8.6.17

Quelli dell'Hotel Lux (Miriam Mafai)

Togliatti (primo da sinistra) con altri dirigenti dell'IC. Il quarto da sinistra è Dimitrov
Per almeno due generazioni di comunisti, l'Hotel Lux fu un luogo mitico, avvolto in un clima di avventure ed eroismo, per almeno altre due fu sinonimo di orrori e persecuzioni. Era, l'Hotel Lux, una sorta di casa albergo di Via Gorki, a Mosca, dove vissero, sotto falso nome, dal 1921 al 1940 i personaggi più illustri del Gotha comunista: da Ho Chi Min a Tito, da Dolores Ibarruri a Ciu En lai, da Dimitrov a Rakosi. Erano tempi durissimi per i comunisti di tutto il mondo. La rivoluzione, cui l'assalto al Palazzo d'Inverno, aveva dato l'avvio, non si allargava, come qualcuno aveva sperato, agli altri paesi d'Europa e agli altri continenti. I dirigenti dunque delle varie organizzazioni comuniste d'Europa, d'Asia, del Sud America lungi dal prendere il potere venivano cacciati nell'illegalità e perseguitati con ferocia dai regimi di destra dei rispettivi paesi. Una parte entrava nell'illegalità, altri venivano salvati ed arrivavano quindi nell'unico luogo sicuro possibile: a Mosca, Terra Promessa. Nel linguaggio dei comunisti di tutto il mondo per lungo tempo Mosca fu indicata, affettuosamente e semplicemente, come la Casa o la Casa Madre. Lì venivano accolti e sistemati: una parte di questi emigrati andava a lavorare nelle fabbriche; i più autorevoli, quelli di cui ricordiamo i nomi e le tracce, venivano assegnati agli organismi che a Mosca avevano sede, il più importante dei quali era l'Internazionale. (C' erano poi il Soccorso Rosso, l'Internazionale Giovanile e così via). Questi venivano sistemati nelle stanze del Lux, con le loro mogli, figli, valige e ricordi. Tra questi misteriosi inquilini del Lux ci fu anche Togliatti, che, arrivato a Mosca a soli 33 anni, nel 1926, ne ripartirà definitivamente, dopo alcuni periodi passati in Francia o in Spagna, solo nel 1944, per tornare a dirigere il suo partito in Italia.
Questo libro di Gianni Corbi (Togliatti a Mosca, Storia di un legame di ferro, Rizzoli, pagg. 312, lire 34.000) ricostruisce con grande attenzione, ricchezza documentaria e finezza politica, l'attività di Togliatti in quegli anni, gettando una luce drammatica sulla sua partecipazione alle oblique vicende dell'Internazionale Comunista e sulla sua corresponsabilità con le decisioni più cruente di Stalin, dalla liquidazione del partito comunista polacco alla persecuzione di tanti comunisti ed emigrati italiani in URSS. Togliatti è da pochi mesi a Mosca quando gli giunge, nell'ottobre, una lettera di Gramsci, una lettera decisiva per quello che riguarda i rapporti tra i due e il destino stesso del partito comunista italiano. La lettera è nota da tempo, ma vale la pena di ricordarne l'essenziale. Ai dirigenti sovietici, impegnati in una spietata battaglia con l'opposizione, Gramsci scrive invitando all'equilibrio ed alla moderazione: Ziniovev, Trotzkij, Kamenev certamente, sbagliano, ma vogliamo essere sicuri che la maggioranza del C.C. dell'URSS, non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive. La lettera di Gramsci era tanto più importante in quanto non si trattava di un documento personale, ma di una presa di posizione elaborata dall'Ufficio Politico del Pci, che Togliatti, rappresentante dello stesso partito presso il Comintern, avrebbe dovuto presentare e illustrare. Ma le richieste di Gramsci e il tono con cui la lettera era formulata, entravano in rotta di collisione con il parere e la volontà di Stalin, che, altro che stravincere!, intendeva liquidare non solo politicamente ma anche fisicamente i suoi avversari. Togliatti dunque decide di non presentare ai suoi destinatari la lettera di Gramsci, e la consegna invece a Bucharin, dell'Esecutivo dell'Internazionale e che deciderà di mandare un suo rappresentante in Italia, per discutere con i dirigenti di quel partito ed impedire il loro scivolamento nel campo dei trotzkisti.
