28.7.17

Karl Polanyi (1886-1964). Lucido disincanto tra crisi e totalitarismi (David Bidussa)

Karl Polanyi (1886-1964) è un intellettuale paradossale. Alcune delle diagnosi da lui proposte sono fallite miseramente o hanno mostrato la loro fragilità (per esempio: il fallimento dell’economia di mercato, oppure la fine del mercato autoregolato. Idee che, rispettivamente, aprono e chiudono la sua opera più nota, La grande trasformazione, Einaudi). Ciò non toglie che il suo sforzo costante di leggere la realtà immediata sia affascinante e dimostra che si può essere smentiti dai fatti, pur vedendo correttamente i problemi che la realtà sociale ed economica propone.
La raccolta di questi scritti (Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963, Jaka Book, 2015), che copre l’intero arco della sua produzione lo conferma.
Karl Polanyi visse con difficoltà e sofferenza il restringimento degli orizzonti seguito alla Prima guerra mondiale, alla grande crisi, al trionfo dei totalitarismi, al clima della guerra fredda. Guardò con disincanto e scetticismo l’innamoramento della sua generazione per il marxismo, dottrina che vedeva inclinare verso il fideismo e convinzione politica che egli già nel 1919 paragona alla Chiesa.
Ebbe la percezione che una delle sfide che stavano di fronte alla crisi europea negli anni 20, crisi che un decennio dopo i totalitarismi avrebbero accentuato, consisteva nel pensare e proporre una nuova idea di libertà che tenesse conto del principio di responsabilità. Per Polanyi già allora la vecchia questione tra libertà negativa e libertà positiva - questione canonica proposta da Stuart Mill nel suo saggio La libertà e poi in anni più vicini a noi illustrata magistralmente da Isaiah Berlin - andava riformulata e poteva risolversi solo avendo chiaro (scrive nel 1927) che essere libero «non significa esserlo dal dovere ma tramite il dovere e la responsabilità». Una convinzione che ripete dieci anni dopo, quando ribadisce che la libertà autentica si misura nella condizione di accettare «la nostra parte nel male comune» e consapevoli che la società perfetta non esiste.
È da questa condizione di disincanto e di delusione che egli colloca la marea montante del fascismo nell’Europa degli anni 30 (non solo in Germania, ma anche in Austria, Paese in cui è vissuto esule per molti anni dopo esser fuggito dalla sua madrepatria, l’Ungheria). Un processo di delegittimazione della democrazia che irrompe in Europa all'indomani della Prima guerra mondiale e che a differenza di molti in quegli anni egli non vede solo come «malessere italiano».
Ma anche intravede il processo che inevitabilmente conduce Stalin al patto con Hitler nel 1939. Scelta che risponde a un principio di realpolitik, ma che significa, anche, fine della presunta funzione di “guida” che l’Urss ha incarnato o voluto rappresentare. «Ciò che l’episodio Stalin-Hitler provò definitivamente fu che la rivoluzione russa aveva superato la fase dell’effervescenza ideologica», scrive riflettendo su quella decisione per molti scioccante.
Allo stesso tempo è esemplare che egli colga nell’esperimento del governo laburista che tra il 1945 e il 1950 struttura lo Stato sociale e avvia la decolonizzazione, l’espressione di un Paese che vinta la guerra prova a trasformarsi per davvero, apparentemente ingrato rispetto a chi (Churchill) dalla guerra l’ha fatto riemergere. In politica, osserva Polanyi, contala voglia di provare e di rompere con le certezze. Un aspetto la cui eco è nelle note che nel 1945-1946 dedica al problema dell’istruzione per gli adulti, che non riduce solo a formazione professionale, ma come impegno verso l’acquisizione di una conoscenza generale.
Una riflessione che in Italia, venti anni dopo, fu la battaglia, spesso in solitudine, di Vittorio Foa.


“Domenica – Il Sole 24 Ore”, 22 maggio 2015

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