27.7.17

La lotta tra Moby Dick e il destino (Pierpaolo Ascari)

«La gente della terra è perlopiù così ignorante di alcune tra le più evidenti e tangibili meraviglie del mondo, che senza qualche accenno ai nudi fatti della baleneria, storici e di altro ordine, potrebbe ridere di Moby Dick come di un’assurda favola o, cosa ancora peggiore e più odiosa, di un’orrenda e insopportabile allegoria». Se decidessimo di assegnare un significato ingenuo alle parole del narratore del romanzo di Melville saremmo obbligati a inserire nel girone degli ignoranti un discreto numero di critici e - cosa ancora più impegnativa - tutti coloro che da centocinquant’anni si cimentano nella lettura di Moby Dick.
Del resto, che quel narratore non sia intenzionato a porsi sullo stesso piano del pubblico e che lo affronti, anzi, con una buona dose di ambiguità, lo potevamo intuire sin dalle prime battute, in uno degli esordi più celebri della storia del romanzo occidentale. Il pubblico ha bisogno di un prestanome che garantisca per la storia che si accinge ad ascoltare? E sia, il narratore lo accontenta: «Cali me Ishmael» - dice - e facciamola finita. Basterebbero anche solo questi pochi indizi per attribuire a Ismaele uno spirito autoritario, rivestito di moralità e dissimulato nella giustapposizione tra i suoi poteri di testimone e i poteri, più evidenti, del tiranno del Pequod. Quasi a subirne ..il crisma, nero, £awaid Morgan Foster condannerà al fallimento qualsiasi tentativo orientato a leggere il romanzo in chiave allegorica, archiviando il caso con un tono perentorio: «Nulla si può dire a proposito di Moby Dick se non che si tratta di una battaglia. Il resto è canto». ^
Un lettore diverso, invece, Cyril Lionel Robert James, decide di trasformare Ismaele nel proprio og getto di analisi. Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo è l’importante referto di questa analisi dalla sfortunata vicenda editoriale, che oggi Ombre Corte traduce finalmente in italiano. Nato a Port of Spain nel 1901, pioniere nello studio delle condizioni soggettive della schiavitù, nipote di schiavi ma cresciuto all’insegna della più classica formazione britannica, James occupa un posto di rilievo nella storia del marxismo. Coinvolto nell’elaborazione di un programma che consentisse al Socialist Worker’s Party di attivare la mobilitazione delle comunità afroamericane, a James appaiono subito chiare le insolvenze di una prospettiva limitata alla questione di classe: un paradigma che giudica incompleto, troppo «meccanico» e incapace di cogliere l’originalità di quelle forme di oppressione che vengono esercitate ai margini del ciclo produttivo.
Senza mai rompere del tutto con i vizi e le virtù della critica dell’economia politica - come ha scritto Federico Gattolin (C.L.R. James. Il Platone nero, Prospettiva edizioni) - James è tra i primi, comunque, a lamentarne le asfissie. Ma un curriculum di questo tipo, negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Cinquanta, a pochi mesi dall’esecuzione dei coniugi Rosenberg, non può portare che guai. James viene rinchiuso tra i prigionieri politici di Ellis Island ed è sull’isola, nel 1952, sotto la rigida sorveglianza di un «lettore istituzionale» come l’Fbi, che lavora al saggio su Melville. Un lettore istituzionale che, qualora l’analisi di Moby Dick dovesse suscitarne le premure, rischierebbe di trasformarsi nel più ingombrante dei lettori impliciti. Il rischio è concreto.
Per James, infatti, la grandezza di Melville consisterebbe nell’avere situato Ismaele nel solco di un processo storico segnato dalla continuità tra le nevrosi del capitale e il totalitarismo, una realtà che «in America si poteva già intravedere» nel 1851. Una realtà che si rende osservabile solo nel momento in cui da «coscienza critica di Achab», rappresentante di una proposta esegetica e di una nazione che si presumono innocenti, Ismaele si trasforma nell’«alter-ego intellettuale» del suo capitano. Qui, nella trama di questa degradazione, si annidano i meriti e le difficoltà di una lettura comunque formidabile, resa possibile da una premessa di metodo per molti versi contigua ai saggi sul realismo di Lukacs.
