4.6.17

Il Cardinal della Grammatica. Pietro Bembo: l'alloro e la porpora (Lorenzo Tomasin )

Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo, particolare
A Pietro Bembo, uno degli autori centrali del nostro Rinascimento, arride da qualche tempo una fortuna che potrebbe riscattarlo da un lungo oblio, o almeno da una posizione ingiustamente defilata. Sebbene il suo peso per la storia della lingua e della letteratura italiane non sia affatto inferiore rispetto a quello di altri giganti del Cinquecento, come Ariosto o Machiavelli, di fatto la sua presenza nella cultura degli italiani è stata spesso piuttosto defilata, come mostra il ruolo generalmente subalterno che egli ha, ad esempio, nei programmi scolastici.
Credo che una parte di quella che chiamerei sfortuna scolastica – o come si direbbe in altri campi, scarso successo di pubblico – del cardinale veneziano dipenda dal suo essere il capostipite della poesia petrarchista. Cioè di un genere che i moderni hanno spesso faticato ad apprezzare, e i contemporanei trovano generalmente incomprensibile. Ma la ragione principale della sua sventura è certo l’essere autore di una grammatica, e non importa se si tratta della prima grande grammatica della lingua letteraria, pietra miliare nella riflessione sull’italiano e nella sua stessa definizione come lingua letteraria. Si sa, la grammatica è un genere di per sé ostile alla sensibilità degli studenti, ai quali pare non basti neanche richiamare il fatto che la parola glamour è appunto una deformazione di grammar «grammatica», per riscattare quel termine – e quel concetto – da un’ostinata mancanza d’attrattività.
Fa notizia, quindi, il fatto che su Pietro Bembo siano appena usciti vari libri molto diversi per impostazione e pregio scientifico, ma tutti potenzialmente utili a estendere almeno nel pubblico colto l’interesse per l’autore degli Asolani e di quelle che sono note come Prose della volgar lingua. Tra i prodotti più curiosi è un volumetto commissionato dalla Fondazione Barbier-Mueller di Ginevra a Marco Faini, attuale Fellow di Villa ai Tatti, sede fiorentina di Harvard. La benemerita fondazione ginevrina, nota per le sue collezioni di arte tribale africana, ha una sorta di autonoma sezione dedicata alla poesia italiana del Rinascimento, che si incarica di raccogliere e valorizzare le edizioni più rare e preziose dei poeti che, capitanati appunto dal Bembo, fecero dell’imitazione di Petrarca e dell’attualizzazione dei suoi contenuti la loro missione artistica. Proprio per raggiungere un pubblico più vasto e disimpegnato di quello professionale che ben conosce i tesori raccolti a Ginevra (circa 600 volumi a stampa e manoscritti), la fondazione ha promosso una serie di volumi aperta appunto da una biografia del cardinale. Faini vi sperimenta uno stile più simile a quello della scrittura narrativa che a quella saggistica per raccontare, attraverso un’accattivante alternanza di parole e di immagini, una vita che sembra fatta per esser messa in romanzo. Fin dal titolo (L’alloro e la porpora), il volume ricorda certi briosi affreschi di storia veneziana dei quali uno scrittore da poco scomparso, Alvise Zorzi, fu maestro.
Tutt’altra formula è invece quella impiegata dallo storico della lingua Giuseppe Patota per un agile volumetto che punta dritto al Bembo legislatore dell’italiano. Cioè autore di grammatiche. Nel libro appena pubblicato dal Mulino, l’attività di Bembo codificatore di lingua è inseguita tra le pieghe dei suoi scritti e dei suoi manoscritti, in un’appassionante indagine documentaria che propone di ridisegnare i tempi e i modi del suo percorso, dalla lettura dei versi di Petrarca alla pubblicazione della grammatica (a proposito: come abbiamo già raccontato qualche mese fa in queste pagine, Patota ha dimostrato che il titolo vulgato, Prose della volgar lingua, è abusivo, nel senso di mai usato dal Bembo e assente dalle edizioni da lui controllate). Patota propone di anticipare di molti anni nella vita di Bembo il nucleo originale dell’opera, e valorizza il suo ruolo come fondatore non solo della grammatica dell’italiano, ma anche della stessa riforma terminologica – e quindi concettuale – che iniziò il lungo cammino di liberazione della grammatica volgare da quella latina, sulla quale pure resterà ancora lungamente modellata.
