5.5.17

E Dio si fece storia. I molti nomi di Cristo (Alfonso M. Di Nola)

San Sepolcro, Museo civico, Il volto del Cristo nella "Resurrezione" di Piero della Francesca
«Titolature» del Cristo sono, nel linguaggio teologico di origine tedesca, le differenti denominazioni con le quali Gesù di Nazareth, nell’alveo della sua predicazione palestinese e, poi, nello sviluppo storico fino alla Riforma e Controriforma fu riconosciuto e chiamato: Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio, rabbi, profeta, Re del mondo, Messia, Redentore, Salvatore e altri nomi analoghi si costituiscono in una costellazione terminologica che rispecchi le prospettive molto differenziate con le quali gli uomini e i gruppi lo hanno considerato.
Questo nuovo libro su Gesù dell’esegeta statunitense Jaroslav Pelikan (Gesù nella storia, Bari, Laterza, 1987, con prefazione di Sergio Quinzio) fonda proprio sulle diverse ideologie sottostanti alle titolature una documentata escursione attraverso le modalità storiche che nei secoli, hanno riversato nella figura originaria nel predicatore ebreo caratteristiche distanti e particolari, così che l’unico Gesù della breve narrazione evangelica si ricostruisce nei molti Gesù generati dal tempo e rispondenti a visioni del mondo ogni volta diverse. Né questo cumularsi di polivalenze si inserisce soltanto in una cadenza di successivi ritmi epocali, obliterando l’una immagine sorgente, l’altra già storicamente strutturata, ma sembra verificarsi un progressivo arricchimento, fino al punto che diveniamo eredi dei molti Gesù che ci precedono. È, tuttavia, evidente che la varietà delle concezioni politiche e religiose si risolvono in un’accentuazione di quella e di questa caratteristica: il Gesù di Lutero, pur conservando l’intera serie di titolature consolidate precedentemente, non è il Gesù dei gesuiti, né quello di Giovanni XXIII.
Pelikan, in sostanza, riduce a sostanza storica una tesi che fu già cara al cardinale Suhard e che fu da lui annunziata più volte dal pulpito di Nostra Signora di Parigi: la tesi dell'incarnazionismo storico, secondo la quale il mistero centrale accettato da cristiani sta nell’aver assunto Dio carne umana nel Figlio unigenito (incarnazione in senso stretto), ma si sviluppa anche come discesa del corpo incarnato nei tempi e nelle condizioni differenti delle umane culture. «Ogni tempo ha fatto suo» è detto nella fonte neotestamentaria, e cioè, pur restando prima e fuori del tempo nella prospettiva teologica definita da Paolo, Gesù diverrebbe ipostasi storicizzata, variante sostanza culturale, nella quale i gruppi umani riconoscono le loro ansie e i loro fermenti ideologici. L’opera, che raccoglie una serie di conferenze tenute dall'autore alla Yale University, ma ricomposte in un discorso organico e conseguente, segue il filo della tesi dell’incamazionismo storico in un impegno espositivo diretto al grande pubblico e retto da un’evidente fede religiosa: Gesù non è soltanto, per Pelikan, la figura umana con la quale crocianamente dobbiamo fare i conti, ma anche un’irruzione eccezionale del divino nel piano umano e la sintesi finale di ogni aspirazione storica, l’aldilà della storia che diviene modello e magistero.
La sintesi tocca, nella prima parte, la figura del giovane palestinese che, documentata da Paolo e, poi, dai testi evangelici e neotestamentari, opera nella sua ebraicità non conformista, seguendo la linea contestativa degli antichi profeti, tuttavia rigorosamente osservante della norma religiosa del Tempio. Profeta, come quegli che parla annunziando la parola di altri, ossia di Dio (il termine greco «profeta» ha la sua radice in un verbo che significa «parlare al posto di», ben distante, come grecismo, dal valore semitico del corrispondente termine nabi, navi), Rabbi, rabbenu, come «maestro», Messia che accoglie la tradizione anticontestamentaria dell’unzione regale (mashiah significa «unto» e corrisponde alla traduzione greca Christos), Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio, che sono appellativi comuni del genere umano nel linguaggio ebraico, Signore, sono i segnali lessicali che indicano i modi secondo i quali i gruppi palestinesi, cui la predicazione era diretta, percepirono l’immagine dell’annunziatore.
