26.7.17

Remi, Huck e gli altri. I senza famiglia, pilastro dei libri per l'infanzia (Francesca Lazzarato)

«Sono un trovatello. Ma fino all’età di otto anni ho creduto di avere, al pari degli altri ragazzi, una madre, poiché quando piangevo una donna mi stringeva così dolcemente tra le sue braccia, cullandomi, che le mie lacrime cessavano di scorrere».
Raramente si è offerto, al giovane lettore, un incipit perentorio e preciso come quello che Hector Malot scelse, nel 1878, per Sans Famille, feuilleton di robustissimo impianto dedicato a sua figlia Lucie. Nella frase d’attacco sono risolti sia la figura del protagonista, la cui qualità di enfant trouvé è subito svelata, sia il nodo essenziale della vicenda, poiché appare ovvio che, dopo aver avuto un modesto assaggio di amor materno, l'eroe della storia tenterà l’impossibile per gustarne di nuovo il sapore.
Il fulminante «sono un trovatello» con cui Remigio si presenta non connota solo un’autentica entrata a effetto, ma contiene ed esprime l’universo del libro per l’infanzia, popolato come nessun’altro di orfani ed esposti, di abbandonati e trovati, di mamme perdute e padri assenti, insomma di bambini soli, impegnati in avventure che riguardano tanto la sopravvivenza del piccolo e del debole in un mondo ostile abitato da mostri e giganti, quanto la fantastica ricerca, attraverso un viaggio di tipo scopertamente iniziatico, di un’identità da guadagnare.
Per l’uno e per l’altro verso, il romanzo per bambini s’imparenta alla fiaba e addirittura al mito, ove l’eroe è sovente un bastardo («Sargon il re potente, il re di Agade io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non l’ho conosciuto»...), uno scambiato, un orfano, qualcuno che viene gettato nelle braccia della sorte da un difetto di nascita: e tanto più questo è grave, tanto più gloriosa sarà la rivincita, la conquista di un regno e di un trono.
Ma non è solo per meglio innalzarlo che l’eroe bambino è inizialmente umile o umiliato; nota Beatrice Solinas Donghi, in La fiaba come racconto (Marsilio 1976), che i genitori o chi per loro sono un intralcio: la loro protettiva presenza impedisce al racconto di decollare, e diventa indispensabile fame dei cari estinti, degli assenti più o meno giustificati e, a volte, degli snaturati (è Marc Soriano a sottolineare, nel suo studio sui Contes di Perrault, che l'indegnità des parents è una costante fiabesca), come accade nel romanzo popolare, dal rosa all’appendice.
Legati a ragioni simboliche quanto narrative, nonché alla rêverie infantile che Freud chiama «romanzo familiare» (ossia l’idea d’esser figli d’altra e più potente famiglia, ben diversa da quella che ci ha allevato), l’assenza e l’abbandono del genitore, come la solitudine e i perigliosi percorsi dell’infante sono anche riflesso ed eco di condizioni storicamente riconoscibili. I piccoli protagonisti delle vicende narrate da Thouar e Tarra, da Dickens e da Malot potremmo incontrarli anche nei registri e negli elenchi delle Opere Pie che dal medioevo cominciarono ad accogliere gli «inventi» e i «fittatelli», e che nel secolo scorso si assunsero il compito non solo di allevare, ma anche di governare e indirizzare l’infanzia abbandonata (traviabile e potenzialmente «pericolosa» per la società), convertendola in forza lavoro a basso costo.
Personaggi come il Remigio di Sans Famille e l’Oliver di The Adventures of Oliver Twist sono specchio di una realtà infantile simile a quella descritta da Jack London in The People of Abyss (frutto di una discesa nell’infemo dell’East End londinese compiuta nel 1902), o da Paola Carrara Lombroso in La vita dei bambini, libro degli anni ’20 che si conclude con il racconto di strazianti storie di bimbi poveri, destinati a una via fatta di «sofferenze, lavoro passivo e soggezione».
A differenza dei piccoli torinesi derelitti citati dalla Lombroso, però, Remigio e Oliver sono eroi borghesi, tenuti a non smentire la loro «buona» ancorché ignota nascita, che mantengono intatta la loro innocenza pur tra tante peripezie, e che alla fine si vedranno aprire le porte di un futuro da «padroni delle ferriere». Per loro fortuna, «le belle fasce hanno detto il vero», e il trionfo degli orfani conculcati diviene anche quello di una classe sociale che chiede ai propri figli, ricondotti a casa dalla mano del destino, di riconoscersi nei suoi valori, rinunciando con gioia alla ribalda e anarchica libertà dello straccione e del senza famiglia. A rivendicarla, sia pur senza troppe speranze, provvede piuttosto un altro tipo di trovatello quell’Huck Finn che Leslie Fiedler definisce «un orfano adottato da vedove e zitelle, derelitto, perseguitato dal suo stesso padre, incompreso dalla comunità rispettabile» e, in conclusione, «vero ragazzo cattivo» tra i tanti della letteratura americana, perché indipendente e ribelle.
