4.5.17

Temeraria 500. Avventure e viaggi sull'utilitaria del secolo scorso (Domenico Starnone)

Sono stato proprietario di una sola automobile, in vita mia. Era una Fiat 500 L, bianca, targata PZ58517. La comprai nel 1971 per necessità. Fino a quel momento avrei giurato che nel corso dell’esistenza non mi sarei concesso lussi di nessun genere. Fu il mio primo cedimento. Invece, mentre Allende concepiva il proposito di nazionalizzare le miniere cilene, io, che facevo l’insegnante e guadagnavo centocinquantamila lire al mese con moglie e figli a carico, decisi di acquistare una Cinquecento, che costava settecentomila e passa. Abitavo a Viggiano e insegnavo nella locale sezione staccata del liceo classico «Quinto Orazio Flacco» di Potenza. Viggiano è un bel posto in cima a una montagna, all’inboccatura della valle dell’Agri: un eden. La gente si spostava per l’eden o a dorso di mulo o in automobile.
Dopo molti tentennamenti, optai per l’automobile. Prima di firmare cambiali, pensai a lungo: sono pazzo, che sto facendo?
La Cinquecento mi era già molto familiare. Era stata la prima vettura in uso nella mia famiglia di appiedati, alla fine degli anni cinquanta. Riuscivamo a entrarci in sette: padre, madre, cinque figli. Era resistente. L’oblò posteriore, incorporato nella capote, era plastificato. Temevamo sempre che la carrozzeria si ammaccasse, il motore si rompesse, dissipassimo i nostri risparmi. Ma eravamo fieri del numero spropositato di chilometri che faceva con un solo litro di benzina. Solo mio padre era un poco amareggiato perché ci sorpassavano tutti. Una volta una grossa pietra riuscì a incastrarsi tra ruota e parafango e l’auto non si mosse più. Un marinaio americano di passaggio sollevò la nostra automobile da solo e la scosse. Tememmo che ce la rompesse; invece la liberò del sasso. Per anni ho pensato che l’impresa del marinaio fosse stata una cosa da film. Ma quando divenni proprietario di Cinquecento, scoprii che la poteva sollevare chiunque.
Acquistai l’auto da un concessionario di Potenza. Mi convinse a non prendere la «nuova cinquecento», quella «normal». Volle che preferissi quella «special» categoria L. «L» stava per lusso e avere la Cinquecento L. dava al proprietario un’aura che la «normal» non gli dava. Decisi che se avevo fatto trenta potevo fare trentuno. Pensai che i miei alunni avrebbero sghignazzato di meno, se mi avessero visto in Cinquecento L. Poi mi accorsi che la L aveva solo certi tubicini arrotolati ai lati del parafango anteriore e di quello posteriore. Ma ormai l’acquisto era fatto.
Avevo preso la patente in età avanzata, a ventisette anni, ma al primo colpo, senza ripetere l’esame. Era stato un grave errore degli esaminatori di Viggiano, che avevano pensato che, se uno fa il professore, presto o tardi impara anche a guidare. Falso. Sebbene professore e patentato, non sapevo guidare, non so guidare, non guidavo volentieri, non guido volentieri. Avevo optato per la Cinquecento anche perché avevo pensato che, essendo piccola, doveva essere anche un marchingegno semplice. Invece amici e parenti si affrettarono subito a spiegarmi che la Cinquecento era la macchina più difficile da portare. Se uno riusciva a giostrare con quella, poteva guidare un aereo.
La cosa più complicata da fare era la «doppietta». Fratelli, cognati, cugini erano tutti professori in materia. Mi fecero schemi chiari di tutte le operazioni, sia oralmente che per iscritto. Dunque. Il cambio non era sincronizzato. Per passare da una marcia all’altra, bisognava in pochi secondi: a) abbassare la frizione; b) portare il cambio a folle; c) dare un bel colpo di accelleratore; d) ingranare la marcia; e) togliere il piede dalla frizione. Io a stento sapevo dov’erano i pedali. Quando la macchina cominciava a muoversi, ero vinto da un tale incantamento, che quel poco che avevo imparato lo dimenticavo. Già mi era difficile pensare che potessi fare qualcosa coi piedi alla cieca, senza gettare uno sguardo sotto lo sterzo. Figuriamoci se ero in grado di fare velocemente tutte quelle operazioni da ballerino di tip tap, tra l’altro con l’auto in movimento. La folla dei miei insegnanti diradò. Pochi abbandonarono gli schemini e si imbarcarono in una lezione pratica. Quei pochi non passarono mai a una seconda lezione, ma diedero per spacciata l’automobile e me, e sparirono. Grattavo. Rovinavo il cambio. Agghiacciavo il sangue nelle vene dell’autista provetto. In curva, quando scalavo le marce, rischiavo sempre di finire fuori strada per colpa della «doppia». Una volta ci sono finito sul serio, con qualche danno. Alla fine l’auto si abituò a scalare le marce con un’impennata, un raschio e un tonfo da pugno al torace.
