8.7.17

'Il Cielo sono io'. Fato e scienza in Giorgio de Santillana (Italo Calvino)

La sera del 29 marzo 1963, per l’esattezza alle 18, lo storico della scienza Giorgio de Santillana teneva al teatro Carignano di Torino, per invito dell’Associazione Culturale Italiana, una conferenza sul tema Il Fato nell’antichità e nell’era atomica. Il tema era inconsueto, l’oratore pieno di passione e di ironia: e, a quel che si racconta,riuscì, in un’ora, a scuotere molte idee ricevute. Saverio Vertone su “l'Unità” stroncò la conferenza: “Erudita, proclive ad una sorta di citazionismo universale […] e non di rado confusa ed ermetizzante, la esposizione del filosofo ha finito col ridursi ad una specie di inno, tra il lirico e il patetico, all’irrazionalismo. Di qui[…] anche […] gli accenni polemici al marxismo e alla sua pretesa «meccanizzazione della storia»”. Ma quell'esposizione colpì profondamente Italo Calvino, che ne riparlò più volte nella sua vita e che, a detta degli studiosi ne trasse ispirazione per le sue Cosmicomiche. Su Santillana e su quella conferenza lo scrittore ritornò più di vent'anni dopo quando Adelphi ne decise la pubblicazione in volume insieme con altri studi e con titolo lievemente modificato. Fu l'occasione per tracciare un quadro d'insieme sulle ricerche di Santillana, un geniale outsider degno anche oggi di attenzione. (S.L.L.)
Giorgio de Santillana
"Cinque volte nel corso di otto anni avviene che la stella Venere si levi al momento che precede il levar del sole (momento solenne in molte civiltà). Ora, i cinque punti così marcati sull' arco delle costellazioni, e congiunti secondo l' ordine del loro succedersi, si rivelano formare un pentagramma perfetto (cioè il disegno d' una stella a cinque punte). Questo sembra proprio un dono degli dèi agli uomini, un modo di rivelarsi. Onde i Pitagorici dicevano: Afrodite si è rivelata nel segno del Cinque. E il segno è diventato magico. Ma quale intensità di attenzione e di memoria non ci volle per fermare in mente nelle loro posizioni i cinque lampeggiamenti in otto anni del pianeta che appare per poi perdersi subito nella luce del mattino - per ricostruire con l'intelletto il diagramma che essi suggerivano". Da questa straordinaria precisione degli antichi nell'osservare la volta del cielo, parte Giorgio de Santillana in un libro piccolo di mole quanto denso e affascinante di contenuto: Fato antico e fato moderno (Adelphi).
Va detto subito cosa Santillana intende per "antichi" e per "precisione". Gli "antichi" sono coloro che nel V millennio a.C. tra Caldea, Egitto e India elaborarono "i lineamenti colossali di una vera astronomia arcaica, quella che fissò il corso dei pianeti, che dette il nome alle costellazioni dello zodiaco, che creò l'universo astronomico - e con esso il cosmo - quale lo troviamo già pronto quando comincia la scrittura, verso il 4000 a.C.". Le testimonianze di questa sapienza nel calcolo del tempo astrale sono nelle proporzioni degli zigguratt della Mesopotamia (la Torre di Babele del calunniato Memrod era uno di questi complicati modelli dell'ordine del cosmo), così come nella disposizione dei megaliti di Stonehenge. Quando comincia la scrittura e con essa ciò che noi intendiamo per Storia, sembra che quella identificazione della mente umana coi movimenti celesti cominci a venir meno; Platone è ancora "l'ultimo degli arcaici e il primo dei moderni"; con Aristotele la sapienza cosmica è già dissolta.
Quanto alla precisione, è "una passione di misura, che fa tutto centrato sul numero e sui tempi... In alto vi saranno i numeri puri, poi le orbite del cielo, più giù le misure terrestri, i dati geodetici, poi l'astromedicina, le scale e gli intervalli musicali, poi le unità di misura, capacità e peso, poi la geometria, i quadrati magici...". Gli egiziani simboleggiavano la precisione in una piuma leggerissima che serve da peso sul piatto della bilancia delle anime. "Quella piuma leggera ha nome Maat, Dea della Bilancia, Dea del rigore e della stretta osservanza, di quella implacabile giustezza che tien luogo di giustizia nello scompartire il bene dal male... Il geroglifico di Maat indicava anche l' unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto". Questa precisione sembra a Santillana molto più essenziale di quella della fisica moderna, cui dedica questo passo: "È ben vero che la realtà fisica per conto suo tira calci per vendicarsi dei suoi conoscitori, sparandoci in faccia una confusione di particelle elementari transeunti e mal distinte, insulto al buon senso, fra cui lo scienziato si aggira ormai come l'impallinato nella notte". (Citazione che merita di figurare in un'antologia ideale, a testimoniare il piglio e lo stile del Santillana scrittore, e la causticità del suo sarcasmo; ma che va situata alla data in cui è stata scritta, una ventina d' anni fa: prima, cioè, della nuova ventata d'euforia che - se bene intendo - è tornata a gratificare la fisica subatomica).
