2.8.17

Artemisia Gentileschi. Storia di stupro e di pittura (Nicola Tranfaglia)

Artemisia Gentileschi, Autoritratto in vesti di pittura
«Mi ritrovo una figliola femina con altri tre maschi e questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione di pittura, in tre anni si è talmente appraticata, che posso ardir di dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatto opere, che forse principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere...». Chi parla così, nella Roma dei Papi e della Corte pontificia nel 1612, è Orazio Gentileschi, seguace non tra i minori del Caravaggio e autore, con Agostino Tassi, degli splendidi affreschi ordinati dal cardinale Scipione Borghese per il Casino delle Muse, nel palazzo Rospigliosi — Pallavicini.
Orazio descrive con pochi tratti sua figlia Artemisia Gentileschi (che aveva a quel tempo compiuto diciotto anni), «l’unica donna in Italia», secondo Roberto Longhi — che, riscoprendo Caravaggio e la sua scuola, se ne era occupato fin dal 1916 —-, «che abbia mai saputo cosa sia la pittura». Il nome della pittrice è stato legato a lungo a un quadro, Giuditta e Oloferne, in cui i valori formali e pittorici si mescolano in maniera assai stretta a quelli simbolici derivanti dall’episodio della giovinetta ebrea che uccide il generale assiro, compiendo la vendetta del suo popolo oppresso e nello stesso tempo riscattando la violenza subita.
Ma ora la pubblicazione, a cura di Eva Menzio e con interventi di Roland Barthes e di Anne Marie Boetti, degli Atti di un processo per stupro (Edizioni delle donne), consente di ricostruire con assai maggior precisione le vicende e la personalità umana di un’artista divenuta negli ultimi anni, soprattutto in Italia, una sorta di punto fermo nel complicato dibattito che riguarda le attitudini della donna alla produzione artistica, all’ interno di un universo costruito a misura dell’uomo.
L’episodio narrato dal libro, o meglio documentato attraverso una scelta degli atti processuali (cui si aggiungono lettere scambiate dalla pittrice durante i suoi viaggi e la sua attività a Napoli, Londra, Firenze, Genova) appare centrale nell’esistenza di Artemisia. Proprio nel 1612, Orazio Gentileschi accusa Agostino Tassi, amico e compagno di lavoro, di aver usato violenza alla figlia Artemisia e lo trascina davanti al Tribunale di Roma dove per sei mesi (dal marzo all’ottobre) si svolge un clamoroso processo davanti a testimoni che mentono, con uso di torture nei confronti sia di Artemisia sia di Agostino, fino a che il pittore viene ritenuto colpevole di stupro.
Ma il processo mette a nudo contraddizioni e ambiguità che rivelano un intrico complesso e ancora oggi difficile da decifrare. Artemisia accusa implacabilmente Agostino e regge anche al tormento delle cordicelle di seta inflittole perché dica la verità, ma ammette di aver continuato a frequentare e ad amare il giovane pittore (che era stato, per desiderio del padre, il suo maestro di prospettiva) e si lamenta piuttosto di non essere stata sposata dal Tassi, che pure glielo aveva promesso. Agostino, da parte sua, nega la violenza ma in modo non molto convincente, insistendo piuttosto sul fatto che Artemisia era donna «di malaffare» perché aveva già avuto molti amanti. Infine, Orazio Gentileschi si comporta in maniera a dir poco contraddittoria: aspetta un anno prima di denunciare Tassi con una supplica al papa Paolo V, parla senza nesso apparente del furto di un quadro che potrebbe essere stato compiuto dal compagno di lavoro e — quel che è ancora più strano — dopo il processo riprende a frequentare Agostino, una volta uscito di prigione, come se nulla fosse accaduto.
Un succedersi così incredibile di azioni e di comportamenti autorizza i biografi dell’uno e dell’altro personaggio (anche Agostino Tassi, pittore «maledetto» di stupendi paesaggi, è stato di recente riscoperto e studiato con attenzione da Teresa Pugliatti in un libro intitolato A.T. tra conformismo e libertà) ad avanzare ipotesi divergenti sia rispetto al reale andamento dei fatti, sia riguardo all’analisi di una pittura come quella della Gentileschi, intrisa in ogni punto di una sensibilità fortemente auto-biografica.
Se il discorso dovesse riguardare soltanto il capolavoro su Giuditta e Oloferne e il suo significato, si potrebbe ricordare il penetrante commento di Longhi a proposito della cifra che caratterizza l’uccisione sacrale del generale nemico: «qui non v’è nulla di sadico, anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue, sprizzando con violenza, può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile, vi dico! Eppoi date per carità alla signora Schiattesi - questo è il nome coniugale di Artemisia - il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine, non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla!».
Non c’è dubbio sul fatto che l’analisi di Longhi colga un elemento importante del capolavoro di Artemisia e forse, più in generale, del suo modo di rappresentare attraverso i colori. Ma l’allargamento dello studio a tutta la sua produzione, a quadri ora apprezzati come Ester davanti ad Assuero o l’Autoritratto in veste di pittura, come la riflessione sul significato di quel processo del 1612 con i rapporti ambigui e complicati di Artemisia con Agostino e con il padre Orazio, inducono a una visione più problematica del suo itinerario complessivo di pittrice e di donna.
Le notizie che, dopo l’avventura romana del 1611-12, abbiamo di lei, malgrado le nuove ricerche e i documenti pubblicati, sono abbastanza scarne: amata e stimata come artista di talento, girò per l’Italia al servizio di principi e di Corti che apprezzavano in lei non certo l’originalità dei soggetti prescelti o delle storie narrate (sempre di argomento biblico, nell’Italia della Controriforma) ma la ricchezza e l’intensità dei sentimenti femminili (dalla dolcezza allo spirito di rivolta, al languore e alla sensualità) che emergono nei suoi quadri e nei suoi ritratti. Fu questo un modo, per Artemisia, di esprimere nelle tele un mondo di desideri e di bisogni che nella sua vita erano conculcati? Da un confronto tra i quadri e la sua esistenza si può ricavare una trama nuova ed eccezionale della sua vicenda e dei suoi tempi?
Sono interrogativi a cui né le curatrici del volume, né chi scrive sono in grado, almeno per ora, di rispondere.

"la Repubblica", ritaglio senza data, probabilmente 1977.

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