22.7.17

Henri Bergson. L'immagine e il movimento (Riccardo De Benedetti)

Un disegno di Topor
Può capitare, quando si assiste ad una proiezione cinematografica, che per alcuni istanti il quadro stenti a prendere posizione sullo schermo, e dia vita così a quel saltellare fastidioso delle immagini, incapace di dar movimento e azione alle scene impresse sulla pellicola che non riesce a scorrere come vorrebbe. Questo contrattempo ci sta svelando il trucco che ci diverte: immagini staccate una dall’altra, fotografie immobili, sezioni parzialissime di realtà movimentate da un trascinamento artificiale e meccanico. Eppure, anche se condotti dal cattivo funzionamento del proiettore all’arcano del cinema, quando il fotogramma assume il suo passo normale noi percepiamo non il movimento del proiettore ma quello presente nell’immagine. In poche parole, come afferma Gilles Deleuze nel suo splendido L’immagine-movimento, «il cinema non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento. Ci dà certo una sezione, ma una sezione mobile, e non una sezione immobile + movimento astratto». A scoprire l’immagine-movimento, che il libro di Deleuze farà valere come nozione essenziale per una nuova ermeneutica del cinema, è il primo capitolo di Materia e memoria del filosofo Henri Bergson.
Il cinema, a dir la verità, compare ben poco in questo libro del filosofo francese (siamo nel 1896), ma il problema di questo strumento che «al di là delle condizioni della percezione naturale» era in grado di immettere una nuova dose di irrealtà nel nostro quotidiano, ritornerà con frequenza nelle pagine di Bergson. A volte come un ambiguo e cattivo alleato (è un’illusione di movimento, è un «falso movimento») a volte come un’utile metafora. Quando ad esempio, Bergson deve spiegare come la sua filosofia, inizialmente legata a quella di Spencer, se ne debba distaccare perché «in essa il tempo non serviva a nulla, non produceva niente», aveva appena finito di descrivere un mondo a cui era sottratto il cosciente e il vivente. Questo universo abbandonato dalla vita noi lo potremmo prevedere e calcolare in ognuno dei suoi stati successivi, proprio «come le immagini giustapposte sulla pellicola cinematografica prima che essa sia fatta scorrere» (H. Bergson, Il possibile e il reale, in «aut aut», 204, 1984). L’esperienza del cinema, con i suoi enigmatici rapporti tra immagine e movimento, è una delle porte attraverso cui entrare nella filosofia di Bergson, di cui Mondadori ci presenta alcuni capitoli fondamentali. Innanzitutto Materia e memoria in una nuova traduzione, dopo quella introvabile edita nel 1982 da una piccola casa editrice di Reggio Emilia, Città Armoniosa. Il volume presenta, poi, due testi altrettanto importanti: il Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889, seguito in appendice dalla prima traduzione completa della tesi scritta in latino, sostenuta da Bergson per il dottorato, Quid Aristoteles de loco senserit (tradotta da Ferruccio Franco Repellino, L’idea di luogo in Aristotele). Il volume corredato da alcune lettere di Bergson al filosofo americano William James, a Papini e allo psicologo Th. Ribot, compare nelle librerie nella collana di classici economici con il titolo Opere 1889-1896, accuratamente annotata e prefata da P.A. Rovatti. Le traduzioni sono di Federica Sossi. L’edizione mondadoriana di questi importanti testi bergsoniani viene a colmare una consistente lacuna nella conoscenza del filosofo francese.
L’arco temporale segnato da queste opere copre, infatti, la fase iniziale della filosofia bergso-niana, la cui conoscenza è indispensabile per chi voglia tentarne una definizione aggiornata. Sia nel Saggio che in Materia e memoria Bergson si trova di fronte a due crisi congiunte, quella della metafisica e della psicologia. Entrambe stanno ristrutturando i loro paradigmi e le loro categorie alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche. Le questioni poste dalla prima si imbattono nelle difficoltà della seconda. È il caso, nel Saggio, del problema della libertà e del determinismo o, in Materia e memoria, del dualismo corpo e spirito, difficile da superare persistendo lo scontro tra realismo e idealismo. Giudicando «eccessive» entrambe le tesi, Bergson cercherà in tutto il libro di dissolverne gli effetti metafisici depositatisi in una innumerevole serie di pseudoproblemi di cui quello della relazione tra corpo e spirito è un esempio tra i più tradizionali.
