8.5.17

Sinesio l'Africano, allievo di Ipazia (Lidia Storoni)

Il vescovo Sinesio in una miniatura del XII secolo
Anche per chi abbia fatto il liceo classico, il termine mondo antico evoca tutt'al più i nomi di Cicerone, di Cesare, di Nerone: figure emblematiche, esponenti significativi d'un momento storico e d'un sistema. Ma esistono anche personaggi inquieti e contraddittori, attardati o precursori, vissuti in epoche di trapasso; uomini e donne tormentati, insicuri, spesso sbalzati loro malgrado ad assumere ruoli ai quali non erano preparati; esseri umbràtili e pensosi, dominati dall'ansia del divino, da una sete d'assoluto, eppure costretti a farsi politici e soldati, pastori di popoli in senso non solo spirituale, ma anche in quello di patroni e mediatori tra gli umili e i governi.
Appartengono a questa categoria le figure straordinarie dei laici eletti vescovi a furor di popolo nelle ore della tormenta, per il loro prestigio, la posizione sociale, la fermezza di cui avevano dato prova nel pericolo: come sant'Ambrogio, sant'Agostino, san Dionigi di Auxerre. Non ancora battezzati né pienamente convertiti, riluttanti ad assumere l'onere della carica, lacerati tra i doveri del secolo e lo struggente desiderio di Dio che li dominava per reazione ai torbidi riti iniziatici dell'ultimo paganesimo e a quella desperatio veri diffusa nel pensiero laico tardo antico; seguaci, per appagare l'inclinazione mistica, del neoplatonismo, filosofia dell'élite intellettuale.
A questo gruppo di spiriti religiosi in conflitto con se stessi appartiene una figura singolare e affascinante, quella di Sinesio di Cirene (l'Utet ne pubblica le opere in un eccellente volume a cura di Antonio Garzya, pagg. 821 più indici e bibliografia). Nato nel 370 d.C. in una ricca famiglia dell'alta borghesia di Cirene, Sinesio apparteneva alla classe dei curiales, una carica obbligatoria ed ereditaria, tanto pesante che il Codice teodosiano in 117 decreti ne formula i doveri e il divieto di sottrarvisi. Il curiale, amministratore non retribuito, doveva provvedere spesso a sue spese alla manutenzione delle opere pubbliche, all'esazione delle imposte, alla giustizia e alla difesa. E proprio nell'organizzare la difesa della Pentapoli (l'area più fertile dell' Africa, di antica cultura greca, così chiamata perché formata da cinque città), Sinesio aveva dato prova di coraggio e di autorità; il territorio era infatti funestato da continui attacchi da parte dei nomadi dell'interno che spesso, non contenti di devastare le proprietà, catturavano donne e bambini (non li chiamerei neppure nemici, scriveva Sinesio al fratello, ma ladroni, banditi e, se esiste, userei un termine ancor più abbietto...). Alcune lettere di sant'Agostino trovate pochi anni fa nella Bibliothèque Nationale di Parigi rivelano la sollecitudine del contemporaneo vescovo d'Ippona per quegli sventurati che, catturati e rinchiusi nella stiva delle navi, rischiavano d'esser venduti schiavi nei mercati d'oltremare, nella totale impotenza della polizia imperiale. “Tutta la provincia - scriveva Sinesio in un'operetta intitolata Catastasis - è avviluppata dai barbari come da una rete... are e sepolcri sono violati, chiese distrutte, altari usati per la mensa, vasellami sacri per usi demoniaci...”.
Il prestigio di Sinesio, la sua oratoria, le doti letterarie di cui dette prova in varie opere indussero il Senato della Pentapoli, nel 399 d.C., ad affidargli un incarico di grande impegno: recarsi a Costantinopoli ed esporre all'imperatore d'Oriente, il torpido Arcadio figlio di Teodosio il Grande, le istanze delle popolazioni africane afflitte dalle incursioni berbere, dall'inflazione, dal frequente flagello delle cavallette e, soprattutto, da un fiscalismo intollerabile. L'orazione che il giovane pronunciò al cospetto del sovrano (nota con il titolo Epì basilèias o De regno) è un breve trattato sul potere monarchico, i suoi limiti, i doveri che esso comporta; discende da una tradizione antichissima, dal De republica di Platone e di Cicerone, dai panegirici dei rètori gallici, da quelli di Dione di Prusa e Plinio per Traiano, di Elio Aristide per Antonino Pio. Spesso si elogiava il principe non per le virtù che praticava, ma per quelle che si auspicavano in lui; lo si ammoniva a mostrarsi mite, casto, frugale, valoroso, accessibile, severo con se stesso, alieno dall'imporre tasse e corvées, vero pastore, nocchiero della nave, padre sollecito dei sudditi. Ma dietro questa descrizione di maniera, c'è il pensiero dell'oratore e del suo partito, nutrito di una profonda ostilità vero i Goti, che ormai esercitavano gli alti comandi nell'esercito d'Oriente, mentre il visigoto Alarico comandava le armate d'Illiria e il vandalo Stilicone spadroneggiava in Occidente, in qualità di Capo di Stato Maggiore, console, suocero dell'imperatori Onorio.
