitano fantastica d'una
nave colma di morti che bordeggia quasi immobile su di un mare che
sembra fatto pietra, arriva una nuvolaglia precorritrice di tempesta.
Ma neanche questo preannuncio di movimento può ormai placare
l'inquietudine profonda del giovane protagonista: “C'è qualcosa
nel cielo, come una corruzione, una decomposizione dell'aria, calma
come sempre. Eppure non sono che semplici nuvole che potrebbero
portare vento o pioggia. Strano che debba essere tanto turbato. Mi
sento sotto il peso dei miei peccati...”.
L' ultima notte è oscura
e cieca come le tenebre della creazione. Affacciandosi dal bordo
della nave, su quell'immensità senza fine, il giovane capitano
avverte il sapore del nulla. Tutto sembra perduto, ma quelli a bordo
ancora dotati di un solo briciolo di forza, preparano con uno sforzo
strenuo tutto quello che è necessario per affrontare la tempesta: e,
se mai vela è stata serrata da pura forza spirituale, questa è
stata certo la nostra, perché, ad esser precisi, muscoli per quella
manovra non ce n'erano più, fatta eccezione per noi che formavamo
sul ponte un gruppetto sparuto. Il pensiero si fa forza, perché la
volontà lo vuole. Suo malgrado trasformato in eroe, il protagonista
fronteggia, per sé e per gli altri, la violenza del fortunale,
piegato, al tempo stesso, dall'onda incontenibile della colpa
commessa: “Io stavo in piedi tra i miei uomini come torre ferma,
inaccessibile al male, cosciente solo dell'infermità dell'anima
mia...”. La tempesta, infine, porta con sé il vento; e il vento
porta, non si sa come, la bella nave al suo porto. Il giovane
capitano ha vinto la sua prova: ma questo gli costa essere andato ben
al di là di quella impalpabile linea d'ombra, da cui pure era
partito. “Dovete essere molto stanco”, gli dice il Genio Giles,
responsabile in egual misura sia della sua fortuna sia della sua
disgrazia. No, risponde il giovane capitano: “Non stanco. Ecco,
capitano Giles, come mi sento: mi sento vecchio. E debbo esserlo
diventato. Tutti voi, qui a terra, mi fate l'effetto di giovincelli
spensierati che non hanno mai avuto preoccupazioni in vita loro...”.
Ma il giovane capitano ha già sbarcato il suo equipaggio malato ed è
pronto a riprendere subito, deluso ma non domo, il suo cammino con la
sua bella e sfortunata nave.
Come il lettore avrà
capito, La linea d'ombra è, innanzi tutto, uno straordinario
racconto d'iniziazione. Ciò di cui si tratta è il conseguimento
della maturità attraverso l'esperienza del destino. Ma, poiché
Joseph Conrad (nonostante il suo esotismo) è totalmente posseduto
dal demone della modernità, il senso della iniziazione non è
qualcosa, ma è nulla; o, per meglio dire, è la conquista di un
comportamento, che appare privo di scopo. Lo dice, con quel suo fare
accattivante e apparentemente mediocre, che tanto fa irritare il
giovane capitano, il Genio Giles proprio alla fine del racconto: “Ho
ancora una cosa da dirvi: un uomo deve sapere affrontare la cattiva
sorte, i propri errori, la propria coscienza. Del resto, con che
altro mai si dovrebbe lottare?”; e ancora: “Imparerete presto
anche a non scoraggiarvi. Un uomo deve imparare tutto. Ecco quel che
i giovani non vogliono capire...”.
In questo, il giovane
capitano di Conrad è fratello gemello del Tonio Kroger di Thomas
Mann: il marinaio e l'artista incredibilmente si assomigliano;
ambedue hanno per orizzonte un mare, che è in realtà una sconfinata
prigione: sul quale, navigando o fantasticando, non si può cercare
di ottenere nient'altro se non di essere fino in fondo se stessi. Non
più di questo, nel migliore dei casi. Si tratta, dunque, di una
storia di iniziazione inequivocabilmente, profondamente virile. Il
giovane capitano rappresenta proprio perché trasferito nell'
isolamento dell'esotismo orientale un campione insuperabile del
maschio occidentale al tramonto storico della sua supremazia. Da
questo punto di vista, non è per niente privo di significato che La
linea d'ombra porti come sottotitolo:Una confessione, e
sia stata scritta da un Conrad vecchio, a pochi anni di distanza
dalla sua propria morte, come rendiconto estremo dell'intera sua
opera. Il protagonista della Linea d'ombra è un Lord Jim
arrivato a misurarsi con l'universo: e l'epica malinconica e
struggente, di cui Conrad circonfonde discretamente la breve
avventura del suo personaggio, ha il senso preciso dell'ultima
ripresa d'una tradizione, la quale non può dirsi disperata solo
perché, per essere disperata, le manca ormai il senso attivo di ogni
possibile presa sul mondo.