Giorgio de Santillana (1901 - 1974), romano, vissuto per trentacinque anni o più negli Stati Uniti dove era professore al M.I.T., è stato uno storico della scienza (Processo a Galileo è uno dei suoi libri più noti) che nella sua indagine sulla storia del pensiero sopratutto matematico e astronomico ha dato largo spazio al mito ("primo linguaggio scientifico") e all'immaginazione letteraria. La sua monumentale opera Il mulino di Amleto, scritta in collaborazione con una etnologa tedesca (allieva di Frobenius), Herta von Dechend, ha per sottotitolo Saggio sul mito e sulla struttura del tempo ed è paragonabile al Ramo d'oro di Frazer per la sterminata ricchezza di fonti antropologiche e letterarie che intesse in una fitta rete attorno a un tema comune. La chiave di tutti i miti, che per Frazer era il sacrificio rituale del re e i culti della vegetazione, per Santillana-Dechend sono le regolarità del tempo zodiacale e i suoi cambiamenti irreversibili su lunghissima scala (precessione degli equinozi) dovuti all'inclinazione dell'eclittica rispetto all'equatore. L'umanità porta con sè una memoria remota degli spostamenti celesti, tanto che tutte le mitologie conservano la traccia d'avvenimenti che si producono ogni 2.400 anni circa, quali il cambiamento del segno zodiacale in cui si trova il sole all'equinozio; non solo, ma quasi altrettanto antica è la previsione che l'incessante lentissimo movimento del firmamento si saldi in un immenso ciclo o Grande Anno (26.900 anni dei nostri).
I crepuscoli degli dèi registrati o previsti in varie mitologie si collegano a queste ricorrenze astronomiche; saghe e poemi celebrano la fine dei tempi e l'inizio d'ere nuove, quando "i figli degli dèi uccisi troveranno nell' erba i pezzi tutti d'oro del gioco di scacchi che fu interrotto dalla catastrofe". Risalendo dalle fonti della leggenda d'Amleto nelle cronache danesi e nelle mitologie nordiche, e coinvolgendo poi africani Dogon, induismo, aztechi, autori greci e latini, Santillana e Dechend rintracciano l'affiorare d'una prima problematica filosofica: l'idea d'un cosmo ordinato le cui norme risultano sconvolte da una catastrofe fisica e morale; e, in risposta a ciò, l'aspirazione al ritrovamento d'un'armonia.
Il mulino d'Amleto è stato tradotto in Italia da Adelphi l'anno scorso (era uscito in America nel 1969); se su queste colonne non se n'è parlato allora, è stato - come talora succede - proprio per il troppo entusiasmo di noialtri recensori, che ci ha fatto prima disputarci il libro tra noi, poi divorare le cinquecento pagine troppo in fretta, per poi lasciarci bloccati di fronte al compito di riassumerlo. La pubblicazione di Fato antico e fato moderno mi dà l'occasione di riparare almeno in parte, perché il volumetto uscito ora è un po' un' introduzione, una dichiarazione preliminare delle tesi dell'opera maggiore. Infatti il testo che apre il libro e gli dà il titolo è una conferenza che Santillana fece per l'ACI in varie città italiane nel 1963, e pubblicò poi su “Tempo presente” di Nicola Chiaromonte (in quegli anni una delle più belle riviste italiane). Ascoltando la conferenza nel 1963, ne ebbi come la rivelazione d'un nodo d' idee che forse già ronzavano confusamente nella mia testa ma che m'era difficile esprimere; e sarebbero state difficili da esprimere anche dopo, ma da quel momento sono stato cosciente d'una distanza da colmare, d'un qualcosa a cui "far fronte". (Santillana: "Ed è cosa da poco che il nome stesso della scienza in greco, epistème, significhi far fronte?"). Dico l'idea che nessuna storia e nessun pensiero umani possano darsi se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste indipendentemente dall'uomo; l'idea d'un sapere in cui il mondo della scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino. Rileggendo ora il testo, ritrovo l'emozione di quando Santillana uscì con l'esempio inaspettato di Pierre Bezuchov in Guerra e pace, che fatto prigioniero e in pericolo di vita guarda le stelle e pensa che tutto questo cielo è in lui, è lui.
Il tema comune dei quattro saggi di questo piccolo libro è il nesso tra Fato e libertà, cioè il posto dell'uomo nell'universo così come lo concepivano gli antichi, o meglio gli arcaici (e quegli arcaici conservatisi tali fino alle soglie del nostro tempo, cioè i cosiddetti primitivi): il Fato che sovrasta tutti, uomini e dèi (gli dèi sono identificati nei pianeti, che comandano ogni mutamento) e la libertà che può essere raggiunta solo da chi comprenda e rispetti le leggi e le misure del Grande Orologio.
