23.7.17

I falsi Modigliani e Guttuso. L'arte morirà, questione di tempo (Giulio Carlo Argan)

Argan parte dallo scherzo delle false sculture di Modigliani, dall'abbaglio da lui stesso preso come da molti altri e da un intervento di Guttuso che aveva definito un “grande falso” tutta l'arte moderna, per riproporre il tema tipicamente novecentesco della morte dell'arte. Vale la pena di una lettura e di una riflessione diretta anche a che cosa è venuto dopo. (S.L.L.)

Sapevo che la penosa questione delle pietre di Livorno avrebbe riempito d'orgoglio i padri dei ragazzini che disegnano meglio di Picasso; facendo leva sullo sbaglio dei critici si sarebbe prima o poi arrivati a vilipendere, con Modigliani, tutta l'arte moderna, come ai bei tempi di Thovez e Ojetti. Non m'aspettavo però che li avrebbe confortati dall'alto del suo prestigio Renato Guttuso, affermando che, tutta l'arte moderna essendo una vistosa mistificazione, non si riesce più a distinguere, in quello che fa, ciò che è vero da ciò che è falso.
Protesto: le pietre di Livorno sono falsi tecnici e avrei dovuto accorgermene, ma l'arte moderna non è un falso ideologico e rifiuto la giustificazione che Guttuso mi porge facendo un errore molto più grave del mio. Dei critici sono stato il più maltrattato, accusato d'aver detto cose né pensate né dette. Non ho mai gridato al capolavoro: dissi che si trattava di abbozzi incompiuti, ripudiati e buttati. Potevano anche essere autografe, dissi e sbagliai, ma non erano autentiche, dacché la prima dichiarazione d'autenticità è quella che dà l'artista licenziando l'opera. E fin da principio sollecitai invano un accertamento scientifico che stabilisse, finché era possibile, la durata dell'immersione, essendo questa una prova indiretta ma certa.
Fui deriso col senno di poi dai critici tutt'occhio, che però non s'erano accorti del falso prima che se ne vantassero i tre burloni. Declino l'assolutoria che Guttuso porge alla critica ingannata, ma gli rendo merito d'aver levato il dibattito dalla melma del fosso e della beffa livornesi, fornendo inoltre ai suoi critici plaudenti utili argomenti per un'analisi più seria della sua pittura. Infatti anche lui, ancorché poi ravveduto, è stato un pittore moderno. È stato costante e coraggioso il suo impegno civile, accesa la sua partecipazione al dibattito culturale: sono tipici modi di essere e di fare di un artista che, come diceva Baudelaire, voglia etre de son temps. Del mercato, che addita come una causa della corruzione odierna, non è stato certamente una vittima inconsapevole; e dei critici, salvo che di me, non ha motivo di lamentarsi. Prima di convertirsi a De Chirico gli piaceva il gusto del rischio, la temerità di Picasso. Quando fece il realismo socialista fu problematico e non conformista: glie ne diedi e glie ne do atto. Non capisco dunque perché in lui la malinconia dell'età inoltrata ed ancora operosa debba irritarsi in apostasia e in rampogna.
Come tutto il resto anche l'arte è in crisi; se non lo fosse non sarebbe moderna. La sua crisi non è la stessa che mina il sistema, nasce dal fatto che nel sistema non è più integrata né funzionale. La rottura è generalmente attribuita alla diversità strutturale delle tecniche artistiche rispetto al meccanismo delle industriali. Non tanto nel mutamento delle condizioni oggettive, tuttavia, quanto nel distacco da certi valori dati come eterni Guttuso vede la causa del corso aberrante dell'arte moderna. Senonché l'arte mutò per reinserirsi nella cultura contemporanea adeguandosi alla scienza e poi alla tecnologia industriale; e invece perdette il contatto con l'uomo, scambiò per costrizione il rispetto dei rapporti umani, pretese una libertà ch'era invece disordine. Peggio, declinò la comune esperienza della realtà oggettiva, dimenticò la lingua parlata, svalutò la verosimiglianza. Punto di rottura fu l'Impressionismo: "l'inseguimento dell'ora che trapassa, l'abbandono di un rigore, di un organismo pittorico che costituisse un dato di stabilità". Fu preferita l'esperienza in atto, flagrante, all'esperienza acquisita e sedimentata, la sperimentazione al modello, la sensazione alla nozione. Verlust der Mitte, disse Sedelmayr per giustificare retrospettivamente la repressione culturale dei regimi totalitari. Senonché la sensazione degli Impressionisti non era affatto illusoria e precaria: Bergson l'assunse come "dato immediato della coscienza" e su di essa costruì una nuova concezione dello spazio e del tempo. E non direi proprio che Cèzanne e Seurat abbiano intuito il pericolo e cercato un rimedio; anzi, sistematizzarono quella conoscenza del reale attraverso l'istantaneo e il frammentario.
