Un padiglione di Tanexpo. la fiera dedicata all'arte funeraria che si svolge a Bologna |
Tutti defunti tranne i
morti. Contrariamente all’opinione comune, il mestiere più antico
del mondo non è la prostituta ma il becchino o – come viene
chiamato oggi – l’impresario funebre. Alla morte non c’è
alternativa, e chi lavora nell’industria delle esequie non si
troverà mai senza clienti. Almeno a vedere i dati: decessi stabili,
intorno ai 600 mila l’anno, e un Paese che invecchia tanto da
essere il terzo più anziano al mondo. Sembrerebbe la fotografia di
un settore che va a gonfie vele. Eppure anche si occupa dell’ultimo
viaggio è in difficoltà.
Colpa della crisi, della
mancanza di liquidità delle famiglie ma anche di un eccesso di
offerta causato da un mercato frammentato, composto in gran parte da
piccole imprese .
«Non esiste nessuno che
sia capace di operare in una dimensione sia pure regionale», spiega
a pagina99 Giovanni Caciolli, segretario dell’associazione di
categoria Federcof.it. «C’è qualche azienda che fa dai mille
servizi in su, poi ci sono le imprese di medie dimensioni che fanno
da 120 a 150 servizi funebri e poi c’è una miriade di piccole
aziende che fanno dai 10-15 servizi fino ai 100-120 all’anno».
Il mercato funebre, prima
relativamente chiuso, è stato liberalizzato dal 1998 per decisione
dell’allora ministro del commercio Pierluigi Bersani. Così il
numero di imprese funebri è passato da 3.000 a 6.000, mentre il
numero dei decessi non è aumentato in maniera significativa.
Aprire un’agenzia di
pompe funebri non è complicato: basta presentare la “segnalazione
certificata di inizio attività” (Scia) e una serie di
autocertificazioni. Tanto che oggi, dice Caciolli, «è facile
trovare chi svolge un’attività diversa e poi esercita anche il
mestiere di impresario funebre. C’è gente che fa il parrucchiere
così come ci sono casi in Calabria, che mi piace sempre citare, dove
ci sono pastori che hanno anche un’attività di pompe funebri per
integrare il reddito».
Probabilmente la “bolla
dei funerali” non è esplosa e il sistema regge anche perché
l’Italia funeraria si muove a due velocità: il sud privilegia il
“funerale di qualità” mentre al nord e nelle grandi città si
preferisce economizzare. Secondo gli studi di settore, un funerale in
media costa intorno ai 2.500 euro (c’è anche chi propone 1.000
euro ma spesso sono truffe) con una flessione di circa 200 euro
rispetto al passato. «Per ora il mercato tiene ancora, ma c’è una
tendenza generale al risparmio da parte delle famiglie», spiega
Carmelo Pezzino, direttore dell’organizzatissimo portale –
quattro redattori, due videomaker e altrettanti art director –
TGFuneral24, dedicato al mondo delle pompe funebri. Il punto
centrale, aggiunge Pezzino, «è una sempre maggiore concorrenza da
parte delle imprese che mirano a conquistare il mercato imponendo
prezzi al ribasso».
Le agenzie riescono
ancora più o meno a reggere la sfida, ma lo stesso non si può dire
per l’indotto: il mercato dei “cofani” (o più comunemente
dette bare) da qualche tempo arranca. Le aziende oggi sono 5 mila –
contro le 24 mila della fine degli anni ‘80 – e le bare italiane,
famose ed esportate in tutto il mondo, si trovano in difficoltà
proprio “in casa”. È in Italia infatti che devono vedersela con
la concorrenza di bare low cost provenienti da Cina, Est
Europa e Sud America . Si tratta di prodotti di qualità nettamente
inferiore, realizzati con legni più leggeri ma molto meno costosi
rispetto al prodotto nazionale.
Poiché come tutti i
mercati anche quello funebre risente del potere d’acquisto dei suoi
clienti, in tempi di crisi è naturale che le bare economiche abbiano
un certo successo. Un “cofano” proveniente dalla Cina costa
120-140 euro all’ingrosso e – dato che non è obbligatorio
dichiarare la provenienza al cliente – garantisce anche un certo
ricarico all’impresa di pompe funebri. A voler spendere poco è
soprattutto chi sceglie di far cremare i propri cari, una opzione in
crescita. Non si tratta più solo di una scelta intima: la cremazione
è oggi anche una scelta economica, che tiene conto di altri costi
legati alla morte, come ad esempio quelli cimiteriali, decisamente
elevati nelle grandi città. Così molti preferiscono la più
economica cremazione e scelgono forniture più scadenti «nell’errata
convinzione che tanto la cassa viene bruciata», spiega a pagina99
Alessandro Bosi della Feniof (Federazione Nazionale Imprese Onoranze
Funebri), la più grande e importante associazione di categoria. Una
percezione curiosa per Bosi: «Il tempo di esposizione al pubblico è
identico ed è lì che conta il maggiore o minore pregio della bara,
non nella destinazione finale».
Se i soldi non ci sono,
si ricorre al più diffuso metodo per rivitalizzare gli acquisti cioè
la rateizzazione del funerale, come se fosse il frigorifero o l’auto
nuova: «Non è cosa inedita, oggi si usa di più perché le famiglie
fanno più attenzione a come spendono i soldi. Però in molti Paesi
d’Europa è una pratica comune», spiega Caciolli, che sottolinea
però un altro aspetto. «Quello che oggi sta aumentando è la
difficoltà a pagare il servizio funebre. Prima il contenzioso sui
servizi funebri era cosa abbastanza rara, se non ce la faceva la
famiglia si faceva la colletta. Oggi, sia pure in misura minore
rispetto ad altri settori, comincia a essere presente anche questo
elemento di difficoltà».
Ma se il mondo delle
pompe funebri è impegnato in una gara al ribasso come vive chi ci
lavora? Teoricamente esistono due contratti nazionali che
stabiliscono sei livelli di assunzione, che vanno dalla paga base di
1.100 euro per un operaio fino ai 1.700-1.800 per chi ha ruoli di
competenza come quello di direttore tecnico. Per legge, infatti, un
impresa di pompe funebri deve avere una sede e un direttore tecnico,
la disponibilità di un carro funebre e di quattro necrofori. Ma se
sede e direttore tecnico sono obbligatori, per il resto si può
stipulare un contratto di fornitura con un centro servizi che mette a
disposizione il carro e il personale. Un sistema questo che favorisce
la creazione di un’area di lavoro grigio fatto di cooperative e
centri servizi che forniscono lavoratori fuori dal contratto
nazionale, come spiega Pezzino di Tgfuneral24: «Ci sono tanti
operatori che utilizzano personale in nero, pagato con voucher o non
adeguatamente formato».
Nonostante questo,
lavorare in un impresa di pompe funebri – possibilmente grande –
sembra essere il sogno di molti. «È un settore dove c’è una
continua richiesta di accesso, sopratutto come necroforo o autista»,
dice Bosi della Feniof. Un tempo era un mestiere di famiglia, che dal
titolare si allargava ai parenti e che prevedeva la gavetta in
azienda. Ora le cose sono cambiate. «Da alcuni anni vediamo ragazzi
pagarsi i corsi professionali che possono dare un accesso
all’attività. Sono convinti che un impresario di pompe funebri
preferisca scegliere chi è disponibile da subito, piuttosto che
qualcuno su cui dover investire denaro e tempo per la formazione».
Becchino, nella crisi del
lavoro, non è più un insulto.
Pagina 99, 1 aprile 2017
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