E misteriosamente sopravvisse.
Non mi ricordavo che mettersi in Cinquecento significava sedersi per terra. Quando mi infilavo sul «sedile» posteriore di quella di mio padre, ero un ragazzino e tutto mi pareva accettabile. Ma nel 1971 ero altro un metro e ottantasette. Sedersi al posto di guida era inabissarsi. Calavo su un sedile rosso, incastravo le gambe sotto il cruscotto, impugnavo un cerchietto meschino di colore beige collocato a pochi centimetri dallo sterno (era il volante), sistemavo il cranio contro la stoffa della capote, che in poco tempo si era arcuata secondo la forma della testa. Così accomodato, persone e oggetti diventavano di proporzioni enormi. Regolavo con cura lo specchietto retrovisore, anche se dall’oblò posteriore non si vedeva niente, specialmente quando qualcuno andava a soffrire sul «sedile» di dietro. E partivo. D’inverno il vetro era sempre appannato. Con una mano tenevo il volante e con l’altra davo colpi di pezzuola. Viaggiavo alla cieca. E infine: come mi sgomitolassi dall’auto era una cosa a cui i miei alunni assistevano con sempre meno entusiasmo.
I viaggi fuori della Val d’Agri erano avventurosi, in particolare nella cattiva stagione. La pioggia e il freddo rendevano la visibilità zero. Il riscaldamento era assicurato da una levetta a terra, alle spalle del guidatore. Faceva una puzza da stroncare lo stomaco. Le volte che altre auto più potenti, targate Pz, mi sorpassavano tra nebbia e vento, su per le montagne, strombazzavano con entusiasmo. In seguito scoprii che i claxon servivano a festeggiare incontri veloci tra compaesani. Ma, date le condizioni di guida, per un po’ pensai che incoraggiassero la mia audacia.
Il godimento del rischio era assicurato soprattutto sull’autostrada del sole, tratto Contursi-Polla. La Cinquecento era un’auto resistente, che una volta avviata rasentava gli 80 senza disinvoltura, con un rombo assordante di motore allo stremo. Vibrava la carrozzeria, cigolava ogni bullone, a ogni lieve asperità dell’asfalto rischiavo di bucare col cranio il telo della capote. Ma la vettura svelava una sua eroica capacità di tenuta.
L’essenziale era non finire dietro un camion. Allora occorreva rallentare, perdeva energia e per riprendersi ce ne voleva. Sicché mi concedevo qualche sorpasso di automezzo con rimorchio, di quelli sovraccarichi e lenti: non conoscevo altra necessità di sorpasso. Il peggio era quando mi vedevo costretto a superarli sui viadotti nei giorni di pioggia e di vento. Si sa che i camion hanno enormi ruote, ma la loro mostruosità è visibile a pieno solo dall’interno di una Cinquecento in fase di sorpasso. Con l’acceleratore pestato fino in fondo, sotto le raffiche di vento che spingevano l’auto contro la fiancata del camion, con l’acqua mista a fango sollevato dalle gomme enormi fino a polverizzarsi nell’aria e sbattere insieme alla pioggia contro il vetro come una serie di sferzanti secchiate, cercavo di portare a termine sorpassi eterni, fianco a fianco per chilometri con camion cocciuti, i denti stretti che sembravano non solo trattenere la vita a rischio, ma anche la carrozzeria, i pistoni. Invocavo non Agnelli, nel quale non avevo alcuna fiducia, ma le ombre degli operai. E speravo che, malgrado lo sfruttamento, avessero avvitato bulloni con coscienza. Auspicavo che salvassero le vite dei miei figli e non facessero ai miei alunni il dono del mio cadavere.
Non sono morto. E malgrado tutto, penso alla Cinquecento con affetto. I rischi corsi insieme alla fine avevano creato un certo affiatamento. Qualche volta cedeva, è vero. Una domenica d’inverno mi lasciò poco dopo Contursi con i giunti spaccati, sotto la neve. E un’altra volta, d’estate, si spezzò la cinghia della ventola nel deserto sotto S. Chirico Raparo, tra Viggiano e Policoro. Me la cavai tutt’e due le volte. Le cose cominciarono a peggiorare solo alla fine degli anni 70, quando fui trasferito in un centro urbano di cospicue proporzioni. Allora scoprii che i ladri l’amavano. Non tutta: a pezzi. Forzavano il deflettore, ma più spesso, tagliavano la capote con taglio a forma di sette. Nel 1977 mi portarono via i sedili. Per settimane, fino a quando non trovai da sostituirli presso uno sfasciacarrozze, guidai seduto su un secchio «Moplen» rovesciato che tenevo ben fisso al pavimento facendo pressione con la testa contro la capote. 
Alla fine me la rubarono per intero. La ritrovai in un rugginoso obitorio per veicoli, dove la polizia l’aveva depositata. C’era solo la carcassa. Pagai centomila lire perché un killer con canottiera e catena d’oro massiccio al collo la maciullasse definitivamente.

"il manifesto", 28 aprile 1990

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