È Michel Serres a indicarci questa volta un nuovo ingresso nelle problematiche bergsoniane : il lavoro teorico di Bergson è la messa in questione delle «proibizioni positiviste e cartesiane», in cui concetti e nozioni si cristallizzano in segni e parole che si vorrebbero «doppioni» del reale. Per riprendere l’immagine della pellicola immobile dell’inizio, si potrebbe dire che lo spirito puro e attento del cartesianesimo è l’agente di questa immobilità. La filosofia è stata costretta a trovare la propria metaforica sulla base della geometria ordinaria: «(...) i nostri concetti sono stati formati ad immagine dei solidi, la nostra logica è soprattutto la logica dei solidi; per lo stesso motivo, la nostra intelligenza trionfa nella geometria, in cui si rivela la parentela del pensiero logico con la materia inerte» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice).
Ma questa è soltanto una «sezione» della realtà, la sezione immobile che dobbiamo movimentare se vogliamo che il film torni a raccontarci la sua storia. Certo i solidi ci servono, la stabilità abitudinaria di una parte della nostra esperienza ci mostra che all’inerte dobbiamo in qualche modo affidarci se vogliamo rispondere con successo alle stimolazioni ambientali. Ma, ed è il tema del capitolo terzo di Materia e memoria, lo spirito ha una doppia direzione. Ha il potere di risalire, voltando le spalle all’azione immediata, utile alla nostra sopravvivenza, verso una regione apparentemente oscura, indistinta, impotente, che aspetta l'«appello del presente» per realizzarsi. «In ogni momento, la coscienza illumina dunque con il suo bagliore quella parte immediata del passato che, proteso sul futuro, lavora per realizzarlo e per annetterselo» (Materia e memoria, p. 258).
Il corpo, ci dice Bergson, è esso stesso un «taglio trasversale nel divenire universale», un taglio paradossale perché costretto ad immobilizzare, a fotografare la realtà e, nel medesimo tempo, capace di esonerarsi dall’attenzione alla vita, per muoversi verso regioni in penombra: «Noi restiamo collocati in questa parte illuminata della nostra storia, in virtù della legge fondamentale della vita, che è una legge d’azione; di qui la nostra difficoltà a concepire dei ricordi che si conserverebbero nell’ombra. La nostra ripugnanza ad ammettere la completa sopravvivenza del passato dipende, quindi, dall’orientamento stesso della nostra vita psicologica, vero e proprio svolgimento di stati in cui il nostro interesse è di guardare ciò che si svolge, e non ciò che è completamente svolto» (Materia e memoria, p. 258). Questo immergersi della vita psichica in un divenire attraversato di volta in volta dalle necessità dell’attenzione alla vita, assume la figura di una continua biforcazione differenziatrice di passato e presente, ricordo e percezione. Vladimir Jankélévitch in L’irréversible et la nostalgie sintetizza molto efficacemente le caratteristiche di questo punto cruciale del bergsonismo: «(...) in Materia e memoria la percezione, plasmata dai ricordi, è essenzialmente orientata verso la modellatura del reale e l’edificazione del futuro, vale a dire verso l’azione e la lotta per l’esistenza; se la durata non è tesaurizzazione, né propriamente parlando arricchimento, essa è comunque creatrice».
Una «durata» con queste caratteristiche ha bisogno, per essere descritta, di una nuova metaforica, non quella dei solidi geometrici, bensì quella «acquatica» dei flussi e dello stream of consciousness, capace di intuire i bordi fluidi delle cose. In tal modo Bergson perviene a una nozione di divenire che è il contrario dell’eraclitea fuga di tutte le cose in un passato e in un «già stato» irrevocabile e impotente. Bergson non ha nostalgia di ciò che mai si ripeterà due volte, semplicemente perché è convinto che il passato della memoria saprà sempre rispondere all’appello di un presente che non ne può fare a meno.
Le immagini vive della memoria, però, portano con sé nuove domande che Marguerite Yorcenar ha così descritto in Il tempo grande scultore: «bisognerebbe sapere perché mi si sono immediatamente imposte in quanto nozioni viventi, assimilabili, su cui la mia mente non ha smesso di lavorare. E se vi è stata affabulazione, bisognerebbe spiegare perché ho costruito questi miraggi, e proprio questi. È strano serbare nell’immaginazione o nella memoria (nell’una o nell’altra oppure nell’una e nell’altra) l’equivalente del calco di una realtà che forse non è una realtà».

“il manifesto”, s.i.d. ma 1986

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