23.6.17

Le lettere di Shostakovic, musicista e appassionato di calcio (Alberto Mattioli)

“Neanche un giorno senza un rigo”. Rigo musicale o di lettera per lui pari furono. Non venivano prima né la musica né le parole: compositore fecondissimo, di spaventosa velocità, depresso quando per qualche ragione la vena si bloccava (che si inaridisse, non accadde mai), Dmitrij Shostakovic (1906-1975) fu anche uno scrittore di lettere ai confini della grafomania. E tale rimase anche quando l'abitudine e il gusto della corrispondenza stavano venendo uccisi dal progresso come molti dei vezzi del buon tempo antico: «Nella nostra epoca di telegrafi, telefoni, radio ecc. si va perdendo l'arte epistolare. Lei è uno dei pochi che possiedano alla perfezione quest'arte stupenda, ma in via di estinzione», scrive al collega Lev Lebedinskij il 17 febbraio 1960.
Questa e altre trecento delle sue innumerevoli lettere sono state raccolte da Elizabeth Wilson in un bel libro, Trascrivere la vita intera (il Saggiatore, pp. 512, €25, prefazione di Enzo Restagno) che uscirà il 31 agosto con il sostegno del festival torinese Settembre Musica, dove lo presenteranno, il 9 settembre, la terza moglie Irina Shostakovic e Quirino Principe. Per inciso: questo è il modo giusto di festeggiare gli anniversari. Anzi, forse leggere questo libro, denso ma piacevolissimo (Shostakovic ha una prosa secca e nervosa e non si scrive mai addosso: in troppi epistolari è il difetto che ammazza il diletto), è l'antidoto ideale ai troppi mozartologi improvvisati e alle troppe improvvisazioni di mozartologi che hanno infestato questo disgraziato 2006, proclamato «anno Mozart» a causa dei 250 dalla nascita di «Amadeus», come dicono loro.
Naturalmente, il libro è anche lo strumento fondamentale per penetrare nell'officina, creativa e domestica, di uno dei massimi musicisti del secolo scorso. E, insieme, un documento agghiacciante della distruzione della sua personalità provocata dal regime non solo criminale, ma ottuso nel quale gli toccò vivere. Shostakovic era stato un enfant prodige e, dopo la rivelazione della sua Prima sinfonia, il 12 maggio 1926, restò per qualche anno un giovane compositore in carriera estroverso, brillante, ironico, un po' esibizionista e con un'intima eleganza, di modi e di pensiero, sconfinante quasi nel dandismo. Il comunismo lo annientò: non fisicamente, come toccò a molti dei suoi amici, ma spiritualmente. Pensando alle vessazioni che dovette sopportare, viene in mente Vaclav Havel quando disse che i guasti morali provocati del comunismo erano più gravi di quelli materiali, pur enormi.
La sensibilità di Shostakovic divenne nevrosi; la vena malinconica, prima depressione e poi ossessione; la sua naturale bontà (era un uomo di principi, e ottimi), disillusione.
Curiosamente, le persecuzioni più sadiche sono, in queste lettere, quelle meno documentate. Nell'Urss, in certi anni, si aveva paura a parlare, figuriamoci a scrivere. Per il musicista, tutto cominciò il 28 gennaio 1936, con il famoso articolo della Pravda che titolava «Caos invece di musica» la recensione della Lady Macbeth del distretto di Mcensk, capolavoro operistico di Shostakovic e di tutto il teatro musicale del Novecento. Il resto dell'articolo, anonimo ma probabilmente scritto dal giornalista David Zaslavskij e sicuramente ispirato da Stalin, scagliava sull'opera e sul suo autore tutti gli anatemi dell'ortodossia critica comunista, dal «rozzo naturalismo» al «formalismo piccoloborghese». Seguì, il 6 febbraio, sempre sulla Pravda, il massacro del balletto Il rivo chiaro. Titolo: «Una falsificazione del balletto».
Su Shostakovic si scatenò la bufera. Negli anni delle grandi purghe, nei quali il persecutore di oggi era il perseguitato di domani, in questa ruota della fortuna in formato dantesco, Shostakovic si abituò a dormire con una valigetta pronta accanto al letto, dato che la gente veniva prelevata di notte e nella notte spariva. L'anno seguente, un brutto sabato, venne convocato al quartier generale del-l'Nkvd di Leningrado e interrogato da un ufficiale di nome Zakrevski, che prima cercò di fargli confessare di aver partecipato a un fantomatico complotto contro Stalin e poi gli ingiunse di ripresentarsi il lunedì successivo. Dopo aver passato la domenica che si può immaginare, Shostakovic tornò, in preda al terrore, ma gli venne detto di andarsene, perché Zakrevski era stato fucilato per tradimento il giorno precedente. E poi le autocritiche, le delazioni, i sospetti, i divieti, i servilismi, le riabilitazioni e le ricadute in disgrazia, gli esami di marxismo-leninismo, l'obbligo all'estero di dire male di Stravinskij o di Schonberg perché così aveva decretato il partito: come il suo popolo, Shostakovic visse sotto una doccia scozzese di purghe e aperture, uragani di sofferenza e schiarite di tolleranza.
Ancora nel dicembre '62, in pieno «disgelo», le autorità fecero di tutto per sabotare la prima della Tredicesima sinfonia, in sospetto di deviazionismo ideologico. E dire che in Occidente si considerava la sua musica la colonna sonora dell'epica socialista... Lui si rifugiava nella musica, negli affetti (tre matrimoni - con vicende tempestose -e due figli) e nel calcio. Negli anni più terribili erano le imprese della Dinamo Leningrado a svagarlo. Si legga la lettera dell'8 agosto 1938, una cronaca puntuale e appassionata degna di un giornalista sportivo: mancano, si direbbe, solo le pagelle. Del resto, il suo balletto II secolo d'oro mette in scena la vittoria di una squadra di calcio che batte i capitalisti decadenti grazie al suo modulo leninista.
Resta il fatto, e fu la sua tragedia, che Shostakovic era molto migliore del regime nel quale gli toccò vivere. Un maestro che scriveva agli allievi «il bene, l’amore e la coscienza: ecco cosa c'è di prezioso nell'uomo» non poteva vivere bene nella Russia sovietica. Poteva sopravvivere, con un'intima sofferenza di cui le lettere sono la testimonianza.


La Stampa, 19 agosto 2006

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