29.7.17

In morte di Cab Calloway, il re del jive jazz (Francesco Adinolfi)

Cab Calloway se ne è andato. È morto venerdì a Wilmington (Delaware) nella casa di cura in cui era ricoverato dopo l’ictus cerebrale dello scorso giugno. Aveva 86 anni e un fìsico sempre più debole. Te ne accorgevi già nell’85 quando Cab interpretò se stesso in Cotton club, il film di Coppola. È stato un artista fondamentale; e non solo dal punto di vista iconografico (l’abito zoot) o musicale (jump music, jump jive). Ma soprattutto in ambito vocale. Senza Cab il black english, il tratto linguistico distintivo dei neri non sarebbe stato lo stesso. Senza Cab tanti rapper non avrebbero avuto la rima sciolta, scioltissima. Negli anni ’30 lo chiamavano «superdude», superfico, il nero imprendibile, inafferrabile, teppistello di strada prima e poi performer a 360°.

«Vai al Cotton»
In quegli anni il pubblico bianco correva al Cotton Club di Harlem per sentire la sua orchestra, «vederlo» cantare Minnie the moocher, il suo massimo «pièce de resistance». Da quel momento fioccarono registrazioni e programmi radio. Dopo aver affiancato al Cotton Duke Ellington (il Duca si riposava e entrava l’orchestra di Cab), Calloway si prese tutto il palcoscenico. Che musica. Basta riascoltarsi 16 Cab Calloway classics. 1939-41 (Epic) per capire chi è stato. Per assaggiare quella voce da tenore istrionico che guidava il pubblico all’isterismo. È stato Calloway il primo a formalizzare la poetica del «singalong», botte e risposte cantate per minuti e minuti tra artista e pubblico. Lui faceva «hi-de-hi» e dietro la gente a rifargli il verso. E non solo al Cotton.
L’uomo in zoot bianco immacolato, con quel vestito/maschera dalla giacca lunga fino al ginocchio, pantalone a palloncino e capello extra large, chiedeva all’orchestra di seguirlo ovunque; e via nelle orecchie classici come The lady with the fan, Za-zu-zaz, Chop-chop Charlie chan, Hotcha razz-ma-tazz. Ma è solo nel ’38 che Cab formalizza per iscritto il suo codice linguistico. In quell’anno esce The new Cab Callo-way’s hipster dictionary, un libriccino che spiega come parlare per essere hip(ster), alla moda, in. Cab lo scrive e questa è la grande intuizione politica dell’artista. Lo scrive per i bianchi, li batte sul loro stesso terreno, la scrittura, la «cultura». Lo dedica agli hipster descritti da Norman Mailer in Pubblicità per me stesso o In un sogno americano. Bianchi che parlavano, agivano, si muovevano, si drogavano come i neri, fingevano - consciamente o inconsciamente - di sentirsi come loro. Peccato che la sera avevano un tetto dove riposare e quella pelle bianca che li rendeva intoccabili, garantiti; Cab, Charlie Parker e gli altri, invece, restavano sempre Parker e gli altri, sempre neri.
Calloway scrive il dizionario per i bianchi, i neri già parlavano come lui o sapevano sempre come attingere a quel grande serbatoio di erudizione orale che sta al cuore della cultura afro-americana. E nel libro spiega cos’è il jive scat, come si differenzia dallo scat formalizzato negli anni ’20 da Armstrong o dal linguaggio del minstrel show (spettacolo-parodia dei neri del sud in voga negli Usa dalla metà dell’800). Cab non riprende pedissequamente la lezione di Armstrong, non sostituisce le parole con suoni onomatopeici che imitano i caratteri di certi strumenti ma conia frasi, gioca sul nonsense. Musica l’inconscio, l’apparente ignoranza linguistica dei neri. Come lui faranno il pianista-chitarrista Slim Gaillard (inventore del «vout»), immenso manipolatore linguistico, il comico Pigmeat Markham e Eddie Jefferson che già in ambito bebop aveva dato forma al «vocalese», altra derivazione dello scat.
Impossibile, dunque, separare parole e musica dalla vita di Calloway. Insieme all’altosassofonista/cantante Louis Jordan Cab formalizzò la jump music; era uno stile rutilante caratterizzato perlopiù da tenorsassofonisti (gli honker) impazziti, da piccole orchestre che rifacevano il verso alle big band e si proponevano di «far saltare il blues». Il genere è alle radici del rock’n’roll e anticipa il r&b nel senso più codificato del termine.

Fratello blues
Per questo Calloway è splendido nel film Blues brothers. È lui il maestro, solo lui. Peccato che i «brothers» Belushi e Dan Akroyd non se ne accorgano, siano imbarazzantemente bianchi e troppo pieni di sé. Quando nel finale del film Cab intona Minnie the moocher la telecamera indugia soprattutto sui due rivelando una indifferenza di fondo se non una mancanza di rispetto per il talento del performer. Calloway, insomma, risulta solo un riempitivo. Sempre in ambito cinematografico fu lui nel film Porgy and bess (’52) a farsi chiamare Sportin’ Life e non è un caso che l'ultimo disco di Diamanda Galàs e John Paul Jones (ex Led Zep) si chiami così.
Nel film Stormy weather del ’43 Cab dimostrava la grandezza dell’entertainer nero. Cionostante è stato spesso accusato «dal basso» di aver amplificato e avallato la sindrome del «negro entertainer» (il nero sa solo ballare, è un pagliaccio/selvaggio con cui divertirsi e basta); non fu solo così. Per quanto manipolato «servì» come valvola di sfogo per tutti quei neri affogati nella grande Depressione e per quelli che negli anni ’40 sarebbero stati mandati in guerra in prima fila. E non è un caso che Calloway è uno dei performer più rispettati e amati della storia della cultura afro-americana. E ci piace ricordarlo con una frase che Ornette Coleman ripete spesso: «Sono già nero, non devo dimostrare a nessuno di esserlo. Nella mia vita ho solo cercato di migliorare la mia personalità per adeguarmi a qualsiasi ambiente».


il manifesto domenica 20 novembre 1994

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