Sulla petite sensation, che Proust chiamerà impression vèritable, Cèzanne costruì una filosofia con la pittura (e lo riconobbe un filosofo, Merleau-Ponty) e Seurat una nuova scienza della percezione. La sensazione, infatti, non era casuale nè spontanea, la si raggiungeva rimuovendo nozioni inveterate e pregiudizi ancestrali attraverso un processo critico, che rientrava nella tesi illuministica del criticismo distruttivo di ogni dogmatismo e di ogni principio di autorità. Da quel criticismo, che sostituiva il dubbio metodico alle sistematiche certezze, mosse il processo di secolarizzazione del sapere, che inevitabilmente coinvolse anche l'arte. Si superò così la trionfale confessionalità dell'arte barocca, notoriamente larga di molte libertà, purché non contraddicessero ai grandi principi dommatici: ed è strano davvero che gli eterni valori da Guttuso rimpianti siano quelli istituiti dalle poetiche barocche, dall'Agucchi al Bellori. Precisamente: l'arte come lingua parlata e discorso, il verosimile o possibile come disciplina dell'immaginazione, la natura modello, la storia maestra.
Secolarizzandosi, come tutte le altre discipline, l'arte ha cessato di presumersi eterna: come avrebbe potuto essere insieme eterna e moderna? Una volta ammesso che l' arte è cosa terrena e mortale, ed ebbe principio quando certe circostanze si determinarono nella storia della civiltà, così non si può non ammettere che avrà fine quando si determineranno altre circostanze che la escluderanno dall' architettura del sistema. E' compito degli storici, e non solo degli storici dell' arte, dire se tali circostanze si siano date o siano per darsi. Sappiamo quale mutazione profonda si vada compiendo nel mondo: da una cultura di classe all'informazione di massa, dallo storicismo umanistico a uno scientismo tecnologico, da una civiltà dei valori a una civiltà (se sarà tale) dei bisogni e dei consumi. È in crisi lo stesso concetto di valore e si fa strada purtroppo l'idea che, comunque, a mutare il sistema dei valori non sarà una rivoluzione, cioè un'ideologia, bensì la tecnologia.
C'è divario radicale, anzi contraddizione, tra la struttura e i metodi operativi delle arti e della tecnologia industriale ormai egemone. Ci sono ancora, da parte della cultura umanistica di cui l'arte è stata un fattore strutturante, punti di resistenza e perfino di vivace reazione, ma tutto fa credere (anche l'articolo di Guttuso) che stiano per estinguersi. Essendo la morte dell'arte questione di tempo, credo giunto o vicino il suo tempo.
L'arte ha avuto una parte grandissima nella storia della civiltà che finisce: e tutti i giorni vediamo a che punto di degradazione e disgregazione la società industriale e capitalistica abbia ridotto il patrimonio culturale e l'ambiente. Ne ha fatto materia di sfruttamento brutale, ne ha distrutto il valore riducendolo a prezzo. Incombe sul mondo non solo il pericolo, ma l'angosciosa attesa di una guerra nucleare e della fine di tutto. È logico che in questa condizione l'arte, come le altre discipline a struttura storica, sia consapevole della propria fine inevitabile, viva cioè, coscientemente, l'esperienza della propria morte. In tutto il suo passato l'arte ha avuto una parte essenziale nella definizione del concetto di valore: credo obbiettivamente impossibile la sopravvivenza dell'arte in una società che emargini o rimuova il concetto di valore affinché non costituisca remora al consumo. Il problema della morte dell'arte si pone anche sul piano teoretico, in rapporto al concetto hegeliano di morte dell'arte classica, come conseguenza della fine della concezione del mondo e della vita che si era espressa nell'arte classica. Guttuso ne propone la resurrezione: ma come può esserci resurrezione se non dalla morte? E se non è difficile individuare le cause della morte, ci dirà Guttuso quali prospettive storiche giustifichino la previsione, e magari la speranza, di un prossimo revival dell'arte classica?


“la Repubblica”,17 novembre 1984 

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