Il sentimento del
possesso, che coincide con l'amore (“Una nave! La mia nave! Mia,
assolutamente mia, da possedere e curare più di ogni altra cosa al
mondo, un oggetto di responsabilità e di devozione”), sfuma
nell'indistinta contemplazione della morte, che circonda da ogni
parte la quieta, responsabile, non gridata angoscia della nostra
esistenza. Non resta che prender atto, come unica norma morale, di
ciò che si è e rispettarne per quanto è possibile il codice
astratto. A bordo di una nave si è marinai (come dentro una fortezza
si è guerrieri), e marinaio è già una categoria decente, che può
bastare, se non ce ne sono altre migliori a disposizione: “Lui ed
io eravamo marinai. Questo era veramente un giusto richiamo: io non
avevo altra famiglia...”; “L'istinto del marinaio sopravviveva
solo, intatto nel dissolvimento morale...”; “In lui era risorto
l'esperto marinaio. Non aveva bisogno di guida. Sapeva quel che
doveva fare. Ogni sforzo, ogni movimento, era un atto di eroismo. Non
stava a me sorvegliare un uomo talmente ispirato...”.
Mutatis mutandis, con la
storia del giovane capitano e dei suoi marinai (così degni per
sempre del suo rispetto), Conrad non fa che narrare l'ennesimo
episodio di quella gigantesca storia a puntate che è l'infinita
vicenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella quale si condensa
quanto di positivo (e di negativo) l'essere umano maschile ha creato,
nel senso dell'eroismo, all'interno dell'immaginario della cultura
occidentale: il sogno di una Grande Impresa, che si batte contro il
Nulla e finisce nel Nulla.
In quanto racconto d'
iniziazione, La linea d'ombra è anche, a modo suo, un
racconto morale (come ben sapeva Calvino, così innamorato di
Conrad). Ci sono uomini che non attraversano mai, in vita loro, la
linea d'ombra. Sorridenti, pacifici, tranquilli, mansueti,
soddisfatti oppure arroganti, cinici, prepotenti, isterici, persuasi
di sé essi non conoscono la rivelazione del nulla, su cui la linea
d'ombra schiude il suo misterioso orizzonte. Non conoscono la
stanchezza del pensiero, il senso ironico-tragico dell'esistenza, la
paradossale consolazione della malinconia, il fermento del dubbio,
che mette in forse ogni certezza. Conrad individua biologicamente la
linea d'ombra, come abbiamo ricordato, nella fase di passaggio tra la
prima gioventù e quella seconda gioventù, che apre le porte alla
maturità. Ma, da come lui stesso la descrive, c'è una linea d'ombra
per ogni età della nostra esistenza: essa è il cerchio stesso
dell'orizzonte, che si sposta davanti a noi man mano che ci
sforziamo, vanamente ma testardamente, di raggiungerlo. Ci sono
uomini che, in effetti, raggiungono e superano la loro linea d'ombra
molto presto; e altri che invece la raggiungono più tardi, quando il
rumore delle effervescenze giovanili si è da tempo placato. C'è chi
passa la propria linea d'ombra quando lascia la responsabilità che
aveva ricoperto, e c'è chi la passa quando l'assume. Ma in ogni uomo
degno, almeno una volta nella vita, questa linea viene oltrepassata.
E forse la oltrepassano anche i grandi gruppi collettivi, le nazioni,
le etnìe, le religioni. Conrad, con gli strumenti semplici e
possenti della sua immaginazione creatrice, ci dice: non c'è niente
da raggiungere, e bisogna sforzarsi di saperlo; ma per sforzarsi di
raggiungere il sapere del nulla, c'è bisogno di un grande sforzo,
che rende un poco migliori. Solo chi è disposto a compierlo, è
degno di rispetto.
“la Repubblica”, 22
marzo 1989
Nessun commento:
Posta un commento