23.8.17

Dashiell Hammett. Un insuperabile impasto di disincanto (Gianni Canova)

Cambiano mode e umori, i generi mutano ed evolvono, scuole e filoni si susseguono, eppure continua a essere considerato un maestro. Anche da chi non si riconosce appieno nelle .sue pagine, o da chi dichiara di voler andare «oltre» la sua scrittura e di volerselo lasciare alle spalle. Più di Chandler, forse anche di Hemingway, Dashiell Hammett continua a essere un punto di riferimento obbligato per chiunque intenda misurarsi con una pratica di scrittura secca e disincantata, immersa negli incubi e nei fantasmi mentali della contemporaneità.
Strano impasto di romanticismo e cinismo, di whisky ed ebbrezze, di comunismo militante e feroce malinconia, la scrittura di Dashiell Hammett continua a essere un terreno di prova e di sfida per i traduttori. Non a caso, è uno dei pochi esponenti dell’hard boiled shool americana che sollecita sempre nuove traduzioni: come se dietro (e dentro) le sue pagine si intravvedesse ogni volta un «nocciolo» comunicativo (ludico, politico ed esistenziale) bisognoso di continui e incessanti aggiornamenti di «codice», proprio perché infrangibile e non deteriorabile nella sua compatta interiorità. Ultima arrivata in ordine cronologico, è da pochi giorni in libreria una nuova traduzione del capolavoro indiscusso di Hammett The Maltese FaJcon, curata da Attilio Veraldi. E questa volta già il titolo italiano contiene una novità: non più Il falcone maltese o Il mistero del falco, bensì - in base a una lezione che pare filologicamente più corretta - Il falco maltese.
Veraldi (romanziere in proprio, e apprezzato traduttore dall’americano) affronta così il celebre incipit del romanzo: «Pronunciata e ossuta, la mascella di Sam Spade presentava un mento appuntito che sporgeva da sotto l’arco più dolce delle labbra. Quella stessa forma appuntita riviveva poi, ridotta, nelle narici arcuate. Gli occhi erano regolari e d’un grigio giallognolo. Nell’arco delle sopracciglia folte, che partivano da due solchi gemelli dritto sopra al naso aquilino, ritornava ancora la forma appuntita mentre i capelli, castano chiaro, si spingevano a punta anch’essi, sulla fronte con un’accentuata stempiatura ai lati. Sembrava un satana biondo. Quasi attraente». Confrontiamola con la traduzione di Marcella Hannau per la vecchia edizione Longanesi: «La mascella di Sam Spade era ossuta e pronunciata, il suo mento era una V appuntita sotto la mobile V della bocca. Le narici disegnavano un’altra V, più piccola. Aveva occhi giallo-grigi, orizzontali. Il motivo della V era ripreso dalle spesse sopracciglia che si diramavano da due rughe gemelle al di sopra del naso aquilino e l’attaccatura dei capelli castano-chiari scendeva a punta sulla fronte partendo da un’ampia stempiatura. Somigliava, in modo abbastanza attraente, a un diavolo biondo».
Differenze? Poche, ma significative. Da una traduzione come quella della Hannau che mette in evidenza prima di tutto le cose, si passa al lavoro di Veraldi che pare attratto dalla forma delle cose. Cambiano poi il ritmo, il respiro sintattico, il grado e il livello di simbolizzazione e, per così dire, di alfabetizzazione (nella versione Harrau quella «V» più volte citata fa del volto di Spade quasi un frammento di abbecedario o di alfabeto, con Veraldi l’alfabeto diventa lingua descrittiva e qualificante). AI di là di ogni giudizio di valore, quel che conta è che le differenze rappresentano spostamenti progressivi del linguaggio attorno a un mito che non cambia, e che non appartiene ormai più in esclusiva alla lingua di Hammett, ma all’immaginario della società multimediale che di quella lingua si è impadronito (a cominciare dal cinema, e dall’interpretazione indimenticabile di Bogart nei panni di Spade).
Per questo, paradossalmente, The Maltese Falcon vive e sopravvive a prescindere dalla lingua che di volta in volta lo riporta in scena. Perché Spade, comunque descritto, ci somiglia. E perché la sua storia ci appartiene. Non a caso, come ha scritto Enzo Ungari, è la storia di qualcuno che per pochi dollari al giorno (più le spese...) «corre dietro a un sogno, ipnotico e immateriale e che si ritrova, da inseguitore, inseguito, e da cacciatore preda; un’altra vittima, una delle tante, che popolano l’immenso cimitero del noir americano».


“la talpa libri – il manifesto”, 22 novembre 1991

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