8.7.17

L’orgoglio bellissimo e le geniali dissonanze di Saverio Vertone (Giuliano Ferrara)

L’orgoglio di Saverio Vertone era immenso e bellissimo, un peccato che gli guadagnerà diecimila paradisi. Spuntava ruvido, abrasivo come il suo carattere di carta vetrata, e a tratti suonava come un Leitmotiv wagneriano, sempre esprimeva una geniale dissonanza, regolarmente pagata come un pegno per la dignità del suo modo di vivere. Il padre era un colonnello dell’esercito italiano morto in Russia. “Che cosa ne pensi”, aveva scritto nell’ultima lettera alla moglie, una Grimaldi di Venezia chiamata Tilin e molto amata, “del possibile ritorno del tuo terribile marito?”. Per amore orgoglioso del padre, il giovanissimo Saverio, che era nato a Mondovì e studiava nel liceo di Cuneo da cui la meglio gioventù si precipitò a riempire le file di una fulgida resistenza di montagna all’occupante tedesco, alleato divenuto nemico, si arruolò senza tentennamenti nella Repubblica sociale e fu ferito. Visse i giorni della Liberazione di Cuneo nascosto e protetto dagli amici vincitori, perdente lui, e che perdente, nel segno dell’infinita precarietà e dell’ostracismo obliquo a cui si sottoporrà, con dolore ma tutto sommato volentieri, negli anni della Repubblica democratica.
Fu magazziniere alla Fiat poco più che ragazzo, si trasferì a Torino dove è morto in casa assistito da quell’incanto di giovane moglie, Rosalba Bertolini, e studiò irregolarmente, prima medicina e poi lettere classiche. Non si laureò mai perché ebbe in prestito dal grande glottologo Benvenuto Terracini un libro raro, che abbandonò sulla panchina di un parco e non poté mai restituire al suo relatore di laurea. Il suo orgoglio era puro e severo, ma sempre equilibrato dalla distrazione, dalla passione, dall’incuranza di sé, da una generosità abissale. Si forgiò un’alta e rigorosa cultura di germanista, nutrita e speziata da letture onnivore, dalla politica, che amò mai veramente ricambiato, e dall’ideologia. Torino e la seconda metà del Novecento, l’amicizia e l’inimicizia, il combattimento senza pace: queste le sue patrie, e non è facile pensare a un senso della nazione, a un’italianità fervorosa, cosmopolita dal di dentro di confini certi, paragonabile alla sua.
Fu straordinario causeur, intellettuale versatile che amava teatro e musica senza ostentazioni, fu scrittore e saggista e giornalista di eccezionale valore e a un certo punto, traguardo cercato con sovrana sprezzatura, perfino di successo. Come tutti gli orgogliosi di talento, fu spesso umiliato e offeso. Ma era di ferro, se ne andava per la città con passo militare, deglutiva e risputava l’insolenza del mondo, e la sua stessa insolenza, restituendo i colpi e uscendo sempre blasonato da atroci sconfitte mondane. Come fascista adolescente, visse la festa della Repubblica in clandestinità. Comunista del Pci, visse gli anni Cinquanta e il boom al margine degli apparati, e compatito dalla nuova classe dirigente liberale che intanto gli si faceva ricca intorno e non capiva le sue abitudini austere, le sue passeggiate solitarie, la sua eccellente disintegrazione sociale. Loro giocavano a tennis, lui giocava a bastonga con il suo amico Luciano Pistoi, il grande mercante d’arte. Il gioco da samurai consisteva in un grido e nell’aggressiva rotazione aerea di un bastone, Saverio lo prese nei denti e gli si ruppero precocemente tutti. Ma restò grande e dolce il suo sorriso, felice rimase la sua risata, unico il suo charme di maledetto beniamino della vita che chiamava amore soprattutto quando litigava di brutto, interrompeva relazioni speciali, si licenziava o veniva cacciato dalla Rai e da ogni dove si intuisse una prospettiva di stabilità, affrontava la tempesta futile e violenta del 1968 con sensibilità coriacea, da vero duro. A Milano, faceva l’editor presso l’editore De Donato, fu visitato dai contestatori culturali, giovinastri che lo appesero al muro e spensero le cicche delle sigarette sui divani in segno di sfregio: è un suo racconto, terrorizzato ma spiritoso e allegro, con il quale allietava gli amici negli anni Settanta.

Se ne andò dal Pci quando il Pci se ne andò da sé stesso, e il nuovo partito era troppo corpulento e integrato per uno come lui, e al tempo del primo ribaltone passò a sorpresa nel partito dei professori, addirittura con Berlusconi. Durò poco. Berlusconi aveva capito il suo valore e gli chiedeva immagini per i discorsi, come più tardi farà il professor Tremonti, ma una volta gli contestò amabilmente piccato di non avere applaudito un suo discorso in non so più quale riunione di partito. Ripassò a sinistra, dove fu eletto a sorpresa e a scorno dei competitori per una seconda legislatura da senatore, la sua unica vera vittoria in una lunga vita incoronata dall’assenza di prestigio sociale e da un’autorevolezza molto torinese e molto segreta. Era stato corrierista e aveva scritto per qualche anno puttanate vagamente forcaiole (in cui non credeva) contro la Repubblica dei partiti. Amava così tanto sbagliare, pentirsi, pagare per i suoi errori, rinascere alle sue vere idee con freschezza e innocenza di cuore. Un amico meraviglioso, anche di questo giornale, un rasoio di intelligenza, un gentiluomo sempre scorretto, un italiano di cui vantarsi.

"Il foglio", 1 luglio 2011

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