1.8.17

Amore pop. I dieci anni a Piazza del Popolo di Paola Pitagora (Emanuele Trevi)

Al centro Paola Pitagora e Renato Mambor


C'è un ciclo di romanzi fantastici di C. S. Lewis, molto popolare in Inghilterra, dove un gruppo di bambini entra in un regno misterioso, un fiabesco universo parallelo, attraverso un vecchio armadio di casa. È una bella fantasia, corrisponde a una speranza che ci portiamo tutti in cuore. E in fondo, ci sono solo due cose nella nostra vita reale che corrispondono all’armadio magico di Lewis, l’armadio che conduce in altri mondi: l’amicizia, e, in maniera molto più drammatica e incisiva, l’amore. Si dice generalmente che amare qualcuno rappresenta un’occasione per conoscere bene se stessi, capire i propri limiti e le proprie possibilità. Questa teoria narcisistica (il cui trionfo sta a mio parere nei Frammenti di Roland Barthes) sarà anche fondata, almeno per qualcuno. Ma nessuno può negare una verità palese e universale, anche se poco «pensata»: una storia d’amore, è sempre un grande evento di estroversione dello spirito. Il desiderio è prensile. Assorbe conoscenze, con intuito e velocità vertiginosi, ed è costretto a farlo perché vuole condividere. E dunque, come tutti sappiamo bene, di cose di cui non ci importava niente, o di cui non sospettavamo nemmeno l’esistenza, a un certo punto ci importa moltissimo, e arriviamo anche a conoscerle profondamente, perché l'amore vuole questo, nel bene e nel male. L'innamorato è sempre un personaggio romanzesco, in una certa misura: perché si trasforma, ridisegna il suo mondo, esce dal seminato.
È fin troppo ovvio, inoltre, che se la storia d’amore è lunga, ingarbugliata, piena di passione fisica e litigi anche violentissimi, infelicità di vario grado, ore passate a scriversi o telefonarsi, buoni propositi, momenti ineffabili di comprensione e tenerezza, il senso di vivere in un perenne stato d’emergenza e caos interiore... ebbene sì, durante quella storia, si sta imparando tutto quello che davvero, nella vita, è possibile imparare.
Quando Paola Gargaloni, in arte Paola Pitagora, conosce Renato Mambor, a Roma nel 1958, lei ha sedici anni, lui ventidue. Nei dieci anni successivi, svilupperanno i loro rispettivi talenti: lei diventerà l’attrice che tutti conosciamo, protagonista dei Pugni in tasca di Bellocchio e icona pop nei panni di Lucia nei Promessi sposi televisivi. Mambor, che all’inizio del racconto lavora ancora alla pompa di benzina dei genitori, dalle parti di Cinecittà, sarà tra i pittori eminenti del grande fermento artistico che si chiamerà Scuola di Piazza del Popolo, assieme a Schifano, Festa, Tacchi, Angeli, Pascali, Giosetta Fioroni, Twombly, Kounellis...
In Fiato d'artista. Dieci anni a Piazza del Popolo (Sellerio, pp.175, L.18.000, introduzione di Angelo Guglielmi) Paola Pitagora racconta quel clima felice dalla distanza dell’oggi, ma recuperando in corsivo molte lettere e brani di diario, suoi e di Mambor. Il titolo scelto è quello di un’opera di Piero Manzoni: fiato d’artista conservato in un palloncino, con la stessa filosofia della più celebre merda d'artista nelle scatolette sigillate.
Dicevamo dell’armadio magico dell’amore. C’è chi impara le delizie della musica barocca, chi impara a cucinare ricette complicate, chi a farsi le canne... a Paola Pitagora, singolarissimo tra i destini, è capitato di piombare nel bel mezzo della Storia dell’Arte - il più inabitabile, forse, degli universi, per chi non è del mestiere. È affascinata da quell’esplosione di colori squillanti (i «toni smalto per unghie» di cui parla Goffredo Parise a proposito di Giosetta Fioroni), dalla novità dei materiali, dalla genialità di galleristi come Plinio de Martiis e, un po’ più tardi, Fabio Sargentini. È testimone di una sperimentazione che investe i modelli d’esistenza alla pari delle forme artistiche - dando luogo a una leggenda dura a morire, anche oggi che il Caffè Rosati è ormai solo uno dei tantissimi luoghi opachi e indefinibili di una città socialmente frantumata, senza più «conversazione», senza più baricentri culturali e osterie a buon mercato e incroci significativi tra pittura, poesia, musica, arte della maldicenza, arte del perdere tempo...

Tutte cose, probabilmente, fin troppo risapute: ma come le racconta Paola Pitagora, bisogna ammettere, non le aveva mai raccontate nessuno. Perché Fiato d’artista contraddice una regola essenziale del libro di memorie, che è quella di mettere in scena un’identità, un soggetto singolare, che racconta certe sue esperienze, una sua via nel mondo. Questa strategia, in fondo, sarà sempre meno interessante di un esperimento come quello tentato da Paola Pitagora, che nel suo libro divagante e disordinato crea lo spazio ideale per un soggetto plurale: un uomo e una donna che, al momento di conoscersi, non fanno quarant’anni in due e che attraversano assieme, facendosi molto bene e molto male, le loro linee d’ombra. E in questa ostinazione duale, sta la grande sapienza del libro, la sua capacità di far slittare, di far giocare il punto di vista, di farlo rimbalzare perpetuamente tra i due poli della storia, tra maschio e femmina. E questo strano animale a quattro gambe che parla nel libro, crea davvero un mondo tutto proprio e inconfondibile - perché è un mondo totalmente erotizzato. Tanto che, mentre leggiamo quest’operetta folle e dolcissima, senza nessuna pretesa di «stile», ci rendiamo conto che, finito l’eros, finirà anche lo spazio del racconto, le cose perderanno di narrabilità. E se il 1968, con la nascita di un’«avanguardia diffusa» e la morte in moto di Pino Pascali, spazzerà via la piccola utopia di Piazza del Popolo, Paola Pitagora racconta pure questo tramonto collettivo, ma ci confessa che lei, per quanto la riguarda, non era più lì - o stava lì da sola, che è la stessa cosa. Iniziato con qualche letterina d’amore scambiata tra una ragazzina borghese e il «benzinaro» di Cinecittà, il racconto termina veramente un po’ prima della fine materiale del libro, quando si parla del momento in cui due persone, che si sono molto amate, fanno l’amore l’ultima volta. «I corpi consapevoli si toccano, si lasciano andare, ma qualcosa in loro avverte che è diverso: uno sguardo, un’esitazione o una fretta impercepibile, il corpo amato si appresta a divenire corpo estraneo. Io avevo le cellule innamorate, in consistente ritardo sulle ragioni del cuore, le cellule si sa, sono più lente». Con la sua assurda punteggiatura, Paola Pitagora ci sta raccontando una grande verità: il cuore più veloce delle «cellule», già altrove mentre i corpi sono ancora uno sopra l’altro, uno dentro l’altro. L’animale a due teste, l’animale amoroso si è diviso: e da questo punto in poi, non c’è davvero più nulla che sia possibile raccontare - o bisogna inventare un’altra storia, infilarsi in un altro armadio.

alias il manifesto, 15 giugno 2001

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