24.6.17

Il sacrificio nell'antichità. Fame, non fede (Alfonso M. Di Nola)

Riaffiora, in questa silloge di quattordici saggi (Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza, 1988), il problema del sacrificio animale in una prospettiva nuova e intelligente che ha apertamente subito le influenze delle ricche ricerche che ci vengono dalla scuola francese, in particolare da Vernant. Le ipotesi interpretative della tematica sacrificale, qui trattata in saggi che privilegiano il mondo classico e quello vicino-orientale, sono condensate nel documentato e critico discorso introduttivo di Cristiano Grottanelli, il quale, grazie alla competenza specifica di tutta l’attuale letteratura sull’argomento e in particolare per la sua consuetudine con i temi dei riti sacrificali ebraici e vicino-orientali, riduce la immagine del sacrificio, così come definito nella storia delle religioni e in antropologia, a una sorta di flatus vocis, di termine di comodo che copre realtà ben più ricche e complesse: un’operazione analoga, per certi aspetti, a quella che Lévi Strauss compì in un suo celebre libriccino sul totemismo, abbattendone l’immagine mistificante falsata da una lunga tradizione.
In altri termini la nostra immagine del sacrificio, maturata in un ambiente culturalmente condizionato dal modello del sacrificio cristiano e dalle eredità, in esso confluite, delle ideologie ebraica e classica, sarebbe un referente fittizio per significare tutt’altro: la necessità alimentare del consumo di carne animale, la ripartizione gerarchica delle carni e la serie di cautele rituali che si sovrappongono a tali esigenze primarie.
Secondo modalità diverse, nelle varie società umane, l’uccisione dell’animale scatena una serie di colpe collettive angoscianti che comportano la necessità di compensazioni ideologiche e cerimoniali destinate a trasformare l’atto economico (o anti-economico) dell’uccidere e dell’alimentarsi in una trama di valori simbolici. L’uccidere per alimentarsi diviene, allora, secondo le varie prospettive, offrire un dono agli dei, alimentarli, stabilire con loro una comunione, celebrare un atto che è destinato a sorreggere la vita cosmica, costituire vincoli di solidarietà all’interno del gruppo, e sono le prospettive che si proiettano nella serie del sacrificio-dono, del sacrificio-offerta, del sacrificio-comunione e via di seguito.
Nel fondo di questi atteggiamenti, che pure hanno il loro grande rilievo culturale e divengono aspetti essenziali della storia umana, resta il crudo rapporto dei gruppi umani con il mondo animale, e le modalità di tale rapporto — Grottanelli ne sembra convinto — appaiono storicamente condizionate e varianti da tempo a tempo. Nelle antiche società di cacciatori, nelle quali avrebbe preso la sua prima sostanza la figura dell’«uomo uccisore», si delinea la grande precarietà dell’impresa venatoria, dell’acquisto di una preda che si «presenta» casualmente e, quindi, non è dominabile dal gruppo.
Il fallimento dell’impresa di caccia si ricostituisce psicologicamente come conseguenza di una colpa o di un peccato da parte del gruppo, che, per uccidere, non crea il meccanismo del sacrificio, proprio di società posteriori, ma quello ancora più complesso della «finzione rituale», il realizzare, cioè, l’impresa economicamente utile dell'uccidere la preda, come se si facesse altro o come se venisse a essere realizzata occasionalmente e senza colpa degli uccisori. Sono celebri i ritualismi dell’orso, che viene soppresso con ogni cautela, senza mai essere nominato e come se si offrisse volontariamente al cacciatore, per poi reincarnarsi dopo la morte.
Nelle società allevatorie e in quelle agricole superiori, nelle quali assume la sua determinante importanza il bue aratore, l’uccisione dell’animale diviene un evento assolutamente antieconomico, poiché l’animale è bene primario che va conservato e moltiplicato, e perciò il meccanismo del sacrificio, come uccisione sacralizzata, destinata a costituire un rapporto con il mondo divino, assume tutta la sua pregnanza giustificatoria e placa le ondate di colpa e di responsabilità insorgenti nel gruppo. È noto, per esempio, che gli Ateniesi, in un rito molto intricato nella sua polivalenza, quello dei Bouphonia (o uccisione del bue aratore), che veniva compiuta come sacrificio in occasione delle feste principali di Atene, ricorrevano a un cerimoniale destinato a scaricare la colpa dell’uccisione dal sacerdote sull’uno o sull’altro partecipante, fino a farla ricadere sull'ascia sacrificale che veniva sottoposta a giudizio.
Ecco perché, in fondo, uccidere animali e mangiare la loro carne diviene culturalmente un sacrilegio, e la tensione sacrilega si riflette ancora nei lessici indoeuropei, se, per esempio, il nostro termine «mattatoio» è legato a quel «mactare» latino che rappresentava l’uccidere ritualmente l’animale. Tutte di rilievo, in questa raccolta i contributi specialistici, tra i quali quelli del Burkert, di Detienne, di Durand e degli altri stranieri sono, nella loro ripetitività di argomenti già trattati in precedenti loro pubblicazioni, di molto inferiori a quelli degli studiosi italiani.


"Corriere della Sera", 19 settembre 1988

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