Poco letto, certo, il Bembo: già ai suoi tempi, quando le Prose parvero subito dottissime ma concretamente inutilizzabili, perché troppo poco manualistiche. Poco letto direttamente, ma universalmente e quasi segretamente conosciuto se, come Patota dimostra, molte delle regole grammaticali più spesso ripetute dalla tradizione scolastica – comprese quelle più difficili da giustificare – risalgono direttamente al cardinale, capace di trasmettere alla cultura dei quattro secoli successivi non solo la sua dottrina linguistica e filosofica, ma anche qualche sua fissazione grammaticale dagl’incerti fondamenti storici. Da lui, lei, loro inutilizzabili come soggetti, al pronome gli vietato per il femminile, sebbene già Boccaccio lo impiegasse in tal modo, o alla preferenza per il tipo io andava su io andavo. Forse non tutti – compresi gli autori di grammatiche per le scuole – sanno che simili regole discendono dritte dal Bembo.
[...]
In un percorso di progressiva severità tecnica ed espositiva, si può infine consigliare ai lettori più allenati un terzo volume fresco di stampa: quello con cui la giovane studiosa svizzera Amelia Juri si è accostata a un versante pochissimo frequentato della poesia di Pietro Bembo: le Stanze. L’ottava – cioè il contenitore metrico d’otto endecasillabi in cui sono versate le storie dei grandi poemi cavallereschi precedenti e successivi, Boiardo Ariosto Tasso – non è una forma contemplata dalla selettiva poesia petrarchesca, e già questo rende notevole la sua comparsa tra i metri frequentati dal Bembo. Le cinquanta ottave del poemetto di cui parliamo nacquero nel 1507, «dettate – come scrive il poeta stesso – in brevissimo spatio tra danze et conviti, ne’ romori et discorrimenti» della corte di Urbino, in cui il trentaseienne Pietro era giunto da Venezia. Nella gioiosa vita della corte urbinate egli cerca sùbito d’inserirsi con un componimento in cui s’immagina la missione di due ambasciatori di Venere giunti alla corte per persuadere la duchessa Elisabetta Gonzaga e la sua fedele compagna Emilia Pio a cedere ad Amore.
Non può darsi tema più tipicamente cortigiano, e non può darsi forma – l’ottava – più affine a un gusto tipico della poesia occasionale e festiva. Troppo poco, per le raffinate mire del coltissimo veneziano, che riesce comunque a tramutare un genere per lettori (e ascoltatori) poco esigenti in un terreno d’incontro fra la raffinatezza di Petrarca e quella che, di lì a pochi anni, sarà la mirabile fluidità narrativa dell’ottava ariostesca. Per documentare rigorosamente una simile suggestione letteraria servono, come mostra il lavoro di Juri, non solo la capacità di formulare chiaramente le ipotesi, ma anche quella di documentarle tecnicamente con una serrata analisi metrica, sintattica e retorica. Nella puntualità dei riscontri formali qui allineati sta quella che, prendendo a prestito un’etichetta novecentesca, chiamerei la grammatica della poesia. Cioè il segreto congegno del suo perfetto funzionamento: ricostruirlo sillaba per sillaba equivale, per così dire, a mappare il dna dell’armonia poetica. Ecco come essa si concretizza mirabilmente in una quadruplice definizione d’amore, richiusa nello spazio di una Stanza: «Amor è gratïosa et dolce voglia, / che i più selvaggi et più feroci affrena; / Amor d’ogni viltà l’anime spoglia / et le scorge a diletto e trahe di pena; / Amor le cose humili ir alto invoglia, / le brevi et fosche eterna et rasserena; / Amor è seme d’ogni ben fecondo, / et quel ch’informa et regge et serva il mondo».


“Il Sole 24 ore – Domenica”, 8 maggio 2017

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