Cambiano
mode e umori, i generi mutano ed evolvono, scuole e filoni si
susseguono, eppure continua a essere considerato un maestro. Anche da
chi non si riconosce appieno nelle .sue pagine, o da chi dichiara di
voler andare «oltre» la sua scrittura e di volerselo lasciare alle
spalle. Più di Chandler, forse anche di Hemingway, Dashiell Hammett
continua a essere un punto di riferimento obbligato per chiunque
intenda misurarsi con una pratica di scrittura secca e disincantata,
immersa negli incubi e nei fantasmi mentali della contemporaneità.
Strano
impasto di romanticismo e cinismo, di whisky ed ebbrezze, di
comunismo militante e feroce malinconia, la scrittura di Dashiell
Hammett continua a essere un terreno di prova e di sfida per i
traduttori. Non a caso, è uno dei pochi esponenti dell’hard
boiled shool americana che
sollecita sempre nuove traduzioni: come se dietro (e dentro) le sue
pagine si intravvedesse ogni volta un «nocciolo» comunicativo
(ludico, politico ed esistenziale) bisognoso di continui e incessanti
aggiornamenti di «codice», proprio perché infrangibile e non
deteriorabile nella sua compatta interiorità. Ultima arrivata in
ordine cronologico, è da pochi giorni in libreria una nuova
traduzione del capolavoro indiscusso di Hammett The Maltese
FaJcon, curata da Attilio
Veraldi. E questa volta già il titolo italiano contiene una novità:
non più Il falcone maltese
o Il mistero del falco,
bensì - in base a una lezione che pare filologicamente più corretta
- Il falco maltese.
Veraldi
(romanziere in proprio, e apprezzato traduttore dall’americano)
affronta così il celebre incipit del romanzo: «Pronunciata e
ossuta, la mascella di Sam Spade presentava un mento appuntito che
sporgeva da sotto l’arco più dolce delle labbra. Quella stessa
forma appuntita riviveva poi, ridotta, nelle narici arcuate. Gli
occhi erano regolari e d’un grigio giallognolo. Nell’arco delle
sopracciglia folte, che partivano da due solchi gemelli dritto sopra
al naso aquilino, ritornava ancora la forma appuntita mentre i
capelli, castano chiaro, si spingevano a punta anch’essi, sulla
fronte con un’accentuata stempiatura ai lati. Sembrava un satana
biondo. Quasi attraente». Confrontiamola con la traduzione di
Marcella Hannau per la vecchia edizione Longanesi: «La mascella di
Sam Spade era ossuta e pronunciata, il suo mento era una V appuntita
sotto la mobile V della bocca. Le narici disegnavano un’altra V,
più piccola. Aveva occhi giallo-grigi, orizzontali. Il motivo della
V era ripreso dalle spesse sopracciglia che si diramavano da due
rughe gemelle al di sopra del naso aquilino e l’attaccatura dei
capelli castano-chiari scendeva a punta sulla fronte partendo da
un’ampia stempiatura. Somigliava, in modo abbastanza attraente, a
un diavolo biondo».
Differenze?
Poche, ma significative. Da una traduzione come quella della Hannau
che mette in evidenza prima di tutto le cose, si passa al lavoro di
Veraldi che pare attratto dalla forma delle cose. Cambiano poi il
ritmo, il respiro sintattico, il grado e il livello di
simbolizzazione e, per così dire, di alfabetizzazione (nella
versione Harrau quella «V» più volte citata fa del volto di Spade
quasi un frammento di abbecedario o di alfabeto, con Veraldi
l’alfabeto diventa lingua descrittiva e qualificante). AI di là di
ogni giudizio di valore, quel che conta è che le differenze
rappresentano spostamenti progressivi del linguaggio attorno a un
mito che non cambia, e che non appartiene ormai più in esclusiva
alla lingua di Hammett, ma all’immaginario della società
multimediale che di quella lingua si è impadronito (a cominciare dal
cinema, e dall’interpretazione indimenticabile di Bogart nei panni
di Spade).
Per
questo, paradossalmente, The Maltese Falcon vive
e sopravvive a prescindere dalla lingua che di volta in volta lo
riporta in scena. Perché Spade, comunque descritto, ci somiglia. E
perché la sua storia ci appartiene. Non a caso, come ha scritto Enzo
Ungari, è la storia di qualcuno che per pochi dollari al giorno (più
le spese...) «corre dietro a un sogno, ipnotico e immateriale e che
si ritrova, da inseguitore, inseguito, e da cacciatore preda;
un’altra vittima, una delle tante, che popolano l’immenso
cimitero del noir americano».
“la
talpa libri – il manifesto”, 22 novembre 1991
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