Ismaele è solitario, di buona famiglia newyorkese e di buone letture, isolato dall’equipaggio e dalle relazioni «spontanee» che l’equipaggio sa instaurare al proprio interno, con il mare e con gli strumenti di navigazione. Del suo orribile capitano si potrebbero dire le stesse cose. Entrambi rimangono rinchiusi in un punto di vista ancora una volta «meccanico» (che i francofortesi avrebbero definito «strumentale»), una prospettiva inflessibile alla quale sottomettono la natura e sacrificano se stessi: Achab all’inseguimento della balena bianca, Ismaele alla ricerca di una nuova patente sociale. Il loro rovesciamento della razionalità mercantile nel tentativo estremo di opporsi al capitalismo di Nantucket, ne mantiene intatti la forma logica e produttiva, le dinamiche di sfruttamento della natura e il sadismo.
Achab, negli abiti del tiranno, è una premonizione di Hitler e di Stalin. Ismaele incarna il tipo intellettuale, presente «all’angolo di ogni strada» e pronto a esercitare la forza dell’astrazione laddove i dittatori manipolano le masse e deportano gli avversari politici. La conclusione di James, allora, non potrebbe essere più chiara: Achab, Ismaele - e, con loro, l’America che Melville osteggiava - sono condannati allo stesso destino suicida di Stalin e del Terzo Reich.
Eppure Moby Dick non termina qui, con l’inabissamento del Pequod e con l’inferno che il capitano e il suo alter-ego avrebbero stivato, come una bomba a orologeria, sotto il ponte della baleniera. Perché all’oceano che si richiude sfuggono quattro assi di legno e un epilogo. Grazie a un «ingegnoso meccanismo a molla» Ismaele può rimanere a galla: gli squali gli passano «accanto mansueti» e i falchi lo sorvolano «col becco inguainato», per due giorni, prima che l’equipaggio di un’altra imbarcazione lo avvisti e lo tragga in salvo. Deve così le sue prerogative di testimone alla tecnologia, a un patto di non belligeranza con il mare e alla comunità dei marinai. È, per un momento soltanto, un abitante del mondo armonioso che Melville avrebbe tentato di opporre al «mondo in cui viviamo», all’individualismo liberal e alla pianificazione sovietica.
James cancella questo momento, forse per riunire nella catastrofe i destini paralleli del capitano e del suo alter-ego, probabilmente per non esporsi alle ritorsioni di quel lettore implicito che lo ha tormentato nelle difficili giornate di scrittura e che si sarebbe pur sempre potuto immedesimare con la raffigurazione agiografica di Melville. Perché ciò che trascura è un segmento della storia nel quale - a volerlo decodificare sulla base delle sue stesse premesse - tra la voce di Melville e la voce di Ismaele si viene a creare una distanza inferiore a quella che Marinai, rinnegati e reietti intendeva preservare.
Salvare Melville significava concedere agli Stati Uniti una speranza, resa verosimile dall’ostensione di un contenuto nazionale interdetto alle patologie del narratore. Ma adesso, quando il romanzo termina davvero, l’intellettuale di New York che rifornisce la sua storia di documenti falsi e di prescrizioni non è più così diverso dall’autore che lo ha messo in scena. E mentre Ismaele riorganizza il mondo nelle rubriche della baleneria, per esaurirne i confini e la storia in un quadro totale - simile all’ufficio delle lettere smarrite di Washington in cui, due anni dopo, il narratore di Bartleby vorrà rinchiudere il dramma dell’«umanità» intera - siamo indotti a sospettare che lo scrivere romanzi non sia del tutto immune dalle tentazioni di dominio che Cyril Lionel Robert James si ostinò a circostanziare, forse, nell’inutile tentativo di salvare se stesso.


“il manifesto”, 26 novembre 2003

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