Il Fato era dunque ben diverso da quella potenza imperscrutabile, oscuramente connessa con le nostre colpe, che è diventato dai tempi della tragedia greca fino ai nostri: al contrario, l'idea di Fato implicava la conoscenza precisa della realtà fisica, e la coscienza del suo impero su di noi, necessario e ineluttabile. I veri rappresentanti d'uno spirito scientifico erano dunque loro, gli arcaici; non noi che crediamo di poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento, e dunque partecipiamo d' una mentalità più vicina alla magia. Il coincidere col ritmo dell'universo era il segreto dell'armonia, "musica" pitagorica che ancora in Platone regola l'astronomia come la poesia e l'etica. Ma è anche il senso della necessità, quello che risorgerà in mutata forma con Keplero, Galileo, Bruno, "in cui l'intelletto si apre a fini che non son più limitatamente umani, e si sente di abbracciare e complettere il tutto in uno splendido amor Fati".
È dunque un determinismo rigoroso quello che Santillana sostiene? Certo in ogni teorizzazione in questo senso, dal Timeo di Platone alla predestinazione calvinista o all'abbandono islamico, egli trova motivi di consenso ("le più grandi energie libere della storia" sono state scatenate da idee che sembrano nate apposta per reprimerle), ma vediamo come egli continuamente contrappone due atteggiamenti diversi che si ripresentano in ogni epoca di fronte all'ineluttabile: da una parte un tragico senso di colpa e dall'altra la serenità classica di chi - "primitivo" o supercivilizzato - accettando la necessità stabilisce il proprio posto nel mondo, l'armonia. E certo le simpatie di Santillana vanno a questi ultimi - per quanto egli sappia con pari sensibilità evocare i valori degli uni e degli altri. Silenzio, musica e matematica: il programma pitagorico è contenuto in questo trinomio; e sui Pitagorici - comprensibilmente prediletti da Santillana - questo libro dà di scorcio definizioni illuminanti, così come un'ampia e convincente interpretazione di Parmenide. (Precisazioni che s' aggiungono a quanto è detto su entrambi gli argomenti in una precedente, molto utile opera di Santillana, Le origini del pensiero scientifico, Sansoni 1966, ora reperibile ai Remainder' s.) Ma è difficile stabilire nettamente dove Santillana è pro e dove è contro. Se talora egli sembra esaltare un'età dell'oro prealfabetica e tingere in nero la cultura tecnologica d'oggi asservita alla macchina, egli è pur sempre pronto a dissolvere ogni illusione idillica sulle civiltà arcaiche, mostrando tutti gli orrori e i traumi psichici che comportava il vivere a quei tempi; così come d'ogni situazione nuova sa mettere in luce i valori, le possibilità che realizza - insieme ai disvalori e alle perdite.
Uno straordinario saggio storico contenuto in questo volume nasce come relazione a un convegno di cardiologia, sui diversi tipi di stress a cui furono sottoposti gli uomini nelle varie società: una storia delle civiltà in negativo che non può essere utilizzata né dai sostenitori del progresso né dai loro antagonisti sistematici: ogni epoca ha le sue nevrosi collettive, e non è detto che fossero tutte inevitabili. "Lasciamo dunque le virtù del buon tempo antico. Lasciamo la douceur de vivre. La prima descrizione clinica di un manicomio è quella di Arthur Haslam, che fu primario di Bedlam. Vi si vedono non solo condizioni inconcepibili, ma casi di psicosi che non hanno riscontro nei nostri manuali. Un altro mondo".
Se il lettore di Santillana cerca delle generalizzazioni di cui convincersi su due piedi (il pensiero spazializzatore che domina la scienza negli ultimi secoli è male, mentre è bene il pensiero fondato sul tempo; oppure: la coscienza non aggiogata al pensiero individuale era un vantaggio sulle nostre angosce), può anche trovarle; ma saranno smentite alla pagina seguente, se non nello stesso capoverso. Il suo è il movimento stesso dell'intelligenza, che comprende più ancora che non giudichi, e talora giudica per comprendere, pronto a giudicare diversamente quando si tratta di comprendere una cosa diversa: atteggiamento necessario per lo storico, purché sappia evitare ogni meccanica dialettica così come ogni relativismo morale; lui ci riesce avendo sempre sveglio il senso dei valori: verità oggettiva ed empatia umana. Per esempio, tutti i benefici che gli psichiatri e i neurologi riscontrano nell'assenza di dubbio e di scelta, non possono far dimenticare a Santillana che ciò vuol dire anche assenza di sense of humour: una perdita che certo lui non si sarebbe sentito mai d' affrontare.


“la Repubblica”, 10 luglio 1985  

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