Ma, uscita dal ristretto ambito della patria di origine, la figura viene progressivamente a perdere i suoi tratti giudaici. Si apre il pesante problema della estensione del messaggio ai gentili, già oggetto di aspro dibattito di epoca apostolica, e la tensione si svolge a un’opera di giustificazione della storia antica. L’apologetica prima la sottopone ad un’aspra condanna, secondo al quale gli dei delle genti sono epifanie diaboliche, e poi scruta nel tempo pagano i segni di una preparazione all’annuncio, i fermenti profetici che esprimono l’attesa di un mondo nuovo. Accanto al palinsesto definitivamente accettato delle profezie dall'antico Testamento vengono cristianizzate e adattate alle esigenze apologetiche molte immagini della paganità: da Virgilio la cui quarta Ecloga viene reinterpretata come annunzio messianico, agli Oracoli sibillini, alla filosofia platonica e neoplatonica, che modificheranno radicalmente i contenuti dei primo messaggio. Gesù diviene platonicamente Verbo, Parola, Nous, mentre i miti dell’antichità in via di disfacimento sono riletti e capovolti: Odisseo, legato all’albero della nave per sfuggire all’incantesimo delle Sirene, si trasforma, in Clemente di Alessandria, il maggiore ellenizzatore del kerygma primitivo, in una prefigurazione del Cristo crocefisso.
Ma andrei ben oltre, in notazioni non presenti nel libro di Pelikan. Gli stessi testi evangelici vengono sottoposti ad un’esegesi utilizzata ai fini della documentazione di una centralità della parola evangelica, e le Genti sono rappresentate come in un’attesa ansiosa della rivelazione fin dall’abisso del tempo. Fulgenzio di Ruspe ricostruisce in questo senso la scena della natività, nella quale accanto al luogo della nascita, sono i pastori e i magi; gli uni, egli dice, a rappresentare gli Ebrei, gli altri le genti pagane, cui i loro profeti avevano preannunziato l’avvento. Mi sembra che proprio in questo processo di qualificazione del messaggio come nucleo della storia e del le culture, sia anche da individuare la forte carica etnocentrica del Cristianesimo, che già nella leggenda dei primi secoli, riduce le diversità culturali a pallide ombre vaganti in un’incerta attesa dell’unica verità rivelata in Galilea.
Prorompe e si afferma nella fase successiva, quella costantiniana, la titolatura di Re dei re, prima in opposizione ai diritti del cesare terreno, cui si sostituisce il Re invisibile e universale, poi nella sottile dinamica di legittimazione del potere ecclesiastico, che trasmette all’imperatore l'investitura divina trasferita da Dio al Cristo, da questi al pontefice romano, dal pontefice alla gerarchia feudale. Sono i terreni ideologici che preparano la costantinizzazione del messaggio evangelico e segnano la sua netta distanza dagli autentici valori di origine. La regalità divina si conforma in regalità politica e si giungerà al Dictatus papae, nel cui primo articolo è proclamato che tutti i re e principi della terra devono baciare il piede del pontefice romano, riconoscendolo come suprema autorità.
Parallelamente si delinea la fine teologia del Cristo cosmico, come spiegazione metafisica e ontologica della realtà e delle epoche, sulla base di tematiche già chiare nel pensiero paolino; nel quale il Cristo è prima di tutte le cose e tutte le cose sussistono in lui. Il Logos platonico è la chiave di struttura dell’universo. Ormai il semplice annunzio palestinese è divenuto speculazione filosofica. Né avrei trascurato, in questa fase dell'analisi, che ha il suo pendant iconografico nel Cristo Signore del Mondo (il Pancrator), alcune interessanti motivazioni che appartengono alla teologia cosmica e che, radicate in alcuni passi dell’Epistola ai Romani di Paolo, si rappresentano l’intera natura come attraversata dalle doglie del parto in attesa della rivelazione del Figlio dell’Uomo per essere riscattata dal peso del decadimento cui la portò il peccato dell’uomo.