L'orazione è ispirata a un acceso nazionalismo, alla speranza che l'imperatore riesca a estromettere i barbari e a costituire un esercito composto di soli sudditi dell'impero: era questa la tesi dei conservatori, memori delle antiche glorie, un programma suggestivo e utopistico condiviso dall'imperatrice Eudossia e dal patrizio Giovanni suo amante (il vero padre, si diceva, dell'erede al trono). Salito al potere nel 400 il capo della corrente anti-barbarica, Aureliano, a Costantinopoli ebbe luogo un massacro di Goti e la caduta di coloro che, nostalgici della politica assimilatrice del defunto Teodosio, erano favorevoli alla preponderanza germanica nella compagine dello Stato. Di lì a pochi anni quella corrente (sostenuta dalla Chiesa, perché i Goti erano bensì cristiani, ma seguaci dell'eresia di Ario) riuscì a imporsi anche in Occidente: nel 408 Stilicone, ultimo difensore della penisola mentre l'Europa era tutta invasa, fu decapitato a Ravenna. Ciò provocò la calata di Alarico in Italia e, dopo due anni di assedio, il sacco di Roma; evento clamoroso per l'emozione che suscitò più che importante dal punto di vista politico o militare (410 d.C.).
In Sinesio, gran signore e uomo di cultura, convergono le tendenze più significative del tempo. In lui si riscontra soprattutto quella lenta adesione alla Chiesa che non si può chiamare conversione come illuminazione e ripudio del passato, ma evoluzione graduale, non immune da incertezze, riserve, ambiguità. Circa un secolo dopo l' Editto di Milano (313 d.C.), il conflitto tra paganesimo e cristianesimo si svolse in forma paradigmatica nella sua coscienza. Eletto inopinatamente vescovo di Tolemaide, Sinesio sperimentò dolorosamente il passaggio dal neoplatonismo al cristianesimo. Paul Courcelle ha riscontrato, con i testi a fronte, la derivazione da Plotino di molti scritti di Sant'Ambrogio; Sant'Agostino a sua volta, nelle Confessioni, riconosce l' influenza esercitata su di lui da alcuni libri neoplatonici, vale a dire dalle Enneadi di Plotino. Interessato alla scienza, alla matematica, forse anche all'alchimia, Sinesio aveva fatto del neoplatonismo la sua religione. Quella dottrina consisteva in uno struggente desiderio di Dio, un percorso graduale verso la contemplazione e l'estasi, che doveva svolgersi in un progressivo distacco dalla materia, ripercorrendo in ascesa il cammino che l'anima ha compiuto quando, scintilla della luce divina, è caduta sulla terra e, di pianeta in pianeta, ne ha assorbito i vizi. Ma il neoplatonismo, dottrina d'élite, non conosceva l'umiltà, la desolata indigenza del cristiano, la sua carità: Sinesio aveva ancora molta strada da percorrere e se ne rendeva conto.
In una lettera al fratello del 410, anno della sua elezione, si dichiarava totalmente incapace di adeguarmi alla santità del ministero; tra gli ostacoli che elenca, riconosce una certa pigrizia, l'amore per la moglie, l'inclinazione per il raccoglimento e lo studio, l'affetto per i cavalli e i suoi amatissimi cani, ammissione insolita in un uomo del suo tempo ma, soprattutto, difficoltà di carattere dottrinario: “chiamato all'episcopato – scrive - non fingerò di credere in dogmi in cui non credo...”. Ad Alessandria, che anteponeva ad Atene come centro di pensiero e di cultura, Sinesio era stato alunno d'una singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia, Ipazia, che aveva ereditato la cattedra dal padre: figura d'un candore abbagliante, che viene descritta bellissima e severa, coerente con le sue convinzioni fino al martirio. Fu massacrata, infatti, da fanatici cristiani che strappatele le vesti, la dilaniarono con grosse conchiglie taglienti (415 d.C.). Nel 413 Sinesio, colpito dalla morte dei tre figli, le scriveva: ho perduto i figli, gli amici, ma la perdita più grave è la mancanza del tuo spirito divino, la sola cosa che avevo sperato mi rimanesse per sopportare i capricci della sorte e i raggiri del fato.... L'ultima sua lettera, poco prima della morte (413 d.C.) è indirizzata ancora alla venerata maestra: “Detto questa lettera dal letto dove giaccio: possa tu riceverla in buona salute, madre, sorella, maestra... la mia debolezza dipende da ragioni psichiche: il ricordo dei figli che non sono più mi consuma...”.
Tutto crollava attorno a lui: l'Europa invasa, il suo paese devastato (“respiro un'aria inquinata dalla putrefazione dei cadaveri... il cielo è coperto dalla fosca ombra degli uccelli da preda; eppure, anche in questo stato, amo la mia patria. E che altro potrei, Libico quale sono, nato qui, avendo sotto gli occhi le tombe dei miei antenati?...”). Gli fu risparmiata la notizia della morte atroce di Ipazia e, di lì a pochi anni, l'invasione dei Vandali. Chissà che lui pure, negli ultimi istanti, non abbia ricordato le parole di Plotino che furono udite mormorare da sant'Agostino, mentre si spegneva in Ippona assediata: "il saggio non si sgomenta se cadono colonne e travi; poiché la Città non è fatta di mura, è fatta di cittadini...".


“la Repubblica”, 27 maggio 1989  

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