Bisognerebbe aver vissuto nel clima infuocato di quelle settimane commenta Corbi per poter dare un giudizio equanime dell' atteggiamento di Togliatti. C'è chi sostiene che fu da quel momento che il capo del Pci cominciò ad assumere i modi e gli atteggiamenti, i riflessi condizionati dei grandi leader dell'Internazionale Comunista. Ma quel processo che portò Togliatti a calarsi e quasi a mimetizzarsi nella realpolitik sovietica fu molto più lungo, tortuoso e probabilmente sofferto di quanto molti vogliono far credere. C'è in questo passaggio la chiave interpretativa di tutto il lavoro di Corbi, con l' esplicito rifiuto di ogni semplificazione e una attenzione estrema ai vari passaggi che condurranno alla fine Togliatti alla totale corresponsabilità con le scelte di Stalin. È una storia di trappole, di agguati, di scontri, di accuse roventi e di umilianti autocritiche, di polemiche, la cui posta era la vita, la propria e quella dei rispettivi partiti. Vedremo così un Togliatti denunciare con molto vigore e coraggio al VI Congresso del Comintern la nefasta equivalenza tra fascismo e socialdemocrazia, e poi, solo un anno dopo riallinearsi prudentemente sulle tesi prima contestate, e infine, preparare tra il 1934 e il 1935 quel VII Congresso dell' Internazionale che ne segnerà la svolta in senso democratico e antifascista, aprendo la strada alla politica dei Fronti Popolari. Nessun dubbio che a questa scelta Togliatti porterà un contributo di elaborazione determinante. (La nostra ambasciata di Mosca segnala: Siamo di fronte ad una nuova strategia che dimostra la speciale pericolosità della nuova tattica comunista dei fronti unici...). A questa apertura che giustamente i nostri diplomatici definiscono un subdolo riformismo, corrisponde però sul piano interno un inasprirsi della persecuzione non solo contro i residui oppositori, o meglio ex oppositori di Stalin, ma contro iscritti e dirigenti del partito, esponenti dell' apparato industriale sovietico e del suo esercito, una sorta di gigantesca impazzita mattanza alla quale Togliatti darà, ahimè!, il suo contributo propagandistico.
Fino a che punto Togliatti è convinto della verità delle confessioni e delle testimonianze? Ecco un interrogativo al quale è forse impossibile trovare una risposta. E ci conferma in questo nostro dubbio il fatto che anche un osservatore disincantato come l'ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca abbia potuto esser convinto della validità delle accuse rivolte a Bucharin e Tukaceski. Nella orrenda fornace staliniana scomparvero dirigenti autorevolissimi di tutti i partiti comunisti, e decine di modesti comunisti italiani che si erano rifugiati a Mosca per sfuggire al regime di Mussolini. Quanti di questi innocenti si rivolsero, per un aiuto, a Togliatti? Ma poteva Togliatti rispondere? La questione è aperta risponde Corbi. Chi visse quelle terribili esperienze o coloro che hanno cercato di ricostruire le circostanze e i nessi storici che caratterizzarono quel periodo, sono inclini a ritenere che quelle invocazioni non potevano ragionevolmente avere una risposta. E che Togliatti, anche se lo avesse voluto, avrebbe potuto fare ben poco. L' unico risultato certo, aggiungono, sarebbe stato quello di coinvolgere lo stesso Togliatti in quell' infernale meccanismo e, con lui, il Partito Comunista italiano.
Alla fine, questo sembra essere anche il giudizio di Corbi. Ma la ricerca si segnala non solo per la ricostruzione delle vicende del leader del Pci quanto soprattutto per la rievocazione complessiva del clima dell' epoca, per la quale si avvale delle relazioni finora inedite della nostra Ambasciata di Mosca, che seguiva con grande attenzione le vicende dei nostri emigrati in URSS, da coloro, i più noti, che avevano incarichi dirigenti nei vari organismi internazionali a quanti, ed erano centinaia, lavoravano come operai e contadini nelle fabbriche e nei kolkos: militanti che avevano abbandonato i loro paesi per sfuggire dalle persecuzioni fasciste e che si troveranno tragicamente coinvolti, vittime inconsapevoli e innocenti, nelle repressioni staliniane. Si vedano, a questo proposito, i verbali di alcuni interrogatori, e in particolare quelli degli operai che lavoravano nella fabbrica, non lontana da Mosca, diretta da Umberto Nobile, lo sfortunato trasvolatore del Polo Nord. Molti di questi, accusati di avere avuto rapporti con bordighiani e con troskisti, spariranno nella notte staliniana. Restano nella memoria alcuni nomi, o più che questi, alcune immagini come quella di un bolognese, un certo Bertoni, molto allegro, quantunque tra carceri ed esilio, divenuto tubercoloso. Rimpiangeva zamponi, tortellini, la dovizia gastronomica dell'Emilia.... Anche lui, come centinaia di altri comunisti italiani, spariti nel nulla.

“la Repubblica”,19 giugno 1991

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