Intanto, per soffermarci su alcuni aspetti interessanti dell’opera, il Cristo diviene anche il prototipo modulare della vita monastica, nella quale l’anacoreta o il cenobita realizzano una vera e propria imitatio Christi, insistendo sugli aspetti ascetici, sessuofobi e rinunziatari del primo messaggio: si fa incidente il comando di perfezione, che comporta, nel detto evengelico, l’abbandono della famiglia e dei beni, diviene pressante una purezza sessuale che è già condensata nel passo evangelico sull’eunuchismo come scelta privilegiata. Come «Sposo dell’Anima» Gesù alimenta le grandi correnti della mistica, che recupera i significati allegorici del Cantico dei Cantici e che si diluisce nelle innumeri forme di un’esperienza che raggiunge l’estasi e la totale nullificazione del Sé nel modello divino, «principe della Pace» per definizione, Gesù origina la dura controversia sulla legittimità della guerra e del servizio militare, cui i primi cristiani, pagando in proprio, costantemente si sottrassero. Le ambagi delle teologie avanzeranno l’inganno della cosiddetta «guerra giusta», con la quale si legalizzano la violenza e l’assassinio collettivo. Ed è questa la piaga cocente di un Cristianesimo che, seppellendo le sue prime istanze pacifiste, è riuscita ad adattarsi agli eccidi delle Crociate e alla benedizione degli eserciti.
Né va dimenticato il Cristo liberatore, come il protagonista storico della rivoluzione della prima soppressione della schiavitù, già riconosciuta da Engels come sicuro merito della nuova religione nel mondo antico. Ed è pure vero che dalla originaria proclamazione della illegittimità della schiavitù si passa a pesanti accomodamenti: verrà accolto da parte dei teologi il diritto di avere schiavi, verranno organizzate le grandi cacce agli indigeni nell’epoca dello schiavismo, e fino a un secolo addietro la servitù della gleba, non soltanto in Russia, perpetuava una condizione di imponente reificazione dell’uomo. Infine si presentano particolarmente acute le notazioni sul Gesù degli Illuministi e dei Deisti inglesi, un Gesù ora ricondotto alla sua dimensione storica, ora spogliato di ogni soprannaturalità e sollevato a ragione di una religione naturale che è presente nello spirito umano.
In ultima analisi questo di Pelikan è un bel libro proprio perché, pur restando l’autore radicato al suo credo religioso, storicizza decisamente un Gesù che la teologia aveva cristallizzato in una extratemporalità metafisica e lo riconduce alle passioni della storia quotidiana dell'uomo. Le cadenze dell’analisi riguardano, tuttavia, il livello colto o dotto della grande avventura cristiana, dalle controversie trinitarie, finemente esaminate, a quelle trattazioni della teologia cosmica, che non saprei quanto abbia toccato le folle. Non esistono anche altri Gesù, qui dimenticati o taciuti certo non intenzionalmente? Il Gesù, per esempio, che divenne, in epoca recente, il fermento sconvolgente dei nativismi e degli anticolonialismi dei popoli del Terzo mondo; o il Gesù dei poveri, dei contadini dei pastori, vissuto come un fraterno compagno della sofferenza e della speranza? O la storia cristiana si diluisce soltanto nella grandeur dell’egemonia culturale?
Il libro è corredato da fotografie di interesse iconografico attinente alle varie titolature. Qui e lì qualche fallo di stampa, come un curioso «sciita» (che è il fedele della divisione islamica della Scia), con il quale, a pag. 39, si intende indicare «scitico», come nome di origine del monaco Dionigi il Piccolo.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987

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