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Un'infanzia povera,
l'ostilità dell'élite letteraria, ma infine la gloria agognata
Se vuoi conoscere la vita
di un autore, non leggere la sua autobiografia. Valido per quasi
tutti gli scrittori passati, presenti e futuri, il monito si rivela
particolarmente utile per Hans Christian Andersen, di cui nei giorni
scorsi la casa editrice Donzelli ha mandato in libreria un
corposissimo (più di settecento pagine) volume curato da Bruno Berni
e intitolato La fiaba della mia vita. Già il titolo, in
effetti, dovrebbe mettere in guardia i lettori: più che raccontare,
con la sincerità che oggi ci sembrerebbe obbligata, le principali
tappe della sua esistenza, quello che a Andersen preme è dimostrare
al mondo, e forse ancora di più a se stesso, di avere avuto una
sorte eccezionale, di essere - lui, nato poverissimo in una famiglia
disastrata, oggetto di scherno e ostilità nel corso della
giovinezza, costretto anche in età matura a fare i conti con la
presunzione e la boria dei ricchi - un eroe come quelli dei suoi
racconti. Insomma di essere - per evocare quella che forse è la sua
fiaba più nota - il brutto anatroccolo che dopo mille vicissitudini
si scopre gloriosamente cigno.
Non a caso Andersen
cominciò a scrivere di sé ancora molto giovane, a 27 anni, prima
cioè di raggiungere la fama e di diventare (come è del resto ancora
oggi) l'autore danese più tradotto al mondo, perfino più del quasi
coetaneo Soren Kierkegaard, con cui tra l'altro ebbe - come ricorda
Berni nell'introduzione - un battibecco critico in età giovanile.
«Leggevo una quantità
di biografie di uomini famosi, mi facevano un effetto singolare, la
mia fantasia era aperta al mondo fiabesco, mi immaginavo la vita come
una fiaba e non vedevo l'ora di potervi comparire anch'io nel ruolo
dell'eroe», scrisse appunto in quel primo abbozzo di autobiografia
elaborato - sottolinea Berni - quando ancora non aveva pubblicato, e
neppure scritto, né romanzi né fiabe, e produceva quasi
compulsivamente versi e operine teatrali di valore non eccelso.
«Il mio destino non
sarebbe potuto essere più felice e saggio, né governato meglio»,
si vanta invece lo scrittore nella prima pagina dell'autobiografia
composta nella maturità, segnando fin dall'incipit quello che sarà
il tono di tutto il libro. Non che manchino le avversità lungo
questa narrazione, che segue la vita dell'autore dalla nascita a
Odense il 2 aprile 1805 fino al cinquantesimo compleanno e oltre, in
una serie di aggiornamenti successivi. Anzi: la sua vita misera di
bambino delle classi inferiori, le tante umiliazioni subite durante
il periodo della scuola, l'ostilità prolungata
della società letteraria
danese, che rifiutava di capire la qualità di un'opera
straordinariamente originale e innovativa, nulla di tutto questo
viene taciuto da Andersen. Ma la povertà della sua famiglia, come i
rimproveri dei professori o le critiche negative rivolte ai suoi
libri (tutti puntigliosamente elencati, come tanti sassolini nelle
scarpe che lo scrittore ormai famoso pare ben deciso a togliersi)
diventano nel racconto altrettanti espedienti narrativi di cui
Andersen si serve per mettere in risalto la gloria ottenuta,
gliomaggi entusiasti e le dichiarazioni sfegatate di amicizia rivolte
da uomini potenti o famosi.
A tratti questa continua,
perseverante autocelebrazione rischia di assumere tratti grotteschi.
Quando per esempio Andersen racconta di essere stato accolto con
infinito giubilo da Charles Dickens, uno degli scrittori da lui più
amati, e dalla sua famiglia, è difficile trattenere un sorriso
pensando allo stesso episodio, così come fu vissuto dall'altra
parte. Ricorda infatti ancora Berni che l'autore di David
Copperfield, alla fine del soggiorno del capriccioso “amico” in
casa sua, scrisse sullo specchio della camera degli ospiti: «Hans
Andersen ha dormito in questa stanza cinque setti-mane. Alla famiglia
sono parsi SECOLI!».
Difficile dunque, e
fuorviante, leggere La fiaba della mia vita in cerca di
verità. Oltre tutto Andersen, pur senza mentire mai, decise - e come
non capirlo? - di omettere tutto quello che avrebbe potuto incrinare
la paziente costruzione delsuo personaggio. Nel libro non si fa
parola, per esempio, dell'alcolismo della madre (trattato invece, in
una rassicurante terza persona, in una fiaba tra le meno note, Non
era buona a nulla), né si accenna mai alla sorellastra, prima
prostituta e poi lavandaia, che lo scrittore non aiutò mai e che
evitava di vedere. E un silenzio comprensibile - dati i tempi - cala
sull'attrazione dello scrittore per gli uomini, testimoniata invece
dall'epistolario e dai diari: La fiaba della mia vita inquadra
soltanto amori platonici per irraggiungibili fanciulle di nobile
famiglia, o per l'altrettanto irraggiungibile Jenny Lind, celebre
cantante dell'epoca.
Eppure, se si va al di là
del tentativo di vedere in una autobiografia un documento
processuale, La fiaba della mia vita ha molto da dire, e non
solo come testimonianza di un'epoca fervida di idee edi incontri o
come ineguagliabile raccolta di reportage di viaggio (impressionabile
e ipocondriaco, Andersen trascorse tuttavia lunghi periodi della sua
vita tra treni e battelli e vapore, andando su e giù per l'Europa,
dall'amatissima Italia, dove tornò più volte, a Parigi, a Berlino).
Ha molto da dire, il libro, su Andersen e in genere su tutti igrandi
scrittori che siamo abituati a considerare “per bambini”, perché
ci mostra come qui forse più che altrove autobiografia e scrittura
narrativa si intreccino in modo pressoché inestricabile e come la
categoria dei libri per l'infanzia sia un'invenzione dell'industria
editoriale, alla quale d'altronde proprio Andersen - autore di
numerosi romanzi per adulti - si ribellò: «Per fornireai lettori
una prospettiva», scrive nell'autobiografia, «avevo intitolato i
primi fascicoli Fiabe narrate ai bambini; avevo messo i miei
brevi racconti sulla carta nel linguaggio e con le espressioni con
cui io stesso li avevo narrati ai piccoli, e mi ero reso conto che
erano gradite alle età più diverse; i bambini si divertivano
soprattutto con quello che chiamerei l'ornamento, invece il grande si
interessava all'idea più profonda. Le fiabe divennero una lettura
per bambini e adulti, e credo che nella nostra epoca sia questo
l'obiettivo di chi vuole scrivere fiabe. Cominciarono a trovare porte
aperte e cuori aperti; e a quel punto cancellai “narrate ai
bambini”».
E giustamente: per quanto
vi si racconti di ragazzi e ragazze, di animaletti, di regine o di
re, storie come La principessa sul pisello o I vestiti
nuovi dell'imperatore parlano anche, se non soprattutto, a chi
conosce per esperienza intima la vigliaccheria, la meschinità, la
vanagloria. Come Andersen, del resto.
pagina 99we sabato
5 dicembre 2015
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