E mentre Remi si gode, nel castello di Milligan Park, «il nome onorato dei suoi avi» e il considerevole patrimonio, Huck medita di partire verso i Territori indiani, perché «zia Sally vuole di nuovo adottarmi e incivilizzarmi, e quella è una cosa che proprio non mi va».
Ma non a tutti è dato di vivere su una zattera, navigando lungo un grande fiume e spesso l’abbandono coincide con l’ingresso in una famiglia vicaria, composta di parenti malevoli o distratti... È un destino che tocca in particolar modo alle bambine: di rado l’autore di libri per l’infanzia acconsente a mandarle raminghe e indifese per il mondo, e preferisce sistemarle presso zie perfide o nonni scorbutici. Ma anche a esse è assicurata la finale epifania che attende orfani e trovatelli dei libri per bambini Un’epifania garantita anche quando il punto d’arrivo non è la Famiglia, ma l’Istituzione, come nella parabola fascista di Giovanni Ernesto Nuccio, Il richiamo dei fratelli (1934). Nuccio inserisce due orfanelli siciliani in una «Casa della maternità» così descritta: «Nessun fanciullo italiano, di quelli che non hanno genitori, deve più patire fame, freddo o abbandono, a migliaia vengono curati e raccolti amorosamente, e tutti trovano una casa e una madre e tanti fratelli...». Accanto alla direttrice dagli occhi turchini, Mamma Alba, ecco apparire anche un padre: «Lui, il Bersagliere dalle cento e una ferita, che non si lamentò mai! Lui che comanda il Bene!». Così, attraverso un’istituzione «totale», l’immagine santa della famiglia viene comunque ricomposta, e il trovatello conosce la sua apoteosi quando si trasforma in Balilla.
Ben diverso è lo sguardo che sull’istituzione ci consente di gettare Rasmus pa luffen (ovvero «Rasmus il vagabondo») che Astrid Lindgren pubblicò nel 1956, narrandoci la vita di un orfanotrofio svedese inizio secolo, dove i bambini sanno di dover parlare con «quel particolare tono da trovatello che piace al prete e alla direttrice», e dove si attende con ansia («Oh dio, fa che vogliano me!») la visita di possibili genitori adottivi, che però scelgono sempre le bambine coi ricci. Da questo limbo costretto e doloroso Rasmus fugge per vivere le consuete peripezie dei piccoli e degli orfani, e per trovarsi, come nelle migliori tradizioni, una famiglia... Ma non sarà un’agnizione a farlo appartenere a qualcuno, bensì l’amorosa tenacia con cui vorrà seguire il vagabondo che si è scelto per padre. Rasmus finisce per diventare un raro esempio di orfano accolto, ma non «beneficato», di trovatello che è persona e non solo stereotipo: segno di una nuova capacità propositiva dello scrittore per l'infanzia, che riesce a prescindere anche dal lieto fine. La contrapposizione abbandono/controllo (facce diverse di una medesima medaglia) tipica del romanzo ottocentesco, sfuma e si fa più ambigua, più articolata, affidando il rapporto adulto-bambino alla reciproca accettazione e a una scelta consapevole, ma prendendo atto di sconfitte e di delusioni, destinate, come nella vita, a non essere sanate
E mentre la realtà irrompe nella fiaba dell’orfano allo sbaraglio, diventa indispensabile accennare a un altro approdo, offerto da quel filone della letteratura per l’infanzia che propone come protagonista l’orfano per scelta, il bambino senza genitori che vive, da solo, un’avventura destinata a condurlo nei più remoti «altrove» o ad affrontare il quotidiano in piena e motivata libertà. Non è un trovatello, ma qualcuno che non si fa trovare, un imprendibile folletto che non abbandonerà mai l’Isola che non c’è per farsi adottare, crescere e andare a lavorare nella City. Appartengono a questa razza privilegiata i ragazzi perduti, come Peter Pan o il Martin creato da W.H. Hudson, ma anche le bambine forti e beffarde, come Pippi Calzelunghe, che a differenza di Alice e Dorothy, torna da papà solo in visita, e mai per troppo tempo.
Spensierati, innocenti e senza cuore questi eterni orfanelli hanno compiuto una scelta più radicale di quella attribuita da Roald Dhal al suo ultimo personaggio, la geniale Matilde che decide di abbandonare due genitori «indegni» per vivere con l’amata maestra. Perpetuamente in viaggio, essi ci propongono un’infanzia onnipotente che assurge alla dimensione di archetipo. E non si capisce se la loro immagine nasca dal desiderio e dal rimpianto dell’adulto davanti a un’immagine fuggitiva e quasi divina, o dal sollievo di chi è infine riuscito a far tacere ogni voce nella stanza dei bambini, convincendoli a volare lontano, verso «la prima stella a destra e poi avanti fino al mattino» : i Peter Pan sanno badare a se stessi, ma dei trovatelli qualcuno dovrà pure occuparsene.

"la talpa giovedì - il manifesto", 20 aprile 1989

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